sabato 31 gennaio 2009

Il crollo del PIL a stelle strisce e il meltdown finanziario dettano la vera agenda di Davos!


Per avere un’idea del clima psicologico imperante sul mercato finanziario statunitense, vera costola essenziale del mercato finanziario globale, basta osservare il vero e proprio sospiro di sollievo tirato da analisti, operatori e investitori, quando le agenzie hanno battuto il primo lancio sul dato provvisorio sull’andamento del prodotto interno lordo nel quarto trimestre dell’orribile 2008 e che segnalava un calo del 3,8 per cento che si poneva molto al di sotto delle previsioni di consensus degli analisti che prevedevano un calo del 5,5 per cento, un dato medio che vedeva anche qualcuno che azzardava un crollo cifrabile al 6,5 per cento.

Per esperienza personale, ho sempre diffidato del primo take di agenzia, in realtà poco più di una headline scevra di quegli essenziali dettagli che consentono una lettura più attenta del dato, ma so altrettanto bene quanto gli operatori che ti siedono accanto vogliono solo sapere l’impatto immediato di quel titolo lampeggiante sulle valute, sui titoli di stato e su quelli azionari, che, ovviamente, prenderanno strade diverse tra di loro in base a valutazioni che hai sì e no qualche secondo per elaborare e comunicare ai tuoi febbricitanti compagni di viaggio.

Immagino che questa scena si sia ripetuta ieri nelle sale operative di tutto il mondo e che la sintesi degli economisti di sala sia stata di acquistare azioni, vendere Treasury Bonds e andare lunghi di dollari contro le principali valute convertibili, il che è puntualmente avvenuto immediatamente dopo il rilascio della notizia, in una sorta di euforia e follia collettiva che si è infranta presto quando è stato possibile analizzare più in dettaglio l’andamento delle singole componenti che consentivano agli addetti ai lavori di rendersi conto che c’era ben poco da festeggiare, in quanto solo un imprevisto e considerevole incremento delle scorte e un più che prevedibile incremento della spesa pubblica avevano fatto sì che il calo non fosse delle dimensioni previste, il che getta una luce alquanto inquietante sulle due prossime riletture del dato che verranno rilasciate nei prossimi due mesi.

Scusandomi in anticipo per la premessa, credo che, al di là della provvisorietà dei dati, vada segnalato il secondo calo consecutivo della spesa per consumi, che, con il -3,5 per cento, si pone di un soffio al di sotto di quella segnalata nel terzo trimestre e il vero e proprio crollo degli investimenti privati, ridottisi di più di un quinto rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, due dati che la dicono lunga sul più che depresso clima che ha accomunato, nella seconda metà del 2008, i consumatori e gli imprenditori americani, due aggregati di persone che si influenzano a vicenda, a meno di fare un balzo indietro di almeno due secoli e tornare alla bizzarra teoria che vede l’offerta creare la propria domanda, una teoria applicabile solo quando un’efficace campagna pubblicitaria riesce a creare nei consumatori il fremente desiderio per un nuovo prodotto/servizio o per l’accorto rifacimento e riconfezionamento di un prodotto già esistente.

Sono bastate poche ore per rendere note anche all’ultimo degli operatori queste valutazioni più meditate degli analisti e questo ha prodotto una netta inversione dei tre principali indici azionari che hanno poi chiuso con un calo medio del 2 per cento e che, con riferimento al Dow Jones Industrials e allo S&P’s 500, chiudono il mese di gennaio in calo, rispettivamente, dell’8,84 e del 8,57 per cento, mentre credo che non vada assolutamente sottovalutato il netto calo registrato nello stesso lasso di tempo dai corsi dei Treasury Bonds che, nella scadenza decennale, si sono portati da livelli di rendimento di poco superiori al 2 per cento a livelli appena inferiori alla soglia del 3 per cento.

D’altra parte, non può essere sottovalutato l’impatto che avranno sui titoli del Tesoro americano i mostruosi fabbisogni legati alle decisioni assunte nel corso del 2008, dai 700 miliardi di dollari previsti dal TARP alle migliaia di miliardi di dollari impiegati dal sistema della riserva federale per impedire il fallimento delle grandi banche a stelle e strisce e delle banche globali ivi operanti, cui si aggiungeranno gli 819 miliardi previsti dal Piano Obama e mentre vi è molta attesa per capire meglio le reali intenzioni della Repubblica Popolare Cinese e degli altri grandi detentori di titoli pubblici statunitensi che potrebbero, vuoi per necessità interne, vuoi per ritorsioni contro eventuali mosse protezionistiche, venire riversati su un mercato già affollato dalle nuove richieste del Tesoro USA e dei maggiori paesi dell’Unione Europea che si preparano a maxi emissioni a fronte dei piani di salvataggio dei rispettivi sistemi finanziari e ai piani di stimolo dei loro sistemi industriali per complessivi 2-3 mila miliardi di euro.

E’ anche per questo che non vi è mai stata tanta attenzione a quanto sta avvenendo tra le nevi di Davos, in quell’Economic Forum dove si stanno dibattendo, per lo più nel corso di incontri bilaterali molto, ma molto riservati, buona parte delle misure che verranno poi ufficialmente decise nel G20 previsto per la metà di aprile, dall’istituzione della bad bank, al nuovo sistema di regole cui dovranno sottostare i principali protagonisti del mercato finanziario globale, dalla riforma delle agenzie di rating ai nuovi poteri previsti per i regolatori, banche centrali in testa.

Ho letto con piacere la dichiarazione del numero uno cinese, Wen Jiabao, che ha sostenuto che un piano efficace per uscire dalla crisi finanziaria in corso da oltre diciotto mesi prevede un’analisi corretta delle vere cause della tempesta perfetta (l’ha definita proprio così), una tesi che sostengo sin dal 4 settembre del 2007, la data in cui è apparso su vari siti e su un quotidiano on line il primo articolo che ha dato il via al Diario della crisi finanziaria che è oramai giunto alla cinquecentesima puntata e che, dal mese di novembre del 2007, ho trasferito in questo blog, un’avventura editoriale che ha cambiato la mia vita e che spero possa essere stata di ausilio ai miei lettori per orientarsi meglio tra gli alti marosi della tempesta perfetta!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

venerdì 30 gennaio 2009

Obama e il Congresso si scagliano contro i banchieri a stelle e strisce per i 18,4 miliardi di bonus che si sono attribuiti nel tremendo 2008!


Abbiamo appreso ieri che il principale responsabile di quello che ho più volte definito il male oscuro di Citigroup, l’ex Chairman e Chief Executive Officer del colosso creditizio dai piedi di argilla, Sandy Weill, ha deciso, non so quanto spontaneamente, di rinunciare da aprile ai costosissimi benefit dei quali era destinatario, un onere per la banca da milioni di dollari annui che includeva l’utilizzo dell’aereo privato, auto con autista, lussuoso ufficio, un appannaggio spettante a fronte di 45 giorni di lavoro, pensione aggiuntiva da 1,1 milioni di dollari, polizza sanitaria da 63 mila dollari e via elencando.

Per i più distratti tra i miei lettori, vorrei ricordare il ruolo assolutamente da protagonista svolto da Sandy nell’edificazione di Citigroup quale banca talmente universale da meritarsi l’epiteto di supermarket del credito, un vero e proprio mostro che venne edificato inglobando una banca d’investimenti, creando centinai di veicoli fuori bilancio, assorbendo la Travellers, creando una divisione di Corporate & Investment Banking dalle dimensioni gigantesche, gestendo i patrimoni dei ricchi in un numero di paesi di poco inferiore a quelli rappresentati nell’assemblea delle Nazioni Unite, sviluppando in modo estremamente aggressivo il credito al consumo, le carte di credito revolving e un numero di attività collaterali non so quanto conosciute nel dettaglio dagli stessi membri del Board of Directors.

Nonostante si sia ufficialmente ritirato da oltre una decade, Sandy è stato determinante nell’assunzione di quel ministro del Tesoro ed ex Goldman Sachs che, attraverso gli opportuni interventi di deregulation, aveva reso possibile l’edificazione del ‘modello Citigroup’, quel Robert Rubin che godrà, fino ad aprile anche lui, di una retribuzione da 60 milioni di dollari in qualità di presidente di un comitato più o meno strategico, ha letteralmente creato il suo successore, Chuck Prince III, e lo ha successivamente licenziato in tronco dopo un burrascoso colloquio nella tenda ipertecnologica di un principe saudita non proprio soddisfatto delle performance della banca di cui era allora il primo azionista, ha contribuito, insieme a Rubin, alla scelta del nuovo presidente e del nuovo Chief Executive Officer, un baronetto inglese il primo e l’ex capo della CIB, l’indiano Vikram Pandit, il secondo, tutte mosse che dimostrano efficacemente che restava lui il vero deus ex machina di Citi!

Fa piacere che il nuovo presidente Parsone e lo stesso Pandit abbiano deciso di mettere mano non solo alla ristrutturazione radicale del modello creato da Weill, ma anche di tagliare tutti i ponti con i protagonisti di quel passato, Bob e Sandy in primo luogo, di non attribuirsi alcun bonus e di rinunciare all’acquisto di un costoso aereo aziendale ordinato da Chuck nel 2005, ben due anni prima che scoppiasse la tempesta perfetta che dura oramai da oltre diciotto mesi, anche se credo che non sbaglino molto quanti descrivono lo stesso Pandit come un dead man walking, non fosse altro che per quanto deve avere combinato quando era a capo delle attività di corporate & investment banking e della ampia fabbrica prodotto che ne faceva parte.

E’ difficile non concordare con il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, quando, poco dopo aver firmato la legge che vieta le discriminazioni salariali basate sul genere, ha affermato ieri che la distribuzione di bonus per 18,4 miliardi di dollari agli strapagati inquilini dei grattacieli che ospitano i quartier generali delle banche di ogni ordine e grado statunitensi non è proprio una bella cosa quando le stesse sono destinatarie, in vario modo, di migliaia di miliardi di dollari dei contribuenti già molto preoccupati per il meldown immobiliare e finanziario in corso.

Non è certo un bello spettacolo proprio nel giorno in cui il dipartimento del lavoro decide di dire finalmente la verità e, cioè, che ai quasi cinque milioni di donne ed uomini americani destinatari degli assegni jobless claims, 588 mila solo nell’ultima settimana, vanno aggiunti quel milione e settecentomila che sono destinatari di sussidi stabilita da una recente legge approvata dal parlamento, il che porta il numero di persone che vivono solo grazie all’assistenza pubblica allo stratosferico numero di sei milioni e mezzo, a fronte degli undici milioni di disoccupati ufficiali e di quei milioni di cittadini che non risultano nelle statistiche in quanto appartenenti ai 2,2 milioni di detenuti, ai milioni di persone in semilibertà e allo stuolo di quanti hanno mai rinunciato a partecipare al mercato di lavoro di riserva.

Ho l’impressione che le dure parole del giovane presidente USA non resteranno inascoltate da un Congresso che, sia prima che dopo l’Election Day, non ha usato troppi riguardi nei confronti di quelli che, a torto o a ragione, riteneva i principali responsabili della tempesta perfetta, soprattutto quando i malcapitati erano chiamati a partecipare ad audizioni che sembravano spesso dei processi sommari nel corso dei quali gli ‘imputati’ erano al più in grado di balbettare qualche risposta e non apparivano certo quegli Dei dell’Olimpo bancario e assicurativo abituati a trattare i deputati e i senatori con sufficienza.

Non aiuta molto il fatto che, a onta delle centinaia di miliardi ricevuti tramite la dissennata gestione che il loro ex (?) collega Hank Paulson ha fatto della prima tranche del TARP o i circa 2 mila miliardi di dollari di titoli più o meno tossici della finanza strutturata che il sistema della riserva federale si è accollati, attraverso l’ampia discarica gestita dal presidente della Fed di New York e attuale ministro del Tesoro a stelle e strisce, Timothy Geithner, le impietose statistiche sull’erogazione del credito stanno lì a testimoniare che il flusso di finanziamenti all’economia in senso lato si sono ridotti di ben 47 miliardi di dollari, un calo che sarà anche ingeneroso, ma viene naturale mettere a confronto con i 18,4 miliardi di bonus ricevuti dai top manager bancari!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

giovedì 29 gennaio 2009

A Davos sono assenti i principali protagonisti della tempesta perfetta!


La scarsa esperienza maturata nella sua breve permanenza al Senato degli Stati Uniti d’America ha pesato sul fallito tentativo del nuovo presidente, Barack Obama, di convincere almeno una parte dei deputati repubblicani ad adottare un atteggiamento bypartisan sul suo mega progetto di rilancio dell’economia a stelle e strisce, un’illusione che si è presto infranta quando è stato reso noto l’esito del voto di ieri notte, un risultato che ha visto il no compatto degli eletti del Great Old Party, cui si sono addirittura uniti undici deputati democratici.

Certo, quello che conta è che il provvedimento sia passato a pochi giorni dall’insediamento di Obama alla Casa Bianca e che l’esame da parte del Senato dovrebbe iniziare già nella giornata di lunedì, il che consentirebbe di rispettare la scadenza di metà febbraio indicata dal presidente affinché gli effetti del piano possano dispiegarsi al più presto possibile sull’alquanto malridotta economia statunitense, ma è altrettanto certo che quanto è avvenuto ieri alla Camera dei Rappresentanti induce a ritenere che la strada della nuova amministrazione non sarà affatto cosparsa di petali di rose!

L’approvazione del piano da 819 miliardi di dollari ha comunque contribuito al rally dei tre principali indici statunitensi di ieri e continua a esercitare i suoi effetti positivi anche sull’andamento di stamane delle borse asiatiche, che vedono la prosecuzione del trend positivo del Nikkei 225, ma anche un’ottima performance delle borse che erano rimaste chiuse per il capodanno cinese, in particolare l’indice della borsa di Hong Kong, che registra un rialzo di qualcosa di più del 5 per cento.

Tuttavia, come scrivevo ieri, la borsa di New York ha reagito molto di più per l’annuncio della realizzazione in tempi prevedibilmente rapidi di una bad bank destinata a raccattare i titoli più o meno tossici della finanza strutturata che ancora ingolfano i bilanci, sopra e sotto la linea, delle banche di ogni ordine e rango basate all over the world, una mossa che mira dritto al cuore del problema, anche se non sono noti dettagli tutt’altro che irrilevanti quali quello del prezzo al quale i titoli medesimi verranno ceduti alla nuova entità, un particolare dal quale dipenderà il successo o meno dell’operazione i cui costi ricadranno in ogni caso sulle spalle di quegli stessi contribuenti destinatari di un sollievo fiscale da 500 dollari per i single e di 1.000 dollari per le coppie previsto dal piano di Obama.

Non del tutto a caso i lavori dell’Economic Forum di Davos sono stati di fatto aperti dagli interventi delle due principali vittime della tempesta perfetta in corso da oltre diciotto mesi, Vladimir Putin,vero padrone, al di là della carica che temporaneamente si attribuisce, della Russia, e Wen Jiabao, leader indiscusso della Repubblica Popolare Cinese, il primo colpito quasi a morte dal crollo del prezzo del petrolio e delle altre tante materie prime di cui dispone la sua Santa Madre Russia, mentre il secondo vede un quasi dimezzamento della crescita attesa per l’anno in corso rispetto alla velocità siderale registrata dalla stessa nel corso del 2007, dopo la forte frenata verificatasi nel 2008.

Il selezionato pubblico che affolla i saloni del Forum attendeva con una certa ansia le dichiarazioni dei due, in particolare di quelle del leader cinese che ancora non ha deciso di utilizzare l’arma fine di mondo, rappresentata da quei duemila miliardi di dollari in Treasury Bonds di cui potrebbe decidere di liberarsi, mandando i relativi yields alle stelle e il dollaro alle stalle!

Per fortuna delle coronarie di Geithner e dei banchieri a stelle e strisce presenti nella località sommersa dalla neve, Jiabao non ha fatto il ferale annuncio, limitandosi ad accusare, in perfetta sintonia con il suo collega russo, gli Stati Uniti d’America di essere la causa di tutto quanto sta avvenendo, qualcosa del tipo chi rompe paga e i cocci sono suoi, mentre entrambi hanno fermamente invitato l’Occidente a non chiudersi nei propri confini, mediante una rivisitazione in senso protezionistico delle nuove regole che hanno consentito la globalizzazione degli scambi commerciali e la crescita esponenziale delle esportazioni cinesi verso gli USA che, in un breve volgere di tempo, hanno surclassato quelle giapponesi.

Devo confessare che temevo molto che la rivoluzione geopolitica indotta dalla tempesta perfetta desse la stura a quei dietrologi e complottasti dei quali abbonda il web, anche perché gli elementi e gli ingredienti per stimolare la loro accesa fantasia ci sarebbero tutti, inclusa una riunione al vertice di magnati dell’industria e della finanza che decidono in un luogo più o meno misterioso di mettere in ginocchio gli oligarchi ex sovietici e i sempre più invadenti cinesi, così come quei paesi membri dell’Unione Europea che potrebbero anche accorgersi di essere, almeno sul piano economico, ormai più forti degli Stati Uniti d’America e che quello che manca loro è la potenza militare e un vero governo europeo.

Molto probabilmente, a furia di cercare le prove di una responsabilità statunitense nei tragici fatti dell’11 settembre o la verità su altri avvenimenti della storia più o meno contemporanea, complottasti e dietrologi non hanno avuto il tempo per scavare nei retroscena del più grande sommovimento economico e finanziario mai verificatosi a memoria d’uomo e che determinato un mutamento dei rapporti di forza internazionali superiore a quello che si potrebbe ottenere mediante un conflitto militare globale, ma con non secondaria differenza che, sommersi dagli alti marosi della tempesta perfetta, è impossibile distinguere gli amici dai nemici, non fosse altro che per il fatto che, come ha ben ricordato Jaques Attali, la maggior parte delle principali banche e compagnie di assicurazione sono oramai entità del tutto sovranazionali!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

L'ipotesi della creazione di una bad bank per i titoli tossici mette le ali alle azioni delle banche!


Dopo una lunga serie di voli concentrici attorno al problema, le autorità monetarie statunitensi e la nuova amministrazione americana, hanno finalmente deciso di prendere per le corna la questione che rendeva impossibile un recupero della normale attività creditizia e che è rappresentata dalla immensa montagna di titoli più o meno tossici della finanza strutturata che sul mercato valgono oramai poco più di zero.

E’ bastato che qualche lancio di agenzia sapientemente pilotato facesse trapelare la notizia relativa all’intenzione di creare una (o più) bad bank destinata ad accogliere le decine di migliaia di miliardi di dollari di titoli (almeno tale è il loro valore facciale) che la Fed di new York non è riuscita ad accogliere nella pur molto ampia discarica all’uopo dedicata e che, grazie allo sforzo sovrumano fatto a carico dei contribuenti, ha una capacità che non va al di là dei due-tre mila miliardi di dollari che vi sono state stoccate, per mandare decisamente verso l’alto le quotazioni delle superstiti maggiori banche statunitensi, rialzi generalmente a due cifre che si sono estesi anche alle azioni delle principali banche europee.

Ovviamente, si tratta per il momento soltanto di un annuncio e non sono per il momento disponibili informazioni né sulle tecnicalità che verranno adottate, né, tantomeno, sullo scottantissimo tema del prezzo al quale verranno acquistati dalle sempre più traballanti banche, anche perché l’ultima mega transazione raggiunta da John Thain per conto di Merrill Lynch prevedeva uno sconto del 78 per cento sul valore nominale dei titoli tossici, un prezzo che, peraltro, era accompagnato dal pressoché integrale finanziamento dell’esborso dell’acquirente e di una clausola di riacquisto ove il prezzo di mercato fosse ulteriormente crollato!

Sono certo che l’intero dibattito al Forum economico che si apre oggi a Davos ruoterà intorno alla soluzione sulla quale aveva preventivamente messo il cappello il per la terza volta ministro italiano dell’economia, Giulio Tremonti, che ha utilizzato una recente comparsata al fortunato programma televisivo di Fabio Fazio, Che tempo che fa, per informare del progetto qualche milione di telespettatori e i milioni di lettori dei quotidiani del giorno dopo che hanno fatto da ulteriore grancassa all’idea del ministro, un’idea che circolava da tempo tra gli addetti ai lavori, in particolare tra quelli impegnati in quel Financial Stability Forum che il ministro italiano si diverte a svillaneggiare un giorno sì e l’altro pure, prendendo di mira una volta l’organismo composto da esponenti delle banche centrali e l’altra il suo presidente pro tempore, il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi.

Dispiace apprendere dai giornali americani del trucco messo in atto dall’ex numero uno della defunta Lehman Brother, Dick Fuld, che ha cercato di sottrarre al suo incerto destino giudiziario una proprietà immobiliare in Florida del valore stimato in 13 milioni di dollari, vendendola alla moglie al prezzo più che simbolico di dieci dollari, una mossa che verrà prontamente annullata dall’autorità giudiziaria e che reso ancora meno simpatico l’uomo che Hank Paulson ha voluto a tutti i costi rovinare.

Ma oggi gli analisti, gli operatori e gli investitori non hanno alcuna voglia di soffermarsi sulle poco onorevoli gesta di uno dei tanti Dei caduti dall’Olimpo della finanza a stelle e strisce, troppo presi come sono a scommettere sulla mossa che potrebbe fare da diga agli alti marosi della tempesta perfetta ininterrottamente in corso da oltre diciotto mesi, una mossa molto più convincente delle tante pensate del disoccupato di lusso Hank Paulson o di quelle messe in campo da Bernspan e dai suoi colleghi assisi ai loro scranni nella sala che ospita i lavori del Federal Open Market Committee, ospite l’attuale ministro del Tesoro, Timothy Geithner, forse il vero ideatore della bad bank sin da quando era certamente il più potente tra i presidenti delle sistema della riserva federale, ma che ha atteso di insediarsi al vertice di quel dicastero nel quale ha mosso i primi passi della sua carriera di civil servant.

La perdita stratosferica da 19 miliardi di euro attribuita a Fortis, nonché la valutazione del collegio di periti che ha giudicato corrette le decisioni dei governi belga, lussemburghese e olandese che procedettero mesi orsono allo spezzatino del colosso bancario e assicurativo, inclusa l’accettazione dell’offerta di BNP Paribas, mettono una serissima ipoteca sull’esito dell’assemblea degli azionisti di Fortis prevista per il prossimo 11 febbraio, anche perché gli stessi periti valutano del tutto irrealistica l’ipotesi che la banca possa sopravvivere stand alone, anche se è scontato che i piccoli azionisti vedranno migliorate le condizioni dell’offerta a suo tempo avanzata dalla banca francese.

L’ipotesi di una soluzione positiva di questa telenovela molto seguita a Bruxelles e dintorni e che ha addirittura provocato una crisi di governo in quel Paese, insieme alle anticipazioni sui risultati negativi del quarto trimestre ma positivi per 3 miliardi di euro per l’intero esercizio 2008, hanno messo le ali per la seconda seduta consecutiva al titolo di BNP che, dopo il +17 per cento di ieri, ha recuperato un altro 20 per cento oggi, riguadagnando la soglia psicologica dei 30 euro, nel corso di una seduta che ha visto anche le due principali concorrenti, Socgen e il Credit Agricole, registrare incrementi meno vistosi, ma comunque a due cifre.

Aria di festa grazie alle notizie provenienti da oltreoceano anche per le banche britanniche, tutte in forte rialzo ma mai come la Royal Bank of Scotland che ha chiuso con un rialzo di poco inferiore al 40 per cento, così come per le due principali banche tedesche, per quelle italiane, in particolare per Unicredit Group, per le due principali banche svizzere, per quelle spagnole.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

mercoledì 28 gennaio 2009

L'impaziente attesa di Giulio Tremonti per la risposta che, prima o poi, gli dovrà pervenire dalla Fondazione Monte dei Paschi di Siena!


Le tre notizie positive di ieri sul fronte della disastrata economia statunitense non sono state assolutamente in grado di modificare l’umore alquanto plumbeo degli analisti, degli operatori e degli investitori, non fosse altro che per la semplice ragione che nella sola giornata di ieri sono stati resi noti tagli occupazionali per 50 mila persone che, come ha ben ricordato il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, non rappresentano soltanto un dato contabile ma sono donne e uomini in carne e ossa che vedono il proprio futuro, la propria situazione economica e i propri progetti di vita diventare molto più foschi da un giorno all’altro.

Ma il macigno che impedisce a quanti operano nel mercato finanziario statunitense, costola essenziale del mercato finanziario globale, di nutrire aspettative positive per il domani è anche rappresentato da quel vero e proprio stillicidio di trimestrali negative che piove da giorni sulle loro teste, all’ombra delle previsioni di consensus che stimano che almeno l’ottanta per cento dei bilanci relativi al quarto trimestre dell’orribile 2008 si chiuderanno in rosso, né si azzardano a prevedere per quanti trimestri si protrarrà questa prevalenza di perdite inusuali per un mercato che si era oramai abituato a osservare le vaste e magnifiche sorti di un capitalismo che, fatto salvo qualche occasionale scrollone, sembrava avviarsi a una espansione dalla durata pressoché infinita.

Qualcuno si è poi dato la briga di fare i conti in tasca alle maggiori banche a stelle e strisce e ha fatto la scoperta che, ad onta dei 148 miliardi di dollari da esse ricevute dal TARP e delle centinaia di miliardi, sarebbe meglio dire migliaia, di miliardi di dollari di titoli più o meno tossici della finanza strutturata che sono stati ammassati nella ampia discarica allestita dalla Fed di New York, le major del credito americane hanno tagliato gli impieghi all’economia latu sensu, finendo per confermare i sospetti dei critici del piano di salvataggio ideato da Hank Paulson che, seppur radicalmente modificato dal Congresso, ha finito per gettare letteralmente al vento i soldi dei contribuenti senza minimamente incidere sul credit crunch, né tantomeno sul top management delle banche beneficiate!

Di tutto questo ha risentito il mercato azionario di New York che ha dovuto ieri mettere da parte ogni tentativo di forte rialzo, finendo per chiudere con incrementi frazionali che ben testimoniano quel clima di preoccupazione per il futuro più o meno prossimo dell’economia e della finanza statunitensi, anche perché è chiaro ai più che, nella migliore delle ipotesi, il mega piano della nuova amministrazione riuscirà a stento a contenere il numero dei nuovi disoccupati nel 2009, il che non è di molto conforto alla luce del fatto che nel 2008 sono state bruciate 2,6 milioni di buste paga, un dato che, peraltro, non è che un saldo tra entrate e uscite dal mercato del lavoro che non può rappresentare fino in fondo il dramma della perdita di posti spesso ben remunerati sostituiti da occupazioni che garantiscono salari e stipendi che poco si discostano da livelli di pura sussistenza.

Lo stesso megagalattico take over messo in atto dalla Pfizer ai danni della sua principale rivale in campo farmaceutico non si sostanzia soltanto del controvalore di 68 miliardi di dollari tra cash e carta, ma è funestamente accompagnato dalla solita previsione, seppur non meglio quantificata, di una ecatombe di posto di lavoro, seguita oggi dall’annuncio di altri 3.500 licenziamenti annunciati dalla Corning, società che segnala un quarto trimestre in rosso.

Essendomi soffermato nelle tre puntate precedenti sui movimenti in corso nei tre principali paesi dell’Unione Europea, Germania, Francia e Gran Bretagna, vorrei soffermarmi oggi sulle prospettive del terzo gruppo bancario italiano, sì proprio di quel Monte dei Paschi di Siena che è giunto in questi giorni a capitalizzare poco più di 6 miliardi di euro, 3 miliardi cioè di meno di quanto ha pagato la fulminea acquisizione di una Banca Antonveneta peraltro privata di quella ex banca di credito speciale che l’astuto Don Emilio Botin, forse credendo al mito della maledizione del povero Groenick, ha ceduto a parte a un’altra banca incassando un miliardo di euro tondo tondo.

Essendomi già occupato delle prospettive del gruppo bancario ancora saldamente nelle mani dell’omonima fondazione, non ho alcuna intenzione di tediare i lettori in relazione al progetto di costituire il terzo polo bancario e assicurativo italiano, anche perché alla realizzazione dello stesso concorrono entità quotate in Italia e all’estero che sono al momento in tutt’altre faccende affaccendate per vincere le resistenze degli agguerritissimi contradaioli senesi, che saranno pure solo poco meno di settantamila ma sono notoriamente in grado di dare filo da torcere all’ente che pure fa del loro benessere la sua mission principale.

La novità vera è data dal fatto che, grazie all’improvvida e dispendiosa mossa del giovane avvocato calabrese che dalla poltrona di presidente della fondazione si è per tempo spostato a quella della banca, la partita si è spostata sulla scrivania occupata per la terza volta dal ministro italiano dell’Economia, quel Giulio Tremonti che molto si ostinano a vedere ravveduto dalle sue mire sulla fondazione maggiormente impegnata, almeno in termini di patrimonio, su una sola banca, ma che io credo non abbia modificato in alcun modo le sue idee al riguardo e che sono certo attende con impazienza la missiva di ritorno che il presidente molto pro tempore della fondazione, Lionello Mancini, dovrà prima o poi inviargli e che dovrà contenere risposte molto esaurienti e altrettanto convincenti alle quattro semplici domande che il ministro ha rivolto alla sua come alle altre fondazioni di origine bancaria sparse nella penisola!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

martedì 27 gennaio 2009

Le banche europee alle grandi manovre!


L’inatteso recupero dei leading economic indicators elaborati dal Conference Board, saliti in dicembre dello 0,3 per cento mentre erano previsti in calo della stessa misura dal consensus degli analisti, il mega merger tra Pfizer e Wyeth da 68 miliardi di dollari, parte cash e parte carta contro carta, nonché il rialzo del 6,5 per cento delle vendite di case esistenti hanno consentito un deciso cambio dell’umore degli operatori e degli investitori che hanno spinto al rialzo i tre principali indici azionari statunitensi che avevano chiuso in modo misto la scorsa ottava e non lasciavano presagire nulla di buono per l’avvio della successiva.

E’ sempre vero che alla fine è anche una questione di fortuna e credo che il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America ne necessiti di parecchia per affrontare le ciclopiche sfide che lo attendono, anche se, guardato in controluce, il dato sulle vendite di case, forse quello psicologicamente più rilevante tra i tre avvenimenti enumerati di sopra, ha molto a che fare con il calo di oltre il 15 per cento del prezzo mediano delle abitazioni che ha reso certamente molto convenienti gli acquisiti, in particolare nelle zone che hanno visto i prezzi crollare molto al di sopra del dato nazionale, il che ha portato i prezzi nelle zone più colpite dal meltdown immobiliare a valori anche inferiori del 50 per cento ai livelli precedenti all’estate del 2007.

L’offerta della Pfizer per la sua maggiore rivale, quella della Fiat per una quota di oltre un terzo della Chrysler, peraltro elevabile alla maggioranza assoluta, rappresentano eventi che vanno molto al di là del loro significato settoriale, in quanto sono la rappresentazione palmare di una volontà di crescita e di audacia che il mercato sembra gradire molto, un qualcosa che potrebbe rendere molto più efficaci i provvedimenti che Obama sta annunciando in una sovraesposizione mediatica che fa risaltare per contrasto l’incespicante eloquio e l’indecisione perenne del precedente inquilino della Casa Bianca.

Non è certo un caso se l’improvvisa ventata di ottimismo non sembra contagiare i titoli delle grandi banche a stelle e strisce che ancora risentono delle preoccupazioni per la loro solidità, minata dalla montagna di titoli più o meno tossici della finanza strutturata, un ammontare che seppure non del tutto precