giovedì 30 aprile 2009

Mentre Bernspan chiede a Citgroup e a Bank of America di aumentare il capitale, Pandit chiede il via libera per pagare i bonus!

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Quando ho letto ieri il dispaccio dell’Associated Press, ho davvero pensato a uno scherzo, ma la professionalità e la reputazione dell’agenzia di stampa americana mi ha convinto che era proprio vero che Vikram Pandit, Chief Executive Officer del colosso creditizio statunitense Citigroup ha chiesto l’autorizzazione preventiva di Timothy Geithner, ministro del Tesoro di Obama, a erogare i bonus ai suoi sottoposti, deroga necessaria in quanto Citi è stata beneficiata di fondi pubblici per ben 45 miliardi di dollari, oltre che sollevata di titoli più o meno tossici della finanza strutturata per qualche centinaio di miliardi di dollari, e che la banca versa in un tale stato da aver indotto l’amministrazione americana a convertire buona parte delle operosissime preferred shares in capitale di rischio, cioè in azioni ordinarie, imponendo peraltro che i fondi governativi cinesi, il principe arabo Al Whaleed ed altri detentori di azioni privilegiate facessero lo stesso.

Non mi stupisco tanto del fatto che i vertici della più importante banca a stelle e strisce agiscano, come ha ben sottolineato Jacques Attali in un suo libro sulla crisi appena uscito, come fanno i ladri che, al suono della sirena della polizia, scappano arraffando tutto il possibile, ma non riesco proprio a credere che Pandit o il numero uno di Bank of America, Kenneth Lewis, possano osare di avanzare proposte della specie negli stessi giorni in cui il sistema della riserva federale, effettuati i cosiddetti stress test, ha chiesto alle due grandi banche statunitensi di varare in fretta e furia un aumento di capitale, una richiesta che implica che gli attuali livelli di capitalizzazione non sono sufficienti a garantire rispetto ai rischi emersi dalle procedure di verifica cui Citi e BofA, come le altre diciassette principali protagoniste del mercato finanziario statunitense, sono state sottoposte!

Pur ignorando del tutto cosa risponderà Geithner a questa stravagante richiesta di Pandit, vorrei, tuttavia, renderne note le motivazioni ufficiali avanzate a supporto e che consistono, in buona misura, nel fatto che la non erogazione dei premi rischierebbe di fare venire a qualcuno dei mancati beneficiari l’idea di abbandonare la nave e di approdare ad altre banche statunitensi o straniere, anche se non capisco proprio dove potrebbero andare questi fulmini di guerra targati Citi, visto che i primi a saltare nelle banche di tutto il mondo sono stati proprio i manager di medio e alto livello quali loro, presumibilmente, sono!

Leggendo un'altra notizia, ho anche capito perché Lewis ha lasciato che Pandit si muovesse da solo, in quanto ha dovuto affrontare, sempre ieri, una non del tutto pacifica assemblea degli azionisti che, per non sapere né leggere né scrivere, hanno presentato una mozione per evitare che Kenneth continuasse ad accumulare le due cariche di Chairman e di Chief Executive Officer di BofA, una richiesta tutt’altro che peregrina, in quanto, secondo i proponenti, è meglio avere un Chairman del Board of Director indipendente dall’apparato sottostante e meno incline di Lewis a giustificare quanto è avvenuto in questi ultimi due anni, inclusa la decisione di mettersi in casa la tecnicamente fallita Merrill Lynch, chiudendo peraltro un occhio, se non tutti e due, quando, nel mese di dicembre del 2008, il poi defenestrato John Thain decise di erogare bonus per miliardi di dollari complessivi ai suoi collaboratori, anche se fu costretto a fare il bel gesto di rinunciare al suo.

La prossima volta che qualcuno mi chiede come sia possibile che siamo giunti all’attuale livello di sfacelo nell’un tempo magico mondo della finanza credo proprio che gli racconterò l’incredibile storia descritta di sopra, premettendo che la stessa è tutto tranne che un eccezione, così come è un dato accertato quello relativo al livello più che ragguardevole dei premi distribuiti a Wall Street e dintorni nel davvero orribile 2008, si proprio l’anno orribile per le banche di ogni ordine e grado operanti negli Stati Uniti d’America, non che negli altri continenti le banche se la siano passata meglio!

Non avevo finito di leggere le previsioni sull’andamento del prodotto interno lordo statunitense nel primo trimestre dell’anno in corso, anticipazioni che vedevano un rallentamento della caduta libera da oltre il 6 per cento annualizzato a ‘solo’ il 5 per cento, che è stato annunciato dall’apposito dipartimento che, in base alla prima lettura (ne vengono diffuse tre, a cadenza mensile), il PIL a stelle e strisce si è contratto di un rotondo 6,1 per cento e che il dato sarebbe stato di gran lunga superiore se le instancabili cicale americane non avessero decido di riprendere nei loro acquisti di beni di consumo (+2,2 per cento nei confronti di un orribile ultimo trimestre del 2008), compensando almeno in parte il crollo del 30 per cento delle esportazioni (già calate di oltre il 22 per cento nell’ultimo quarto dell’anno scorso), il calo del 38 per cento negli investimenti edilizi e del 37,9 per cento per gli investimenti negli altri settori dell’economia a stelle e strisce.

Il dato conferma sostanzialmente l’ultima lettura di quello relativo al periodo ottobre-dicembre 2008 (-6,3 per cento), ma è assolutamente peggiore della prima e ottimistica lettura fornita nel mese di gennaio dell’anno in corso, una circostanza che non esclude che, tra due mesi, ‘scopriremo’ che la previsione catastrofica del Dr. Doom, al secolo, Nouriel Rubini, che ha anticipato un calo compreso tra il 6,5 e il 7,5 per cento si sarà, purtroppo, avverata.

La speranza che nel primo trimestre si sia scaricato tutto il male del mondo e che già nel secondo quarto dell’anno le cose possano mettersi un po’ meglio, con una flessione tra il 2 e il 3 per cento, è una speranza legittima e molto accarezzata dalla nuova amministrazione statunitense e il fatto che non sia condivisa da me e dalle altre Cassandre sparse nel pianeta non disturba certo i manovratori dell’elezione e delle ambizioni di Barack Obama, molto, ma molto più interessati all’evidente declino del sogno europeo e al ridimensionamento delle velleità dell’India e della Cina, nonché dell’evidente perdita di peso della Russia e dell’OPEC!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo www.flipnews.org . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

Marco Sarli
Ufficio Studi UILCA

mercoledì 29 aprile 2009

Avviso ai naviganti nella tempesta perfetta: attenti al portafoglio!

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Mentre la decisione di dare vita all’avventura editoriale del Diario della crisi finanziaria è esclusivamente mia, mi sembra giusto confidare ai miei lettori, in particolare a quelli che mi stupiscono e un po’ commuovono per la loro assiduità, che molte delle valutazioni presenti nel testo sono anche il frutto di colloqui che sto avendo con le cosiddette ‘voci di dentro’, donne e uomini impegnati in prima linea nell’investment banking, un settore di attività che ho avuto il privilegio di conoscere personalmente, ma che non mi vede impegnato in prima persona sin dalla notte dell’euro nel maggio del 1998, una data che rappresenta lo spartiacque tra l’attività di economista della tesoreria in valuta e cambi di una importante banca italiana e l’impegno a tempo pieno come responsabile dell’ufficio studi e dell’ufficio stampa presso la segreteria nazionale della UILCA.

Da questi intensi e fecondi colloqui, ho avuto a volte la conferma di idee che mi ero autonomamente fatto, ma anche spunti di riflessione che, a volte istantaneamente, a volte più in là nel tempo, mi hanno consentito una visione diversa dei fenomeni evidenziati dalla tempesta perfetta, anche se, come opportunamente si scrive nella prefazione dei libri, al di là dell’immenso debito di riconoscenza che nutro nei confronti di queste persone preparate, gentili e disponibili, ogni responsabilità per quanto riportato nelle poco meno di 600 puntate del Diario della crisi finanziaria, errori compresi, resta ovviamente soltanto mia.

I lettori che hanno la bontà di ricordare il titolo e il contenuto della puntata di ieri, in larga misura deidcata ai poveri detentori di obbligazioni delle tecnicamente fallite General Motors e Chrysler, si sono trovati di fronte a un esempio di effetto ritardato di una di queste chiacchierate con un esperto, una persona di notevolissima preparazione e acume, il quale, alla domanda su come si esce da una situazione che vede assets problematici e rischi via Credit Default Swaps per una cifra stimabile in 150 mila miliardi di dollari, mi lasciò letteralmente basito, dicendomi con candore che tutto dipende da quanto varrà alla fine quel titolo della finanza più o meno strutturata, esattamente quello che è accaduto con i detentori di bonds GM o Chrysler che riceveranno soltanto una frazionale parte di quanto a suo tempo ‘prestato’ all’una o all’altra casa automobilistica a stelle e strisce!

Confesso che la portata di quella ‘rivelazione’ mi divenne chiara solo molto, ma molto più tardi quando ebbi modo di sentire il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, dire più o meno le stesse cose, anche se in modo molto meno raffinato, intervenendo alla fortunata trasmissione televisiva di Fabio Fazio, “Che tempo che fa”, una trasmissione alla quale aveva partecipato poco negli anni precedenti, forse perché il cognome del conduttore gli ricordava troppo quello dell’omonimo Antonio, il ciociaro Governatore della Banca d’Italia per tredici anni che Giulio proprio non poteva soffrire, senza peraltro darsi pena di nascondere in alcun modo il suo pensiero né in patria, né quando entrambi erano presenti in importanti incontri e summit internazionali.

Credo sia utile spiegare i motivi alla base della mia così prolungata resistenza di fronte ad un’idea in fondo lapalissiana come quella espostami dall’esperto prima e dal ‘commercialista’ prestato alla politica poi, anche perché essa affonda le radici in una mia forse eccessiva fiducia nel ‘pacta servanda sunt’ o nella necessità intrinseca in un sistema finanziario evoluto di non compiere azioni distruttive allo stesso tempo della ricchezza e della fiducia che è, o almeno dovrebbe essere, cara ai decision makers e a quelle autorità monetarie che un tempo scrivevo con le iniziali maiuscole, ma per le quali si potrebbe ora utilizzare anche un diminutivo!

E’ vero, d’altra parte, che l’interposizione degli Stati e delle banche centrali nel mercato finanziario globale, spesso in sostituzione delle stesse banche universali, commerciali o più o meno globali riduce, e di molto, la necessità di stabilire o ristabilire un clima di fiducia da parte dei risparmiatori/investitori nelle istituzioni finanziarie, una circostanza che spiega anche la virulenza delle affermazioni molto pesanti con le quali leaders politici, banchieri centrali e regolatori di ogni ordine e grado hanno negli ultimi tempi bollato l’operato dei vertici delle diverse entità protagoniste del mercato finanziario globale, consapevoli come non possono che essere dopo aver trascorso buona parte dei fine settimana dell’ultimo anno e mezzo tra vertici e incontri che un ordinato esercizio dell’attività creditizia sarà possibile solo quando si saranno placati gli impetuosi venti della tempesta perfetta e si sarà ridotta almeno della metà l’entità della ‘carta’ attualmente in circolazione.

Non sono assolutamente in grado di intuire la percentuale di recupero che mediamente spetterà a quanti hanno commesso l’errore di investire le proprie ricchezze o i propri risparmi nei titoli rappresentativi del debito delle corporations, delle banche o degli altri soggetti emittenti, né, tanto meno, quanto recupereranno alla fine della fiera i detentori di titoli più o meno tossici della finanza strutturata, ma credo che sia assolutamente necessario che queste perdite non siano addossate alla collettività dei contribuenti, restando convinto della validità del più che noto detto che prevede che “chi rompe paga e i cocci sono suoi”!

Non posso finire questa puntata di ringraziamenti senza citare quegli interlocutori che mi hanno spinto a occuparmi di questioni legate agli aspetti geopolitici della crisi finanziaria e agli aspetti che potrebbero essere sommariamente definiti propri dell’intelligence strategica, questioni che assumono una rilevanza enorme quando si verifica un processo di distruzione di ricchezza di dimensioni inedite come quello prodotto non solo e non tanto dalla tempesta perfetta in corso oramai da oltre ventuno mesi, ma anche, e in misura certamente più incisiva, dalla gestione della stessa da parte dei governi e delle banche centrali!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo www.flipnews.org . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

martedì 28 aprile 2009

GM e Chrysler forse si salvano, ma ai bondholders resterà in mano un pugno di mosche!

Tra esattamente dieci giorni la tempesta perfetta compie i suoi primi ventuno mesi di vita ed entra, quindi, nel ventiduesimo e, poiché nessuno pensa a un suo esaurirsi nel volgere di due-tre mesi, è facile scommettere sul tranquillo compimento del suo secondo compleanno il 9 agosto del 2009, anche se credo proprio che saranno in pochi a volerlo festeggiare, in particolar modo quei leader politici mondiali e quei banchieri più o meno centrali che addebitano, a torto o a ragione, allo scoppio contemporaneo delle molteplici bolle speculative che hanno dato origine all’evento più catastrofico mai verificatosi a memoria di donna o di uomo la fine della loro tranquillità, presi come sono da un tourbillon di incontri, vertici, summit, telefonate a tutte le ore del giorno e della notte e intensi conciliabili che non rispettano né le feste comandate né, tanto meno, i più o meno meritati periodi di vacanza e riposo!

Sarebbe troppo facile cavarsela con la battuta che veniva di frequente rivolta al per due volte presidente del consiglio italiano, Romano Prodi, l’unico esponente del centro-sinistra ad avere battuto per ben due volte il coriaceo Silvio Berlusconi, ma anche noto per la sua sincera passione ciclistica, ma è del tutto vero che nessuno costringe, pistola alla tempia, alcuno ad aspirare a raggiungere posizioni di comando, salvo scoprire, sin dal giorno successivo alla vittoria, che il potere reale di un premier è ben scarsa cosa rispetto a quello di cui godono i decision makers di Big Finance, Big Oil, Big Pharma, Big Tabacco, entità che, come ricordavo nella punta di ieri del Diario della crisi finanziaria,hanno oramai raggiunto dimensioni pressoché planetarie e si ricordano dei governi e delle autorità monetarie solo quando sono, come accade di questi tempi, con le pezze al sedere.

Tornando alle ricorrenze e ai futuri genetliaci della tempesta perfetta, mi permetto sommessamente di osservare come, ad onta dei poco meno di quindicimila miliardi di dollari più o meno gettati al vento al di qua e al di là dell’Atlantico e nell’area del Pacifico, poco o nulla è cambiato nel mercato finanziario sia a livello delle singole nazioni che a quello globale, fatta eccezione per i crescenti sacrifici richiesti ai detentori dei titoli della finanza più o meno strutturata, banche, compagnie di assicurazione, investitori istituzionali e in carne e ossa, che continuano a tenersi in mano pezzi di carta il cui valore facciale si è nella maggior parte dei casi letteralmente polverizzato, circostanza che sarebbe riscontrabile sia nei rispettivi bilanci che nelle graduatorie della ricchezza personale stilate da prestigiose e patinate riviste, non fosse che ciò risulta vero e incontrovertibile per le seconde, mentre i primi, con particolare riferimento a quelli stilati dalle entità a stelle e strisce, appartengono oramai più alla letteratura fantasy che a quella contabile!

Non so assolutamente nulla di quello che stanno macchinando, pigramente sdraiati nei loro esclusivi resorts esotici, David Einhorn e quel pugno di billionaires che al giovane finanziere si sono prontamente accodati, anche se credono che stiano alternando la loro vocazione di shortists convinti di tutto quello che ha a che fare con la finanza con speculazioni rialziste basate sulle alquanto sciocche manovre dei regolatori disperati che si ostinano a pensare che sia possibile prosciugare gli oceani della finanza strutturata con un cucchiaino da caffé a testa, una chimera con la quale hanno stregato anche quelle persone più o meno di buon senso e caratterizzate da precedenti esperienze professionali e imprenditorialia assurte al rango di premier e di presidenti delle rispettive repubbliche, ma anch’essi talmente disperati da essere pronti a credere a qualunque favola, ad eccezione di quella che si conclude con il ragazzino sveglio di turno che strilla che il re è proprio nudo.

Nel frattempo, il destino dei colossi industriali orfani dei loro rami finanziari che ritenevano poter essere in eterno quelle galline dalle uova d’oro che erano effettivamente stati per lungo tempo è quanto mai incerto, con file di Chairman e Chief Executive Officer a pietire l’aiuto di quello Stato che per decenni avevano dichiarato dover essere minimo, poco o nulla invadente, delegificatore, il tutto nella beata convinzione che il mercato fosse realmente un luogo perfetto di conciliazione dei più disparati interessi e che davvero il livello dei prezzi relativi venisse fissato dal battere della mazza del mitico banditore immaginato dal fantasioso economista che rispondeva al nome di Marie-Esprit Leon Walras!

Delle tante frasi pronunciate in queste settimane dal solitamente taciturno e prudente numero uno della Fiat, Serge Marchionne, una mi ha profondamente colpito ed è quella riferita alla determinazione del nuovoe giovane inquilino della Casa Bianca, Barack Hussein Obama, uno che, a sentire Marchionne, non fissa certo una scadenza, quella del 30 aprile per risolvere i casi General Motors e Chrysler, una convinzione che mi trova perfettamente d’accordo, anche alla luce del fatto che il nutrito comitato d’affari bipartisan che ha tanto investito sulle elezioni di Obama tutto può permettersi meno che il fallimento dei due terzi del sistema automobilistico a stelle e strisce, per non parlare poi degli storici rapporti che legano la casata degli Agnelli con quella dei Rockfeller, uno dei quali ha fortemente voluto la nascita del Council for Foreign Relations ed è stato animatore della Trilaterale prima e del gruppo Bildberg poi, uno, insomma, che sa benissimo chi è meritevole di aiuti pubblici miliardari e può aspirare a ereditare il fallimentare lascito delle locuste annidate in uno dei più celebri private equity statunitensi e che risponde al nome di Cerberus.

Più immaginifica la possibile soluzione prevista per General Motors, con la creazione della più grande società cooperativista del pianeta, una soluzione che farà pure inorridire i sempre più rari profeti delle qualità salvifiche del ‘libero mercato’ e farà anche rivoltare nella tomba Ronald Reagan e i tanti defunti della cosiddetta Scuola di Chicago, ma è forse l’unica soluzione possibile, anche se non è di poco momento che in un caso come nell’altro a restare con un pugno di mosche in mano saranno i poveri detentori di bonds emessi a piene mani dalle due case automobilistiche!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo www.flipnews.org . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

lunedì 27 aprile 2009

Chi vincerà tra gli Stati e le multinazionali?

Per una volta almeno, mi trovo d’accordo con il Governatore della Banca d’Italia e al contempo presidente del Financial Stability Group, Mario Draghi, che ha improvvisato un duetto con il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, a tutto beneficio della stampa presente ai vertici paralleli dei ministri finanziari del G7 e del G20/21 svoltisi nel fine settimana a Washington, un duetto di battute che è parso ai più un po’ forzato, ma che è servito sia a notificare l’armistizio tra i due che a chiarire che non è proprio il caso di parlare di superamento della crisi finanziaria ed economica in corso, né tanto meno di considerare in salvo le superstiti entità protagoniste del mercato finanziario globale.

Non dico questo per rafforzare la mia visione negativa sui continui annunci di svolte sempre dietro l’angolo ma che non si concretizzano mai, ma piuttosto perché credo che l’affermazione un po’ lapalissiana di Draghi e il mesto annuire di Tremonti, siano perfettamente in linea con le previsioni più accreditate formulate da quelli che un tempo erano definiti Cassandre e che vedono la ripresa possibile non prima della seconda parte del 2010, mentre è oramai quasi unanimemente esclusa qualsiasi possibilità di svolta nell’ultimo scorcio dell’anno in corso, anche se a me sembra molto più credibile lo scenario che vede la tempesta perfetta imperversare per tutto l’anno venturo, anche se, forse, l’altezza delle onde potrebbe essere di minore intensità rispetto alle dimensioni spaventose raggiunte negli scorsi poco meno di ventidue mesi.

D’altra parte, la maggiore cautela degli investitori è ben riflessa dal clima di maggiore riflessività e prudenza che è ben riflessa dall’andamento dei principali indici azionari mondiali dopo quella che, a seconda dei punti di vista, veniva definita la corsa dell’orso o il rimbalzo del coniglio morto, rialzi dettati molto più dalla speranza che dalla ragionevolezza, non fosse altro che per il banalissimo motivo che i problemi esplosi drammaticamente il 9 agosto del 2007 restano pressoché tutti sul tavolo o, per meglio dire, al di sopra e al di sotto della linea di bilancio delle maggiori entità protagoniste del settore del credito, di quello delle assicurazioni, per non parlare di quelli davvero disastrosi dei fondi pensione e dei fondi di investimento, degli hedge funds e chi più ne ha ne metta!

Fanno un po’ sorridere i titoli dei maggiori quotidiani del pianeta che ‘strillano’ a proposito delle nuove regole del gioco illustrate da Draghi, anche perché, chi si avventurasse nei relativi testi si troverebbe di fronte all’oramai classico vuoto torricelliano quando i commentatori e i cronisti si avventurano in vere e proprie arrampicate sui classici specchi determinate dal fatto che di regole, al di là di vuote petizioni di principio, non ne vuole sapere proprio nessuno, basti pensare alle solenni promesse di garantire maggiore trasparenza ai bilanci, impegni prontamente disattesi e contraddetti dal passaggio ufficiale dal mark to market al mark to fantasy, un’innovazione divenuta già norma e per di più retroattiva negli Stati Uniti d’America e che consente una miracolosa rivalutazione di quei titoli più o meno tossici della finanza strutturata che, quando trovano un’offerta, vengono scambiati tra il dieci e il venti per cento del loro valore nominale, un aiutino che non riesce comunque a mutare l’aperto scetticismo degli analisti più quotati e dei risparmiatori/investitori nei confronti del vero stato di salute delle diciannove maggiori entità operanti nel mercato finanziario a stelle e strisce e che si pone del tutto agli antipodi di quello che servirebbe per ristabilire quel clima di fiducia senza il quale non usciremo dall’attuale fase recessiva neanche tra dieci anni.

Per fare un paragone caratterizzato da un sufficiente tasso di attualità, sarebbe come se fosse consentito ai pazienti affetti dalla influenza suina di stabilire loro la temperatura corporea e il loro stesso stato di salute, un’ipotesi che porterebbe all’arresto immediato dei proponenti, ma che viene giudicata del tutto normale in quella sorta di casinò a cielo aperto che, secondo i presidenti della repubblica francese e di quella tedesca, è divenuto l’un tempo magico mondo della finanza!

Sto rileggendo il bel saggio che Jacques Attali ha dedicato al futuro del nostro pianeta, un testo di successo scritto prima che la tempesta perfetta mostrasse il suo vero volto e che precede il volume uscito in questi giorni e che, invece, si occupa proprio degli scenari post-crisi, e mi vedo costretto a dire che in quelle pagine c’era quasi tutto quello che è poi accaduto, una circostanza che rende merito alle qualità intellettuali dell’intellettuale francese, ma che la dice lunga sulla miopia della maggior parte degli economisti e dei cosiddetti esperti, quelli che hanno visto cinquanta delle zero riprese dell’economia soltanto negli ultimi dodici mesi.

In uno degli scenari intravisti da Attali, il braccio di ferro tra i governi e le entità multinazionali porta alla dissoluzione dell’impero americano e al predominio delle seconde sui primi, anche perché, a prescindere dal settore di prevalente operatività, le società operanti a livello globale non sopportano neanche l’idea di sottostare a regole uniformi e sufficientemente in linea con quelle vigenti nel paese dove hanno la loro sede legale, mentre quelle che si sono spinte già più oltre si sono dotate di apparati di sicurezza, di forze di polizia, se non, quando le condizioni lo richiedono, si sono avventurate anche in operazioni di intelligence difensiva e offensiva, ma anche, soprattutto quando operano molto lontano dalla madrepatria, di veri e propri eserciti privati utilizzati per difendere più efficacemente le loro proprietà, i propri manager e i loro più o meno leciti interessi!

Per nostra fortuna, almeno nel lontano futuro, questo stato di cose mortifero per la democrazia e per la tutela dell’ambiente dovrebbe innescare, sempre secondo Attali, una reazione di massa che potrebbe essere in grado di fare prevalere una forma di democrazia diretta che, sfruttando lo sviluppo delle nanotecnologie, potrebbe favorire economie maggiormente locali e, soprattutto, maggiormente rispettose dell’ambiente.

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo www.flipnews.org . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

domenica 26 aprile 2009

Un consiglio ai grandi del pianeta: fate una riunione per decidere di non farne proprio più!

Le contestuali riunioni dei ministri delle finanze del G7 e del più ampio G20/G21 svoltesi alla fine della settimana in quel di Washington non hanno suscitato un grande interesse da parte dei media, anche perché quanti sono chiamati a dosare lo spazio sui vari mezzi di informazione devono avere pensato, a torto o a ragione, che i loro lettori o telespettatori ne avessero francamente abbastanza di questa litania di vertici a geometria variabile che, a dispetto di un faticosissimo lavoro dei rispettivi sherpa, si risolvono in genere in incontri di poche ore, per lo più passate tra colazioni, pranzi e, quando capita, cene più o meno di gala.

Ho ricordato più volte una di queste cene, quella a cui vennero ‘comandati’ da Bernspan e Paulson i più importanti banchieri e finanzieri del pianeta, anche se non credo vi fosse alcun banchiere italiano, una cena rigorosamente a porte chiuse e nel corso della quale il Governatore della Banca d’Italia e allo stesso presidente del Financial Stability Group, Mario Draghi, tenne un discorso asciutto e che fece correre più di un brivido su per la schiena degli esponenti del gotha della finanza, anche perché si era solo a metà dell’aprile del 2008 e Lehman Brothers era ancora viva e Fannie Mae, Freddie Mac e AIG erano addirittura ancora entità private, ma già i protagonisti del mercato finanziario globale avevano capito che la tempesta perfetta avrebbe prodotto molte altre vittime tra i commensali presenti e Draghi e Paulson, pressoché all’unisono, sembravano credere che drastici provvedimenti contro chi aveva sbagliato sarebbero stati immancabilmente assunti nei successivi vertici dei sette/otto maggiori leaders del pianeta, previsti per il luglio e l’ottobre di quello stesso 2008.

Come è ampiamente noto, niente di tutto questo accadde, anche perché delle famose, numerose e dettagliate conclusioni del Financial Stability Forum, di recente allargato e ribattezzato Financial Stability Group, si è persa ogni traccia e i grandi del pianeta hanno avuto davvero altro che fare in quei primi giorni di ottobre successivi al fallimento di Lehman e al salvataggio di Merrill Lynch e alla nazionalizzazione, davvero provvidenziali per i commensali di aprile sopravvissuti, nei quali, come tuonava con il suo vocione il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, si rischiava proprio quel default sistemico che avrebbe spazzato via a decine banche più o meno globali e storiche compagnie di assicurazione, per non parlare poi dei più che prevedibili effetti che un simile scenario avrebbe prodotto sulla cosiddetta economia reale che, nei soli Stati Uniti d’America, vedeva fervere il dibattito collettivo sulla utilità o meno di evitare la bancarotta delle tre principali industri automobilistiche a stelle e strisce!

Non deve apparire del tutto strano che in una contingenza siffatta i grandi del mondo gettassero sic et simpliciter alle ortiche le conclusioni sui cui tanto si erano affannati Draghi e i suoi colleghi, quelli che per il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, erano poco più che “dei topi posti a guardia del formaggio”, e si dedicassero a garantire il garantibile, una garanzia pressoché onnicomprensiva che, per loro e nostra fortuna, nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di verificare, né tantomeno di provarsi a escutere, anche perché, come ha efficacemente ricordato di recente l’acuto Attali, tutti, ma proprio tutti, sapevano che non esistevano i soldi per farlo, se non nelle tasche dei contribuenti di tutto il mondo, quelle stesse tasche che i leaders politici mondiali dichiarano solennemente e ripetutamente di non volere violare.

Da allora sono trascorsi più di sei mesi e nessuno dei personaggi chiamati a vedersi un fine settimana sì e l’altro no, ha avuto il coraggio, o l’onestà intellettuale, per affermare quello che tutti, ispirandosi a uno sfortunato poeta embedded alla Rivoluzione russa dell’ottobre del 1917, pensavano: decidiamo di fare un vertice per decidere di non farne più!

Tant’è, gli obblighi della carica sono ineludibili e i nostri eroi continuano a ingrassare in colazioni, pranzi e cene tutte rigorosamente di lavoro, occasioni nelle quali molti di loro, ammesso che conoscano una lingua comune, non sanno davvero più che dirsi, anche perché si sono visti più spesso nei ventuno mesi di vita della tempesta perfetta che da quando sono, in molti casi da lunghissimo tempo, in carica, una situazione davvero paradossale e che ha costretto numerosi sarti delle donne e degli uomini più importanti del pianeta a costringere i propri dipendenti a fare gli straordinari per rinnovare i guardaroba degli alquanto disperati commensali, molti dei quali non ricordano davvero più quando hanno avuto il bene di trascorrere un week end con la propria famiglia, una o molteplice a quei livelli davvero non conta, per non parlare di un vero e proprio periodo di più che meritate vacanze.

Le cronache newyorkesi e londinesi ci aggiornano peraltro sugli sfoghi di mogli e amanti dei protagonisti dell’un tempo magico mondo della finanza, casalinghe di lusso davvero disperate che hanno deciso o stanno decidendo di lasciare al proprio destino i loro stressantissimi mariti o compagni di letto, spesso grazie al riparo di leggi sul divorzio molto, ma molto loro favorevoli, anche se raramente quanto lo è la legislazione californiana, a meno che le sventurate non siano state così sprovvedute da sottoscrive umilianti accordi prematrimoniali a garanzia del proprio amore totalmente disinteressato.

So che molti dei miei lettori troveranno strane e fuori luogo alcune di queste argomentazioni, ma vi assicuro che non si vive di solo pane e companatico, anche quando lo stesso è rappresentato da ostriche e champagne della migliore annata, così come mi permetto sommessamente di ricordare a chi ha la pazienza di seguirmi da venti mesi che, se la vita di tutti noi sta peggiorando, è opportuno ogni tanto pensare a quanti stanno soffrendo più di noi, orfani del jet aziendale, dell’ufficio iperattrezzato e di tutte quelle cose che rendono la vita degna di essere vissuta, affetti compresi!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo www.flipnews.org . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

sabato 25 aprile 2009

Bernspan tenta l'ultimo bluff!

Come avranno notato i miei lettori, non ho dedicato molto spazio nelle puntate del Diario della crisi agli stress test cui il sistema della riserva federale statunitense ha sottoposto le diciannove principali entità protagoniste del mercato finanziario statunitense, un groppone composto da ex banche di investimento e banche più o meno universali e globali e che include anche una compagnia di assicurazione, ma che, con riferimento alle sole banche, rappresenta ben la metà del totale attivo del sistema bancario a stelle e strisce.
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Il motivo del mio disinteresse sta tutto nel comunicato che la Federal Reserve ha diffuso ieri a mercati ancora aperti, un testo nel quale i collaboratori di Bernspan forniscono qualche prima indicazione, soprattutto di carattere metodologico, sull’esperimento in corso, ma chiariscono a chiare lettere che, al di là dei risultati, non sarà consentito a nessuna delle entità esaminate di fallire, che era poi quello che gli alquanto esausti analisti, operatori e investitori volevano sentirsi dire e, cioè, che non vi saranno altre tragedie tipo quella che ha colpito Lehman Brothers a metà di settembre dell’anno scorso e che ha portato nei giorni successivi il mercato finanziario globale sull’orlo di un default sistemico.
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Come risulta chiaro, l’impegnativo esercizio compiuto dalla Fed con la piena collaborazione di entità quali la potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, J.P. Morgan-Chase, Citigroup, Bank of America, Morgan Stanley e chi più ne ha ne metta era stato impostato avendo già chiaro in mente che il suo unico scopo sarebbe stato quello di provvedere a finanziare le entità esaminate a pié di lista, senza peraltro pretendere troppo dai banchieri beneficiati in termini di garanzie sull’utilizzo dei capitali ricevuti, né limitazioni troppo stringenti sui sistemi di compensation & benefit cui i vertici aziendali e i manager di prima e seconda linea sono tuttora molto affezionati.
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Molto, ma molto più interessanti sono suonate le parole estorte dal nuovo sceriffo di New York, il giovane e ambizioso Andrew Cuomo, al potentissimo Chairman e Chief Executive Officer di Bank of America, Kenneth Lewis, sì proprio quello che si è sinora ostinatamente rifiutato di fari i nome dei dirigenti della defunta Merrill Lynch che si sono spartiti un bel gruzzolo in termini di bonus nel dicembre del 2008, ma che ha sentito l’irrefrenabile bisogno di ‘vuotare il sacco’ sulle pressioni ricevute dal duo Paulson-Bernspan affinché non svelasse il disastro trovato nei conti della ex investment bank e che sia il Tesoro che la Fed si erano guardati bene dal comunicargli, una circostanza che, ove venisse confermata, getterebbe una luce sinistra sulle recenti operazioni di salvataggio orchestrate nei due palazzi di Washington, ma che non chiarisce affatto l’attuale reticenza di Lewis sui dettagli relativi ai premi elargiti in favore di manager che sono, in realtà, i responsabili primi del buco aggiuntivo di cui la ‘sua’ BofA ha dovuto farsi carico.
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Insomma, comunque la si rigiri, quella dei numerosi salvataggi di banche avvenuti nel corso della tempesta perfetta è una partita davvero oscura, oltre che enormemente costosa per i poveri contribuenti americani, che non hanno tutti i torti a ritenere che con i loro soldi si siano fatte molte cose che potevano essere tranquillamente evitate, ma che sono soprattutto arrabbiati per il fatto che, come ha autorevolmente sostenuto il recente rapporto presentato al Congresso statunitense, non siano stati nemmeno garantiti gli impieghi bancari alle imprese e alle famiglie, il tutto mentre trova molte resistenze il progetto di Obama di modificare le regole in materia di carte di credito, con particolare riferimento alle cosiddette carte di credito revolving.
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Come ho avuto più volte modo di sottolineare, più che sui libri di storia la tempesta perfetta rischia ogni giorno che passa di finire nelle aule di tribunale, anche perché le evidenze che si accumulano tra le carte di Cuomo e di decine di altri procuratori distrettuali consentirebbero di aprire un processo storico e che vedrebbe alla sbarra una vera e propria folla di Charirman, Chief Executive Officer, Chief Financial Officer, Chief Operating Officer e i numerosi sottoposti che si sono prestati a fare anche quello che era esplicitamente vietato dalle pochissime leggi e dagli scarni regolamenti sopravvissuto alla deregolamentazione selvaggia verificatasi negli ultimi venticinque anni, quel quarto di secolo che i protagonisti del magico mondo della finanza racconteranno ai loro nipotini come lo hanno fatto in passato i nostalgici del ‘selvaggio west’!
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La garanzia ufficialmente prestata da Bernspan alle diciannove maggiori entità protagoniste del mercato finanziario a stelle e strisce ha, ovviamente, spinto al rialzo i tre principali indici azionari statunitensi, ma anche le principali borse europee hanno voluto partecipare alla festa, mentre, per esclusive ragioni di fuso orario, quelle asiatiche hanno vissuto un venerdì di digiuno, ma vedrete che già lunedì si rifaranno ampiamente.
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Non voglio assolutamente fare il guastafeste, ma mi permetto sommessamente di ricordare, come ha efficacemente scritto Jacques Attali, tutte queste operazioni di garanzia che governi e banche centrali stanno dichiarando sono in realtà poco più consistenti di un castello di carta e questo per la semplicissima ragione che non sarebbe assolutamente possibile per alcun governo o per alcuna banca centrale fare fronte all’eventuale default di un numero rilevante di banche o di altre entità protagoniste del mercato finanziario globale, una prospettiva che minacciò di concretizzarsi nella prima metà dell’ottobre del 2008 e che fu, appunto, sventata, da un vero e proprio diluvio di impegni assunti nel corso del G20/G21, anche se non vorrei proprio vedere queste enne cinture di salvataggio prontamente stese messe alla prova dei fatti, ma credo che neanche quelli che le hanno stese vorrebbero provare un simile brivido!
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Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org. Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

venerdì 24 aprile 2009

Gli ultimi dati statunitensi gelano gli ottimisti!


Dall’empireo del dibattito sulla durata della crisi e, più in particolare, sulla data di avvio della fantomatica ripresa è sempre necessario tornare ai ‘piccoli’ dati che l’accuratissimo e molto tempestivo apparato statistico statunitense fornisce agli analisti e agli operatori per dare loro modo di orientarsi un po’ meglio sotto gli alti marosi di una tempesta davvero perfetta e che sta per entrare nel suo ventiduesimo mese di vita, senza avere perso un grammo della sua capacità distruttiva di ricchezza finanziaria e capacità produttiva.

Nell’ordine, sono giunte ieri sugli alquanto esausti risparmiatori/investitori statunitensi due notizie che, assieme alla drammatiche recenti stime diffuse nei giorni scorsi dal Fondo Monetario Internazionale, hanno gettato secchiate di acqua gelida sui proclami degli assertori della ripresa perennemente dietro l’angolo e che sono rappresentate dal calo largamente superiore al previsto delle vendite di case esistenti in marzo (un calo del 3 per cento rispetto a un dato di febbraio a sua volta pesantemente rivisto al ribasso) e dall’altrettanto imprevisto balzo in avanti delle richieste settimanali di disoccupazione, giunte a 640 mila, mentre il cosiddetto continuing jobless claims si è portato a 6,1 milioni di unità, un uno due davvero micidiale e che ha, ovviamente, spinto al ribasso i tre principali indici statunitensi sin dalle prime contrattazioni di ieri.

L’inaspettato balzo in avanti nelle richieste settimanali di sussidi di disoccupazione e l’aumento costante dello stock di sussidiati acquisisce un’importanza che va ben al di là del dato in sé, in quanto era stato appena diffuso un rapporto di un economista della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs che vedeva proprio in un calo del jobless claims l’anticipazione, con un lag temporale di quattro-sei mesi della tanto sospirata ripresa, non a caso situata dallo stesso rapporto al terzo trimestre dell’anno in corso, complice una modesta riduzione del dato in questione, una flessione che, in realtà, è già terminata, mentre l’allungamento del periodo previsto per la percezione dell’assegno di disoccupazione ha portato l’ammontare dei sussidiati a quasi triplicarsi in soli dodici mesi, con gli effetti sulla domanda effettiva che è facile intuire anche a un analista o a un cronista embedded alle truppe corazzate della finanza più o meno strutturata!

Come redattore non autorizzato del giornale di bordo della flotta della finanza globale squassata da lungo tempo dai sempre più alti marosi della tempesta perfetta, mi corre l’obbligo di avvertire i naviganti che dopo l’introduzione dei nuovi criteri per la redazione dei bilanci delle banche e delle altre entità protagoniste del mercato finanziario statunitense, innovazioni che li hanno resi molto, ma molto meno attendibili, non è affatto da escludere che qualche innovazione di comodo verrà prima o poi apportata anche a tutto o parte dell’armamentario di informazioni statistiche a cadenza mensile che hanno consentito, almeno sinora, a chiunque di farsi un’idea del meltdown della finanza e del ciclone che ha colpito in pieno, e in parte affondato, l’apparato industriale a stelle e strisce, un tristissimo fenomeno che si è ovviamente propagato a tutte le altre aree del mondo, comprese quella Cina e quell’India che sembravano letteralmente sfidare la forza di gravità e ogni teoria sui cicli economici, macinando, anno dopo anno, tassi record di crescita delle esportazioni e degli avanzi commerciali, ben riflessi in tassi di incremento dei rispettivi PIL anche superiori al 10 per cento, ma che oramai appartengono alla storia!

Pur non sottovalutando in alcun modo lo sforzo compiuto dalla precedente e dall’attuale amministrazione statunitense per contrastare in ogni modo possibile e immaginabile la recessione nella quale gli Stati Uniti d’America e il resto dei paesi maggiormente industrializzati sono immersi, nonché l’attivismo forsennato delle banche centrali degli stessi paesi e, per quanto riguarda i sedici appartenenti all’area dell’euro, della BCE, continuo a sostenere che il divario tra il pur enorme sforzo finanziario sostenuto, al netto delle allucinanti modalità di cui parlavo nella puntata di ieri, e la dimensione del problema rappresentato dai titoli della finanza strutturata e dai micidiali Credit Default Swaps si presenta ancora appena scalfito, con il non piacevole corollario che difficilmente sarà possibile mettere in campo risorse aggiuntive sufficienti senza ‘scassare’ del tutto i conti pubblici degli USA, dei paesi membri dell’Unione europea, del Giappone, mentre rimane drammaticamente aperto e insoluto il problema dei paesi che non sono stati in grado di assicurare né i depositi bancari, né tanto meno crediti e debiti interbancari nelle rispettive aree e quelli esistenti con le banche poste all’esterno delle stesse.

Non voglio assolutamente che siamo tutti immersi in una notte nella quale tutti i gatti sono neri, anche perché basta dare uno sguardo alle variazioni subite dalle quotazioni delle singole entità protagoniste del mercato finanziario statunitense e di quello globale per rendersi conto dell’esistenza di differenze molto sensibili in termini di tenuta e di relativa solidità tra banca e banca, compagnia di assicurazione e compagnia di assicurazione, mi spingerei anche sino a dire che non tutti gli hedge funds si trovano nella identica situazione, con particolare riferimento a quei tre enormi hedge funds statunitensi che, dichiaratamente sono usciti dai diversi mercati più a rischio e hanno parcheggiato la loro quasi intatta massa di risorse sul non troppo redditizio ma sicuro mercato monetario.

Quello che davvero stupisce è il comportamento di quei tanti investitori e di quei piccoli e medi risparmiatori che ancora si sentono più furbi dei tre rodati e rinomati hedge funders di cui parlavo sopra, sicuri, non si sa in base a quali elementi, di poter approfittare dell’attuale situazione per diventare molto, ma molto ricchi; un’ipotesi che non mi sento, invece, di escludere a priori per quanti hanno i nervi d’acciaio e il sangue freddo necessari per fare il surf sulle altissime escursioni delle azioni, anche se mi sento di suggerire loro di dotarsi autonomamente di rigidi limiti sia in termini di take profit che di stop loss!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo www.flipnews.org . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

giovedì 23 aprile 2009

La tempesta perfetta fa altre vittime!


Nell’immaginario collettivo la prima tempesta perfetta nel settore finanziario, quella avviatasi nell’ottobre del 1907, coincide con una serie di suicidi a catena, allo stesso tempo causa ed effetto del panico a Wall Street, anche se mi vedo per l’ennesima volta che quella del 1907 fu, per intensità e durata, poco più di una sommovimento in un bicchiere d’acqua rispetto a quella che ha preso le mosse il 9 agosto del 2007 e che, non più tardi di ieri, è stata definita dal giovane ministro del Tesoro scelto da Obama, una crisi finanziaria di natura e dimensioni assolutamente senza precedenti, almeno a memoria d’uomo.

La tragica decisione di togliersi la vita assunta dal quarantunenne David Kellermann, Chief Financial Officer di Freddie Mac, l’entità che assieme a Fannie Mae garantisce il funzionamento di metà circa del gigantesco settore del mortgage a stelle e strisce, non è stata la prima, né temo sarà l’ultima in un sommovimento finanziario ed economico di entità tale da indurre la precedente amministrazione repubblica a nazionalizzare sia Fannie che Freddie, nonché la disastrata American International Corporation, la più grande compagnia di assicurazione negli Stati Uniti d’America se non nel mondo, a sua volta letteralmente travolta dal disastro dei Credit Default Swaps avvenuto prima e, ancor più, dopo la scellerata decisione presa dal tristemente noto trio Bush-Paulson-Bernspan di lasciar miseramente fallire Lehman Brothers, una scelta che fatta da un normale ministro del Tesoro statunitense sarebbe stata di per sé alquanto folle, ma che è stata assolutamente pazzesca in quanto a deciderla è stato l’ex (?) investment banker Hank Paulson, sino a poco tempo prima Chairman e Chief Executive Officer della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs!

L’ultima classifica dei miliardari sparsi in tutto il pianeta stilata dalla prestigiosa rivista Forbes e relativa ai patrimoni esistenti nel 2008 fornisce una prima e alquanto provvisoria stima degli effetti della tempesta perfetta sui livelli di ricchezza personale di oltre un migliaio di persone che dispongono di almeno un miliardo di dollari, una lettura che non consiglio ai deboli di cuore e che evidenzia uno sfracello mai verificatosi nell’arco di soli dodici mesi e che sta facendo letteralmente tremare anche quanti pensavano di aver assicurato abbondantemente il futuro proprio e di un più o meno congruo numero di generazioni a venire e che non sopportano assolutamente l’idea che la loro ricchezza, invece di crescere as usual, si sia dimezzata o, come è avvenuto in alcuni casi, si sia proprio ridotta al lumicino.

Non era certo per questo che i paperoni del pianeta avevano gentilmente accordato ai propri top manager compensation & benefits sardapanalesche, retribuzioni effettive giudicate scandalose dai poveri e dalla middle class, ma che rappresentavano poco più della mancia che si elargisce a un cameriere o a un maggiordomo che garantisce un servizio efficiente ed efficace, anche perché si contano sulla punta delle dita i casi di top manager divenuti a loro volta membri effettivi del club più esclusivo esistente al mondo, quello formato dalle donne e dagli uomini presenti, a volte per meriti personali, più spesso per eredità, nella citata graduatoria stilata da Forbes.

Non sono assolutamente in grado di dire quanto fossero sincere le parole pronunciate ieri da Tim Geithner nel ricordare lo scomparso, anche perché nessuno come il nuovo ministro del Tesoro è in grado di avere un’idea sufficientemente esatta dei veri motivi che hanno condotto Fannie e Freddie al disastro attuale, anche perché è lui che deve ‘staccare gli assegni’ mensili destinati a tenerle in vita, nonché, assieme al sistema della riserva federale, provvedere al rimpiazzo dei GSE in scadenza per centinaia di miliardi di dollari al trimestre, un disastro al quale i direttori finanziari delle due entità, rimasti alquanto inspiegabilmente al loro posto, hanno dato un contributo fattivo e certamente incisivo.

Credo proprio che Paul Krugman e Nouriel Roubini, e con loro le centinaia di milioni di onesti contribuenti americani, debbano proprio farsi una ragione dell’evidente anomalia rappresentata dal fatto che le casse federali, autorizzate o meno da appositi provvedimenri del Congresso, stiano tenendo in vita buona parte del sistema finanziario statunitense senza prendere il controllo e senza lasciare ai vertici delle banche e delle compagnie di assicurazione la drastica alternativa minacciata dal per la terza volta ministro italiano dell’Economia, l’immaginifico Giulio Tremonti, un’alternativa che, ricordo per i miei lettori più distratti, prevedeva che gli stessi, in presenza di un dissesto aziendale, andassero in prigione senza passare dal via o a casa senza liquidazioni plurimilionarie!

Certo, il rapporto esistente tra governi e banche centrali da un lato e i vertici aziendali di entità finanziarie e industriali caratterizzati da operatività più o meno su base multinazionale sono profondamente cambiati dall’avvio della tempesta perfetta, ma, soprattutto, dalla seconda metà del mese di settembre dell’anno scorso, ma non al punto da consentire ai leaders politici del mondo industrializzato e alle autorità monetarie di operare quella pulizia delle stalle vagheggiata dai più, un’ipotesi al momento del tutti irrealistica, almeno sino a quando rimarranno stabilmente ai posti di comando quanti sono stati eletti anche grazie al gradimento dei maggiori esponenti del capitale finanziario e di quello di fonte industriale, con i secondi che garantiscono ai primi la sopravvivenza senza porre troppe condizioni e senza pretendere di assumere direttamente il controllo delle entità salvate con i soldi di tutti noi.

Dopo le anticipazioni sull’aggiornamento e, per la prima volta, il dettagliamento geografico delle perdite avvenute e di quelle previste per le entità protagoniste del mercato finanziario globale, gli economisti del Fondo Monetario Internazionale hanno anche fornito stime alquanto catastrofiche sull’andamento del PIL per il 2009 e il 2010 con riferimento alle singole nazioni, stime pessime in particolare per l’Unione europea e per l’Italia!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

mercoledì 22 aprile 2009

Inizia il fuoco incrociato su Tim Geithner!


L’improvviso tonfo dei mercati azionari posti al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico che ha caratterizzato la seduta di lunedì è stata puntualmente seguita ieri mattina in Asia da una serie di vistosi segni meno che hanno influenzato anche gran parte della seduta di ieri sia in Europa che nelle prime contrattazioni sui tre principali indici statunitensi, un chiaro segno che il non calo consecutivo dei leading indicators statunitensi reso noto in apertura di ottava aveva dissolto inequivocabilmente la nuvola di ottimismo che aleggiava da qualche settimana sui mercati, anche perché sia gli operatori che gli analisti hanno davvero un disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa dopo poco meno di ventuno mesi di tempesta perfetta, una speranza che il dato del Conference Board con il suo corollario di visione negativa sugli sviluppi dell’economia a stelle e strisce nei prossimi tre-sei mesi ha istantaneamente mostrato essere poco più che una favola per i gonzi!

Non so quanto spazio i media statunitensi abbiano dedicato alle 250 pagine del rapporto dell’organismo deputato a valutare gli effetti dell’utilizzo dei 700 miliardi di dollari previsti dal TARP, un rapporto che ha espresso anche valutazioni molto critiche sul piano del nuovo ministro del Tesoro a stelle e strisce, Timothy Geithner, quello che prevede la creazioni di joint ventures tra investitori privati e lo stesso Tesoro per l’acquisizione dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata ancora presenti in massa al di sopra e al di sotto della linea dei bilanci delle principali entità protagoniste del mercato finanziario statunitense, un modello che l’estensore del rapporto ha definito gravido di rischi molto più per il contribuente americano che per gli investitori privati, al punto da indurre questi ultimi a non fare un accurato screening dei titoli da acquistare, tabto alla fine paga lo Zio Sam.

Come non bastasse, il Fondo Monetario Internazionale non ha solo confermato l’anticipazione sulle previsioni di perdite a carico del sistema finanziario globale per 4 mila miliardi di dollari entro il 2010, le ha anzi elevate a 4,1 trilioni di dollari, ma ha per la prima volta presentato una suddivisione per aree geografiche, attribuendo perdite per 2.700 miliardi di dollari agli Stati Uniti d’America, 1.200 miliardi di dollari alle banche e altre entità finanziarie europee e poco meno di 150 miliardi a quelle giapponesi, mentre soltanto poche decine di miliardi farebbero capo a entità finanziarie basate nel resto del pianeta, una suddivisione non solo sinora inedita, ma che dimostra anche il tentativo posto in essere dalla potente e ancor più preveggente Goldman Sachs e dalle altre principali banche statunitensi di liberarsi dei titoli più tossici tra la fine del 2006 e i primi mesi del 2007 è riuscito solo in parte, al punto che ben due terzi delle perdite stimate restano a carico di un sistema finanziario statunitense che non capitalizza in borsa una cifra di queste dimensioni.

Quando e se mai saranno rese note le attribuzioni delle perdite alle singole entità finanziarie a stelle e strisce, sarà possibile vedere quanto le perdite passate e quelle prossime venture facciano in larga misura capo a un ristretto numero di banche e compagnie di assicurazione, in particolare alle sei banche principali sopravvissute agli alti marosi della tempesta perfetta e a quelle tre-quattro compagnie di assicurazione, la nazionalizzata AIG in testa, che hanno avuto la sventurata idea di porsi come controparte di gran parte dei Credit Default Swaps, quei micidiali strumenti con i quali le banche di tutto il mondo si sono assicurate contro il rischio di fallimento delle loro concorrenti!

Mentre i risparmiatori giapponesi hanno più di un motivo di tirare un sospiro di sollievo rispetto alla minore esposizione del loro sistema finanziario al rischio di ulteriori perdite, non altrettanto possono fare i loro omologhi europei, in particolare quelli in possesso di pacchetti azionari di banche britanniche o continentali gravate da perdite stimate per ben 1.200 miliardi di dollari che, almeno al cambio odierno, fanno più o meno 925 miliardi di euro.

Come era largamente prevedibile, dopo le perdite a due cifre percentuali registrate ieri da Citigroup e, in misura anche più accentuata, da quella Bank of America che aveva proprio lunedì annunciato il ritorno all’utile ma gravato da poco meno di venti miliardi di dollari tra svalutazioni di crediti e accantonamenti per fare fronte a rischi futuri, ieri vi è stato un certo recupero delle quotazioni di queste come delle altre banche, anche se i recuperi non hanno coperto neppure la metà delle perdite registrate nel corso della seduta precedente, una chiara dimostrazione del fatto che quella degli azionisti non era stata una reazione emotiva, così come non va dato troppo peso alle voci sulla presenza lunedì di orde degli oramai famigerati venditori allo scoperto, alibi spesso utilizzato da chi non vuole proprio vedere che, nonostante il passaggio dal mark to market al mark to fantasy, è sempre più difficile per le ex banche di investimento e per quelle universali a operatività più o meno globale mascherare più di tanto le evidenti difficoltà nelle quali da tempo si dibattono e che hanno portato, nonostante i forti recuperi registrati negli ultimi due mesi, le quotazioni delle loro azioni a rappresentare poco più di una frazione miserevole di quanto le stesse valevano ai tempi d’oro della finanza strutturata.

Un ben più concreto sostegno alle quotazioni delle uniche due grandi case automobilistiche a stelle e strisce quotate, Chrysler, come è noto, appartiene al fondo di private equity Cerberus, è venuto dalla nuova amministrazione statunitense che ha deciso di mettere nuovamente mano al portafoglio, erogando 5 miliardi di dollari in favore di General Motors e solo 500 milioni di dollari in favore di Chrysler, mentre non si sa se i vertici di Ford si stiano pentendo del rifiuto orgoglioso a suo tempo opposto alle profferte della Casa Bianca, un rifiuto in larga parte spiegato sia dalla relativa maggiore solidità della storica casa automobilistica statunitense, sia dalla palese insofferenza dei suoi top manager rispetto ai condizionamenti previsti dagli aiuti pubblici, con particolare riferimento a quella fastidiosissima previsione sulla compensation dei vertici aziendali.

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

martedì 21 aprile 2009

E' già finita la corsa dell'orso?


Non so se il pessimo dato diffuso dal Conference Board sui leading indicators per il mese di marzo (-0,3), peraltro nono dato negativo consecutivo di questo indicatore che indica le prospettive economiche nei successivi tre mesi, metterà finalmente termine al molto surreale dibattito sulla tempistica di uscita dalla crisi, un classico esempio di dibattito sul nulla che vede leaders politici, banchieri centrali, banchieri tout court, capi di associazioni imprenditoriali, banchieri centrali e chi più ne ha ne metta passare un po’ improvvisamente, e un po’ improvvisamente, dall’enunciazione di scenari ipercatastrofici a un ottimismo non basato su alcun dato di fatto o sulla benché minima evidenza statistica.

Nella puntata di ieri, mi soffermavo sulle prime trimestrali rilasciate in questi giorni dalle principali banche statunitensi, mettendo in rilievo in particolare l’utilizzo massiccio delle nuove e più favorevoli previsioni in materia di rappresentazione dei fatti di gestione accordate, con effetto peraltro retroattivo, dall’apposito ente federale preposto alla bisogna, ma la divulgazione ieri dei dati relativi al primo trimestre 2009 di Bank of America mi consente di sottolineare un’altra stranezza rappresentativa presente in questi prospetti e che è data dal consolidamento dei risultati delle spesso gigantesche entità fuse nella banca dichiarante, un’aggregazione che non viene posta a confronto dei risultati altrettanto aggregati del trimestre precedente o dello stesso trimestre dell’anno precedente, il che equivale, più o meno, alla classica somma delle mele con le pere, un esercizio che dice poco, se non pochissimo a quanti siano interessati al reale stato di salute della banca volta per volta presa in esame.

Non bastava, quindi, l’aiutino rappresentato dal passaggio dal mark to market al mark to fantasy, ma sembra proprio sia necessario anche ovviare a quella rappresentazione cosiddetta pro forma, un escamotage doveroso che consente di tenere conto del perimetro aziendale corrente e derivante dalle aggregazioni avvenute, mettendole a confronto con una sorta di aggregato virtuale ottenuto sommando gli stati patrimoniale e i conti economici delle entità convenute a nozze, un esercizio addirittura indispensabile nel caso di Bank of America, un colosso creditizio già di per sé, ma divenuto davvero enorme dopo l’acquisizione del primo operatore privato nel settore del mortgage a stelle e strisce, Countrywide, e una delle maggiori Investment Banks statunitensi, Merrill Lynch, anche se basta leggere i lanci di agenzia che magnificavano ieri la crescita dei ricavi e l’apparizione dell’utile per leggere a chiare lettere che il potentissimo Chairman e Chief Executive Officer di Bofa, Dick Lewis, ha deciso di soprassedere a tale incombenza, non fosse altro che per il fatto che si sarebbe visto l’annullamento della crescita dei primi e la totale inconsistenza del secondo.

Non vorrei infierire, ma mi vedo costretto a rilevare che neanche la ben più solida Wells Fargo Corporation si è sforzata in questo esercizio rappresentativo, anche se va detto che si è limitata ad un annuncio dei risultati e che fornirà solo fra qualche giorno i prospetti ufficiali, dimenticando o fingendo di dimenticare di aver accorpato la quarta banca statunitense, Wachovia Bank, un’aggregazione che ha influito non poco sia sulla crescita dei ricavi che su quell’utile di tre miliardi di dollari orgogliosamente vantato dai suoi vertici!

Assieme allo stucchevole dibattito su una ripresa sempre dietro l’angolo, anche il rally borsistico registrato negli ultimi due mesi dovrebbe avere da ieri concluso la sua corsa dell’orso, o il suo rimbalzo del coniglio morto ove gettato per terra, anche perché non solo gli occhiuti analisti o i preoccupatissimi addetti delle società di rating, ma anche gli investitori/risparmiatori sembrano essersi accorti del giochetto di prestigio effettuato dai bravissimi Chief Financial Officers delle principali banche a stelle e strisce, nonché sembrano davvero esasperati per le perduranti e mega miliardarie svalutazioni dei crediti evidenziate negli stessi trionfalistici prospetti, una amara constatazione che sta penalizzando fortemente le quotazioni azionarie sia con riferimento alle banche che hanno già dichiarato i propri risultati trimestrali, che a quelle che si apprestano a farlo nei prossimi giorni, mentre sale l’attesa per quelli relativi alle banche europee che si prendono molto più tempo per illustrare al mercato le loro performance!

Va anche rilevato come gli stessi personaggi che nei giorni scorsi si erano spolmonati per rendere nota la buona novella della prossima conclusione della tempesta perfetta in corso da poco meno di ventuno mesi stanno facendo un po’ marcia indietro, forse essi stessi un po’ spaventati dagli effetti delle parole dal loro sen fuggite, un saggio ripensamento che sembra avere colto per primo il nuovo e giovane presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, uno che ha capito che spargere speranze con troppo anticipo e a dispetto dell’evidenza dei fatti lo avrebbe fatto presso assomigliare al rinomato trio Bush-Paulson-Bernspan, una circostanza che avrebbe fatto appannare e non di poco quell’immagine che tanta fatica ha fatto a costruire nel corso della lunghissima campagna elettorale, nella successiva e non breve fase di interregno e nei primi mesi di mandato.

Mentre infuriano le polemiche sulle esternazioni del presidente iraniano alla Conferenza sui diritti umani e sul razzismo in corso in Svizzera, la cosiddetta Urban II, con relativo abbandono in massa dei lavori da parte di quei paesi europei che non si erano uniti al boicottaggio promosso da Israele, USA, Italia, Germania e un pugno di altri paesi, continuano ad aleggiare dubbi sulla strategia europea di contrasto della crisi finanziaria e della recessione in atto, con particolare riferimento a quei paesi di nuova affiliazione al club europeo, segnatamente di quelli un tempo appartenenti al cosiddetto blocco sovietico, dubbi che si trasformano in paure a partire da quanto sta avvenendo in Ucraina e in altri paesi, realtà nelle quali è in corso un vero e proprio braccio di ferro tra le autorità governative e le banche straniere presenti più o meno in forze in quei territori che negli anni scorsi hanno rappresentato il nuovo Eldorado per le banche tedesche, austriache, francesi, britanniche e italiane!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

lunedì 20 aprile 2009

Con il passaggio dal mark to market al mark to fantasy, le banche USA rivedono l'utile!


E’ oramai pienamente iniziata la stagione delle trimestrali statunitensi riferite al primo trimestre di questo 2009, una stagione seguita in Europa solo da paesi come la Svizzera e la Gran Bretagna che prevedono un rilascio delle informazioni di bilancio tempestivo quasi come quello statunitense, mentre, almeno se rispetteranno la tradizione, le società quotate presenti in paesi come la Germania, l’Italia e la Spagna si prenderanno molto più tempo per informare gli analisti e il mercato dello stato dei rispettivi loro conti, che, in molti casi, non dovrebbero essere disponibili prima della metà di maggio.

Al di là delle differenze in termini di tempestività o meno dell’informazione societaria, acquisisce grande rilevanza il discorso sulle nuove previsioni in materia di rappresentazione contabile dei fatti di gestione adottate al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, soprattutto in base alla recente decisione dell’ente federale che si occupa di stabilire i criteri contabili ai quali le società statunitensi, banche e compagnie di assicurazione ovviamente incluse, dovranno o potranno uniformarsi, quella, cioè, che prevede che si possa abbandonare la valutazione mark to market degli assets, titoli più o meno tossici della finanza strutturata inclusi, inaugurando così quel passaggio dal mark to market al mark to fantasy che tanto sta inquietando gli analisti specializzati e le stesse società di rating, che non sanno assolutamente a che santo votarsi per poter esprimere un giudizio appropriato sull’andamento delle società volta per volta da loro esaminate.

I primi risultati resi noti ufficialmente, o anticipati, dalle principali banche statunitensi stanno lì a confermare in pieno le preoccupazioni dei soggetti istituzionalmente chiamati a emettere le relative pagelle, in quanto l’inatteso, anche se generalmente modesto, flusso di profitti è in larga misura frutto di un vero e proprio balzo in avanti dei ricavi, non più gravati, come è avvenuto nei cinque trimestri precedenti, da massicce svalutazioni e relative messe a perdita legate allo squagliamento dei valori di mercato delle montagne di titoli ancora presenti, sopra o sotto la linea, nei bilanci delle entità protagoniste a vario titolo del mercato finanziario statunitense, che resta la costola essenziale del più vasto mercato finanziario globale.

All’occhio esperto e molto attento di un David Mayo di Deutsche Bank, ovviamente, non sfuggono simili trucci e inganni legalizzati, al punto di spingerlo a emettere un giudizio impietoso delle maggiori banche a carattere internazionale ben prima che venissero diffusi i primi dati trimestrali ufficiali, ma immediatamente dopo le inusuali esternazioni degli uomini posti al vertice di Citigroup, J.P. Morgan-Chase, Bank of America, che, ebbri di gioia dal risultato hobbistico conseguito spesso a suon di finanziamento a carico degli ignari contribuenti a stelle e strisce, non hanno proprio saputo o voluto attendere le date previste per le rispettive presentazioni, precipitandosi a commentare i progressi segnati nei primi due mesi dell’anno, con performance davvero degne di quelle messe in scena dai numeri uno di entità oramai defunte come Bear Stearns, Countrywide, Wachovia Bank, Merrill Lynch, Washington Mutual, in molti casi pochi giorni, se non poche ore, prima che le entità da loro guidate venissero salvate da qualche altra banca o, come nel caso di Lehman Brothers, lasciate miseramente fallire!

Ma esistono due grandi entità, fortunosamente salvate mediante apposita nazionalizzazione, che, ancor prima della licenza concessa dai regolatori, si esercitavano appieno nel gioco della sottostima delle svalutazioni e delle messe a perdita, entità che rispondono ai nomi di Fannie Mae e Freddie Mac e che svolgono un ruolo fondamentale e forse insostituibile in quel vastissimo mercato del mortgage a stelle e strisce che presenta uno stock di poco inferiore al prodotto interno lordo statunitense, entità che, peraltro, hanno portato in dote al Tesoro USA qualcosa come cinquemila miliardi di GSE, titoli ora finalmente equiparati, sotto il profilo della garanzia, ai mitici Treasury Bonds e che sono inoltre caratterizzati da un turn over trimestrale pari a qualche centinaia di miliardi di dollari, per non parlare poi di quella American International Group, meglio nota con l’acronimo AIG, che ha aperto una vera e propria voragine nei conti pubblici americani.

Una delle caratteristiche strutturali che da molti decenni affligge gli Stati Uniti d’America, quella dei cosiddetti deficit gemelli, quello commerciale e quello pubblico, ha, peraltro, creato le basi di una somiglianza sinistra con la famosa stagnazione ultradecennale dell’economia giapponese, che, oltre ad essere la rappresentazione reale dell’assunto keynesiano della trappola della liquidità, è anche lo scenario più verosimile per il futuro prossimo venturo dell’economia americana, una prospettiva che rende del tutto risibili i chiacchiericci attuali “sui segnali positivi che lasciano intravedere una possibile conclusione della tempesta perfetta”!

So bene che a questo caro di prefiche benaugurati si è unito, di recente, anche il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, uno che per molti mesi si è divertito a fare il profeta di sciagure non meno di quanto lo abbia fatto il Dr. Doom e, nel mio piccolo, anche io, ma al quale qualche leader europeo, o lo stesso suo Capo, il per la terza volta presidente del consiglio italiano, Silvio Berlusconi, deve avere ricordato che non è un comportamento adatto ad un ministro del’economia e delle finanze di un paese più o meno importante dell’Occidente industrializzato quello di sparare a zero, un giorno sì e l’altro pure, sul Governatore della Banca d’Italia o sui responsabili delle altre banche centrali, sui banchieri, sugli assicuratori e sugli altri soggetti che svolgono un ruolo nel mercato finanziario più o meno globale.

Anche se apprezzo la conversione di Tremonti ad un ruolo maggiormente istituzionale, mi permetto di dire che lo trovavo più simpatico e convincente quando, a proposito dei banchieri centrali, utilizzava metafore come quella dei “topi posti a guardia del formaggio”.

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

domenica 19 aprile 2009

Quanto durerà la recessione? (versione per stampa)

Se qualcuno, attratto dal titolo un po’ intrigante, pensasse di trovare in questa e nelle successive puntate del Diario della crisi finanziaria una risposta puntuale all’interrogativo che angoscia governi, banche centrali e parti sociali di tutto il mondo farebbe bene a non proseguire nella lettura, perché su questo, come su tanti altri argomenti, non fornirò altro che valutazioni a partire da quel po’ che so della finanza e dell’economia a livello globale, dalle mie esperienze professionali e dalla mia volontaria esperienza di tenutario del giornale di bordo della flotta del genere umano ampiamente squassata dagli alti marosi di una tempesta perfetta che non accenna a scemare di intensità da quando, il 9 agosto del 2007, ha preso il suo via a causa di un davvero inedito blocco della liquidità sul mercato interbancario.

Accingendomi all’impresa di fornire comunque qualche indicazione temporale, utilizzerò come riferimento metodologico quello che ho capito dell’approccio seguito dal mai troppo compianto John Maynard Keynes, forse l’unico essere senziente ad aver tratto qualche insegnamento da quell’immenso processo di distruzione di ricchezza che fu la Grande Depressione, una fase di durata nettamente superiore ai dieci anni e che venne, al di là di alcune meritorie intuizioni personali di qualche uomo politico, gestita in un modo davvero dissennato e che produsse danni certamente superiori a quelli che le vere cause del crollo borsistico dell’ottobre del 1929 e l’ignoranza quasi assoluta della componente psicologica nell’agire economico avrebbero prodotte senza alcun intervento esterno!

Scusandomi in anticipo per la lunghezza delle premesse metodologiche, mi vedo costretto a chiarire il senso della da me più volte ripetuta affermazione sull’utilizzo come stelle polari nell’orientarmi nella tempesta perfetta di due persone così diverse tra loro per storia, cultura ed esperienze professionali quali Warren Buffett, classico esempio di self made man americano che, a differenza di molti neomiliardari, non ha perso la determinazione, la sagacia e il buon senso iniziali, e George Soros, una persona di assoluto successo nella previsione dei fenomeni economici, ma che la psicologia dell’investitore medio la apprese alla durissima scuola delle persecuzioni razziali in Europa nel suo paese d’origine occupato dai nazisti, una scelta che confermo, anche se la ho allargata di recente ad un gruppo più ampio di persone che attorno a loro si è aggregata in questi mesi e che ha deciso di puntare sul giovane senatore dello Stato dell’Illinois, Barack Obama, come l’uomo in grado di consentire un radicale processo di ristrutturazione dell’economia e della finanza a stelle e strisce, presupposto indispensabile per giungere ad una risposta coordinata dei maggiori paesi industrializzati alle cause profonde che ci hanno portati a questo disastro (un gruppo che ho descritto nelle diverse puntate dedicate a quello che ho definito il patto ‘segreto’ da loro stretto con Obama nella fase più calda delle primarie del partito democratico).

Credo non sfugga ad alcuno di quanti seguono con un sufficiente grado di attenzione l’evoluzione della crisi finanziaria e della dolorosa recessione economica da questa indotta l’assoluta insensatezza delle politiche seguite dai governi dei paesi maggiormente industrializzati, così come dal sistema della riserva federale e dalle altre banche centrali, nel periodo che va dall’avvio della tempesta perfetta a quello spartiacque della stessa rappresentato dalla decisione di lasciare fallire Lehman Brothers a metà del mese di settembre del 2008, una scelta quest’ultima che sarà certamente studiata quando quello che stiamo vivendo sarà finalmente divenuta Storia e che ha determinato una situazione di tale gravità da fare ritenere a persone investite di responsabilità istituzionali a livello sovranazionale che l’intero sistema finanziario globale potesse collassate nel successivo mese di ottobre, ove i governi e le autorità monetarie del G20/G21 non avessero preso le decisioni che vennero poi assunte nel corso del davvero drammatico summit svoltosi in quei giorni.

Non vi è dubbio alcuno che i colossali piani di salvataggio degli interi sistemi finanziari nazionali partorite in quel vertice e confermate successivamente a livello di parte dell’Unione europea, nonché riprodotte nei ripetuti piani del governo giapponese e di quello cinese siano stati fortemente condizionati dalle incaute e in qualche caso folli scelte assunte in precedenza dal trio Bush-Paulson-Bernspan, nonché dalla relativa inerzia dei governi degli altri maggiori paesi avanzati, i quali, a torto o a ragione, ritenevano che gli Stati Uniti d’America avessero la responsabilità di trovare la soluzione del problema, non fosse altro per avere in larghissima misura provocato la tempesta perfetta stessa, un ragionamento che, al netto dell’evidente contenuto di verità, dimostrava una assoluta miopia nei confronti dell’assoluta interconnessione provocata dai concomitanti fenomeni di finanziarizzazione, globalizzazione e deregolamentazione selvaggia ai quali nessuno dei leaders politici europei e asiatici si era realmente opposto!

Come spesso accade, la fretta di trovare una soluzione quale che fosse portò, in quelle davvero drammatiche giornate di ottobre (chissà perché gran parte dei fenomeni destinati a sconvolgere questo pianeta si addensano in questo mese?) dell’anno scorso, pur evitando il rischio del collasso immediato del sistema finanziario globale, hanno da un lato favorito l’acuirsi del contagio della crisi alla cosiddetta economia reale, ma, dall’altro, hanno lasciato scoperti un gran numero di sistemi creditizi e finanziari di numerosi paesi da poco membri dell’Unione europea o candidati a entrarvi, nonché di numerosissimi paesi dell’Asia, della totalità dei paesi africani e di quelli dell’America Centrale e Meridionale, un palmare esempio di coperta corta cui si è cercato di mettere una pezza nei successivi summit con impegni più o meno esigibili e con un maxi finanziamento, in parte effettivo e in maggior misura da realizzare, delle scarse risorse del Fondo Monetario Internazionale, definitivamente assurto al ruolo di prestatore di ultima istanza di quella parte del mondo dichiaratamente incapace di provvedere da sé. Ed è proprio da queste contraddizioni che prenderò le mosse domani per affrontare l’interrogativo riportato nel titolo.

Molto prima dell’ingresso ufficiale del presidente eletto alla Casa Bianca, non voglio giungere a dire prima ancora che Barack Obama venisse eletto, il cosiddetto Dream Team, un gruppo di lobbisti di lusso convinti dell’assoluta necessità di agire in prima persona e non, come è sempre accaduto in passato, per interposta persona, ha sviluppato una sorta di road map che, come spesso accade in questi casi, partiva da un agognato punto di arrivo, la fine, cioè, della tempesta perfetta e l’uscita dalla fase recessiva, per procedere a ritroso con le principali tappe di avvicinamento all’obiettivo precedentemente individuato.

Mettete insieme il meglio dell’imprenditoria in campo informatico, manifatturieri, finanziario e assicurativo, miscelate con quanto di meglio vi è nel campo delle pubbliche relazioni, della comunicazione di massa e del marketing, aggiungete le migliori teste d’uovo in materia di politica interna e internazionale, scuotete un po’ come si fa per preparare un buon cocktail e avrete così un’idea di quel gruppo di volenterosi alquanto disperati dall’allora stato di cose presenti che si è sottoposto al fuoco di fila dei flashes dei fotografi chiamati a immortalare quanto di meglio era in grado di offrire l’America per uscire più o meno brillantemente dal peggior incubo per chi crede nelle magiche e progressive sorti del libero mercato: una recessione di durata indeterminata e tale da minare alle sua basi il modello americano!

Come ho più volte ricordato, le vere cause della tempesta perfetta affondano nel sogno non del tutto inconfessato delle società operanti su base multinazionale, se non del tutto globale, di affrancarsi in via forse definitiva dal giogo degli stati nazionali nei quali le loro sedi legale sono ‘rinchiuse’, un sogno efficacemente descritto in un suo recente libro da Jaques Attali, un uomo che sarà pure stato un disastro come banchiere sopranazionale, ma che è certamente uno dei pochi ad avere avuto il coraggio, se non l’ardire, di descrivere quel mix di potere, arroganza e avidità connaturato a queste entità di dimensioni planetarie operanti in campo finanziario, industriale e mercantile, spesso configurantesi come agglomerati che svolgono indistintamente tutte queste attività, entità che Attali immagina dotate di regole proprie, di una propria polizia privata e di propri sistemi di intelligence, pronte, ove fosse necessario, a dotarsi perfino di un proprio esercito.

Una delle caratteristiche distintive di questo modello di società in terra americana è stato il progressivo processo di autonomizzazione dei vertici aziendali dalla proprietà, un processo largamente favorito dall’affermarsi della cosiddetta public company, a loro volta caratterizzate da un azionariato fortemente diffuso esprimentesi in assemblee pronte ad approvare entusiasticamente i progetti di espansione infinita proposti dai top manager e sistemi di compensation & benefit in favore degli stessi legati, almeno in apparenza, alla costante crescita del valore delle azioni e di un sistema di dividendi predeterminato al punto da farli assomigliare più alle cedole obbligazionarie che alla remunerazione variabile propria del capitale di rischio!

Uno sguardo retrospettivo a quanto è accaduto a partire dalla cosiddetta reaganomics evidenzia gli effetti davvero disastrosi di questo modello sugli equilibri preesistenti di governance aziendale con la delega pressoché totale dei poteri alla quasi sempre coincidente figura del Chairman del Board of Directors con quella del Chief Executive Officier, una sorta di novello ‘deus ex machina’, opportunamente contorniato da un Chief Financial Officer e da un Chief Operating Officer, che divengono addirittura due nella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, figure a loro volta strapagatissime, ma mai come il condottiero unico aziendale che, come è emerso nelle infuocate audizioni parlamentari svoltesi al Congresso statunitense, sono giunti in alcuni casi ad accumulare nell’arco di qualche decennio fortune stimate in svariati miliardi di dollari, divenendo, almeno in alcuni casi, azionisti di riferimento delle compagnie da essi guidate, anche se si tratta di una fattispecie non particolarmente seguita, in quanto preferivano unire i loro gruzzoli a quelli di altri loro simili, dando vita a quelle ancor più rapaci creature denominate private equity, organismi che non del tutto a caso si sono meritate il nome significativo di locuste.

Ma molto più che della modificazione del rapporto tra azionisti e top manager, è utile dare uno sguardo alle conseguenze di questo processo aziendale sull’economia nel suo complesso e sullo stesso equilibrio ecologico a livello planetario, impatti entrambi caratterizzati da effetti che è quasi eufemistico definire nefasti e che, sotto il profilo del secondo aspetto, ci hanno portato a superare, mi auguro non del tutto irreversibilmente, quei limiti dello sviluppo profeticamente individuati dal compianto fondatore del Club di Roma, l’ingegnere Aurelio Peccei, persona integra e rara figura di imprenditore illuminato che spese l’ultima parte delle sue vita a mettere in guardia l’umanità rispetto al disastro prossimo venturo!

Ho dedicato troppe puntate del Diario della crisi finanziaria alla variante di questo processo che ha riguardato il mondo dell’investment banking e della finanza più o meno strutturata per tornare sull’argomento, se non per dire che quanto è avvenuto negli ultimi venticinque anni nelle Investment Banks e nelle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali è davvero paradigmatico di quanto è avvenuto nell’economia nel suo complesso e che molte delle evoluzioni del modello precedente di governance societaria hanno avuto in queste entità il loro laboratorio creativo, anche se sarebbe più appropriato il termine distruttivo, non fosse altro che per la maggiore rispondenza agli effetti di tali esperimenti.

Una delle maggiori intuizioni del foltissimo Dream Team obamiano, un gruppo formato dai maggiori conoscitori esistenti dei fenomeni che ho cercato di descrivere di sopra, è stata quella di operare sin da subito per concentrare ‘tutto il male del mondo’ sull’ultimo scorcio del 2008 e sull’intero 2009, operando una drammatizzazione dell’immediato strettamente unita a un messaggio il più possibile rassicurante su una pressoché certa ripresa sin dai primi mesi del 2010, ma di questo parlerò più diffusamente nella puntata di domani.

Non intendo assolutamente tediare i miei lettori sulle diverse tecnicalità seguite in questa vera e propria campagna mediatica che ha visto mobilitate intere legioni di commentatori, analisti ed economisti una volta tanto felici di essere embedded a una operazione mossa dall’intento di dare speranza a chi l’aveva del tutto persa, un’operazione che potrebbe anche funzionare, non fosse altro che per le ingentissime risorse messe in campo da governo e sistema della riserva federale, nonché dalla composizione del tutto bipartisan dello stesso Dream Team, ma, come purtroppo spesso accade, tra il dire dei nuovi soloni e il fare dei singoli operatori dell’economia e della finanza, vi è, purtroppo per i volenterosi sognatori, il mare tuttora procelloso spazzato dai venti che accompagnano la tempesta perfetta in servizio permanente effettivo da più di venti mesi, un’avversità meteorologica che non ha voluto saperne di piegarsi, tra la fine del 2008 e i primi mesi del 2009, ai voleri di Obama e dei suoi più stretti consiglieri!
I dettagli della coda del diavolo frapposta dalla dura realtà economica e finanziaria nei cinque mesi e mezzo seguiti all’elezione di Obama hanno occupato pressoché integralmente le 160 puntate del Diario della crisi finanziaria pubblicate dal 5 novembre in poi, il che rende inutile che mi soffermi sui dettagli, ma, riprendendo quanto detto martedì in un lungo e appassionato discorso dedicato alle prospettive economiche dallo stesso presidente degli Stati uniti d’America, se vorrà costruire sulla roccia l’apparato finanziario e industriale del domani, dovrà prima spalare le innumerevoli tonnellate di carta straccia sulle quali sono assise le banche e le altre entità protagoniste del mercato finanziario statunitense e, purtroppo, una parte assolutamente non marginale delle stessa apparato industriale, nonché il vastissimo settore dei servizi.

Non è, tuttavia, possibile passare sotto silenzio i rischi che le stesse soluzioni prospettate dal nuovo ministro del Tesoro alla questione dello smaltimento dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata comportano non solo per i contribuenti statunitensi, ma per gli stessi equilibri finali a livello sistemico dello stesso settore finanziario che si vuole così apertamente favorire, anche perché l’oramai evidente approccio a blocchi, prima le banche, poi le compagnie di assicurazione, poi gli investitori istituzionali e via discorrendo, presenta un numero di incognite e di possibili lags temporali da rendere tutt’altro che certo il tanto agognato punto di svolta dell’economia reale, una prospettiva sulla quale i più recenti dati congiunturali hanno gettato secchiate d’acqua davvero gelida.

Come è oramai a tutti noto, la maggior parte dei governi, delle banche centrali, nonché le stesse parti sociali dei paesi maggiormente industrializzati, hanno dato credito alla scommessa americana sull’avvio pressoché certo della ripresa sin dall’avvio del 2010, se non addirittura dal quarto trimestre dell’anno in corso, il che significa che dovemmo vedere il sogno trasformarsi in realtà tra poco più di sette mesi, se non addirittura tra meno di cinque mesi, una scommessa che mi permetto sommessamente di definire quantomeno azzardata, non fosse altro che per il perdurante sciopero dagli investimenti che continua a caratterizzare l’aggregato formato da quelli che amo definire investitori/risparmiatori, mentre penso che vi è davvero poco da aspettarsi dagli investitori istituzionali.

L’altro aspetto davvero negletto in quel dell’obanomics che si riesce faticosamente a intuire al momento e rappresentato dal deciso accantonamento di ogni dibattito sulle nuove regole che dovrebbero consentire che quanto è avvenuto non si ripeta, in forma addirittura aggravata, in un futuro prossimo venturo, anche perché è sotto gli occhi di tutti il rinvio sine die di quella riedizione della conferenza di Bretton Woods dalla quale scaturì il nuovo ordine e economico mondiale dollarocentrico, un impegno che nessuno sembra ora voler rispettare!

Stupisce la scarsa attenzione dedicata dai media a quanto sta avvenendo nella maggior parte dei paesi caratterizzati da sistemi creditizi e finanziari non garantiti dai rispettivi governi, segnalo per tutte le originali richieste avanzate dalle autorità ucraine alle banche straniere presenti in quel paese, mentre poco o nulla si sa di quanto sta avvenendo in altri paesi dell’Europa dell’Est, per non parlare della inesistente attenzione dedicata ai paesi minori dell’Asia, dell’Africa, dell’America Centrale dell’America Latina.

Non voglio utilizzare questioni non attinenti legate all’instabilità politica di alcuni di questi paesi, come, a solo titolo di esempio, quanto sta avvenendo in Thailandia in questi giorni, ma quello che è certo è che la brusca frenata allo sviluppo impetuoso dei tassi di crescita del commercio internazionale, a sua volta aspetto non secondario dello sviluppo intenso di paesi di ogni dimensione delle diverse aree del mondo avrà ripercussioni tutt’altro che marginali sullo stesso assetto geopolitico del pianeta, sviluppi al momento soltanto intuibili, ma certamente forieri di conseguenze non del tutto tranquille.

Pur avendo promesso all’inizio di non spingermi in previsioni sulla data di uscita dalla recessione, penso che emerge con chiarezza da quanto scritto in queste tre puntate stia a indicare che penso che la data universalmente desiderata vada spostata di almeno un anno in avanti, un’ipotesi che, ove dovesse realizzarsi, pone una quantità di problemi non solo al di qua e al di là dell’oceano Atlantico, ma a livello assolutamente globale, che è davvero meglio rinviarla a quando avremo un maggior numero di informazioni per analizzarla serenamente.

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo www.flipnews.org . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

sabato 18 aprile 2009

Quanto durerà la recessione? (terza e ultima parte)


Non intendo assolutamente tediare i miei lettori sulle diverse tecnicalità seguite in questa vera e propria campagna mediatica che ha visto mobilitate intere legioni di commentatori, analisti ed economisti una volta tanto felici di essere embedded a una operazione mossa dall’intento di dare speranza a chi l’aveva del tutto persa, un’operazione che potrebbe anche funzionare, non fosse altro che per le ingentissime risorse messe in campo da governo e sistema della riserva federale, nonché dalla composizione del tutto bipartisan dello stesso Dream Team, ma, come purtroppo spesso accade, tra il dire dei nuovi soloni e il fare dei singoli operatori dell’economia e della finanza, vi è, purtroppo per i volenterosi sognatori, il mare tuttora procelloso spazzato dai venti che accompagnano la tempesta perfetta in servizio permanente effettivo da più di venti mesi, un’avversità meteorologica che non ha voluto saperne di piegarsi, tra la fine del 2008 e i primi mesi del 2009, ai voleri di Obama e dei suoi più stretti consiglieri!
I dettagli della coda del diavolo frapposta dalla dura realtà economica e finanziaria nei cinque mesi e mezzo seguiti all’elezione di Obama hanno occupato pressoché integralmente le 160 puntate del Diario della crisi finanziaria pubblicate dal 5 novembre in poi, il che rende inutile che mi soffermi sui dettagli, ma, riprendendo quanto detto martedì in un lungo e appassionato discorso dedicato alle prospettive economiche dallo stesso presidente degli Stati uniti d’America, se vorrà costruire sulla roccia l’apparato finanziario e industriale del domani, dovrà prima spalare le innumerevoli tonnellate di carta straccia sulle quali sono assise le banche e le altre entità protagoniste del mercato finanziario statunitense e, purtroppo, una parte assolutamente non marginale delle stessa apparato industriale, nonché il vastissimo settore dei servizi.

Non è, tuttavia, possibile passare sotto silenzio i rischi che le stesse soluzioni prospettate dal nuovo ministro del Tesoro alla questione dello smaltimento dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata comportano non solo per i contribuenti statunitensi, ma per gli stessi equilibri finali a livello sistemico dello stesso settore finanziario che si vuole così apertamente favorire, anche perché l’oramai evidente approccio a blocchi, prima le banche, poi le compagnie di assicurazione, poi gli investitori istituzionali e via discorrendo, presenta un numero di incognite e di possibili lags temporali da rendere tutt’altro che certo il tanto agognato punto di svolta dell’economia reale, una prospettiva sulla quale i più recenti dati congiunturali hanno gettato secchiate d’acqua davvero gelida.

Come è oramai a tutti noto, la maggior parte dei governi, delle banche centrali, nonché le stesse parti sociali dei paesi maggiormente industrializzati, hanno dato credito alla scommessa americana sull’avvio pressoché certo della ripresa sin dall’avvio del 2010, se non addirittura dal quarto trimestre dell’anno in corso, il che significa che dovemmo vedere il sogno trasformarsi in realtà tra poco più di sette mesi, se non addirittura tra meno di cinque mesi, una scommessa che mi permetto sommessamente di definire quantomeno azzardata, non fosse altro che per il perdurante sciopero dagli investimenti che continua a caratterizzare l’aggregato formato da quelli che amo definire investitori/risparmiatori, mentre penso che vi è davvero poco da aspettarsi dagli investitori istituzionali.

L’altro aspetto davvero negletto in quel dell’obanomics che si riesce faticosamente a intuire al momento e rappresentato dal deciso accantonamento di ogni dibattito sulle nuove regole che dovrebbero consentire che quanto è avvenuto non si ripeta, in forma addirittura aggravata, in un futuro prossimo venturo, anche perché è sotto gli occhi di tutti il rinvio sine die di quella riedizione della conferenza di Bretton Woods dalla quale scaturì il nuovo ordine e economico mondiale dollarocentrico, un impegno che nessuno sembra ora voler rispettare!

Stupisce la scarsa attenzione dedicata dai media a quanto sta avvenendo nella maggior parte dei paesi caratterizzati da sistemi creditizi e finanziari non garantiti dai rispettivi governi, segnalo per tutte le originali richieste avanzate dalle autorità ucraine alle banche straniere presenti in quel paese, mentre poco o nulla si sa di quanto sta avvenendo in altri paesi dell’Europa dell’Est, per non parlare della inesistente attenzione dedicata ai paesi minori dell’Asia, dell’Africa, dell’America Centrale dell’America Latina.

Non voglio utilizzare questioni non attinenti legate all’instabilità politica di alcuni di questi paesi, come, a solo titolo di esempio, quanto sta avvenendo in Thailandia in questi giorni, ma quello che è certo è che la brusca frenata allo sviluppo impetuoso dei tassi di crescita del commercio internazionale, a sua volta aspetto non secondario dello sviluppo intenso di paesi di ogni dimensione delle diverse aree del mondo avrà ripercussioni tutt’altro che marginali sullo stesso assetto geopolitico del pianeta, sviluppi al momento soltanto intuibili, ma certamente forieri di conseguenze non del tutto tranquille.

Pur avendo promesso all’inizio di non spingermi in previsioni sulla data di uscita dalla recessione, penso che emerge con chiarezza da quanto scritto in queste tre puntate stia a indicare che penso che la data universalmente desiderata vada spostata di almeno un anno in avanti, un’ipotesi che, ove dovesse realizzarsi, pone una quantità di problemi non solo al di qua e al di là dell’oceano Atlantico, ma a livello assolutamente globale, che è davvero meglio rinviarla a quando avremo un maggior numero di informazioni per analizzarla serenamente.

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo www.flipnews.org . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

venerdì 17 aprile 2009

Quanto durerà la recessione? (seconda parte)


Molto prima dell’ingresso ufficiale del presidente eletto alla Casa Bianca, non voglio giungere a dire prima ancora che Barack Obama venisse eletto, il cosiddetto Dream Team, un gruppo di lobbisti di lusso convinti dell’assoluta necessità di agire in prima persona e non, come è sempre accaduto in passato, per interposta persona, ha sviluppato una sorta di road map che, come spesso accade in questi casi, partiva da un agognato punto di arrivo, la fine, cioè, della tempesta perfetta e l’uscita dalla fase recessiva, per procedere a ritroso con le principali tappe di avvicinamento all’obiettivo precedentemente individuato.

Mettete insieme il meglio dell’imprenditoria in campo informatico, manifatturieri, finanziario e assicurativo, miscelate con quanto di meglio vi è nel campo delle pubbliche relazioni, della comunicazione di massa e del marketing, aggiungete le migliori teste d’uovo in materia di politica interna e internazionale, scuotete un po’ come si fa per preparare un buon cocktail e avrete così un’idea di quel gruppo di volenterosi alquanto disperati dall’allora stato di cose presenti che si è sottoposto al fuoco di fila dei flashes dei fotografi chiamati a immortalare quanto di meglio era in grado di offrire l’America per uscire più o meno brillantemente dal peggior incubo per chi crede nelle magiche e progressive sorti del libero mercato: una recessione di durata indeterminata e tale da minare alle sua basi il modello americano!

Come ho più volte ricordato, le vere cause della tempesta perfetta affondano nel sogno non del tutto inconfessato delle società operanti su base multinazionale, se non del tutto globale, di affrancarsi in via forse definitiva dal giogo degli stati nazionali nei quali le loro sedi legale sono ‘rinchiuse’, un sogno efficacemente descritto in un suo recente libro da Jaques Attali, un uomo che sarà pure stato un disastro come banchiere sopranazionale, ma che è certamente uno dei pochi ad avere avuto il coraggio, se non l’ardire, di descrivere quel mix di potere, arroganza e avidità connaturato a queste entità di dimensioni planetarie operanti in campo finanziario, industriale e mercantile, spesso configurantesi come agglomerati che svolgono indistintamente tutte queste attività, entità che Attali immagina dotate di regole proprie, di una propria polizia privata e di propri sistemi di intelligence, pronte, ove fosse necessario, a dotarsi perfino di un proprio esercito.

Una delle caratteristiche distintive di questo modello di società in terra americana è stato il progressivo processo di autonomizzazione dei vertici aziendali dalla proprietà, un processo largamente favorito dall’affermarsi della cosiddetta public company, a loro volta caratterizzate da un azionariato fortemente diffuso esprimentesi in assemblee pronte ad approvare entusiasticamente i progetti di espansione infinita proposti dai top manager e sistemi di compensation & benefit in favore degli stessi legati, almeno in apparenza, alla costante crescita del valore delle azioni e di un sistema di dividendi predeterminato al punto da farli assomigliare più alle cedole obbligazionarie che alla remunerazione variabile propria del capitale di rischio!

Uno sguardo retrospettivo a quanto è accaduto a partire dalla cosiddetta reaganomics evidenzia gli effetti davvero disastrosi di questo modello sugli equilibri preesistenti di governance aziendale con la delega pressoché totale dei poteri alla quasi sempre coincidente figura del Chairman del Board of Directors con quella del Chief Executive Officier, una sorta di novello ‘deus ex machina’, opportunamente contorniato da un Chief Financial Officer e da un Chief Operating Officer, che divengono addirittura due nella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, figure a loro volta strapagatissime, ma mai come il condottiero unico aziendale che, come è emerso nelle infuocate audizioni parlamentari svoltesi al Congresso statunitense, sono giunti in alcuni casi ad accumulare nell’arco di qualche decennio fortune stimate in svariati miliardi di dollari, divenendo, almeno in alcuni casi, azionisti di riferimento delle compagnie da essi guidate, anche se si tratta di una fattispecie non particolarmente seguita, in quanto preferivano unire i loro gruzzoli a quelli di altri loro simili, dando vita a quelle ancor più rapaci creature denominate private equity, organismi che non del tutto a caso si sono meritate il nome significativo di locuste.

Ma molto più che della modificazione del rapporto tra azionisti e top manager, è utile dare uno sguardo alle conseguenze di questo processo aziendale sull’economia nel suo complesso e sullo stesso equilibrio ecologico a livello planetario, impatti entrambi caratterizzati da effetti che è quasi eufemistico definire nefasti e che, sotto il profilo del secondo aspetto, ci hanno portato a superare, mi auguro non del tutto irreversibilmente, quei limiti dello sviluppo profeticamente individuati dal compianto fondatore del Club di Roma, l’ingegnere Aurelio Peccei, persona integra e rara figura di imprenditore illuminato che spese l’ultima parte delle sue vita a mettere in guardia l’umanità rispetto al disastro prossimo venturo!

Ho dedicato troppe puntate del Diario della crisi finanziaria alla variante di questo processo che ha riguardato il mondo dell’investment banking e della finanza più o meno strutturata per tornare sull’argomento, se non per dire che quanto è avvenuto negli ultimi venticinque anni nelle Investment Banks e nelle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali è davvero paradigmatico di quanto è avvenuto nell’economia nel suo complesso e che molte delle evoluzioni del modello precedente di governance societaria hanno avuto in queste entità il loro laboratorio creativo, anche se sarebbe più appropriato il termine distruttivo, non fosse altro che per la maggiore rispondenza agli effetti di tali esperimenti.

Una delle maggiori intuizioni del foltissimo Dream Team obamiano è stata quella di operare sin da subito per concentrare ‘tutto il male del mondo’ tra la fine del 2008 e l’intero 2009, una drammatizzazione dell’immediato unita a un messaggio il più possibile rassicurante su una certa ripresa nel 2010, ma di questo parlerò domani.

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog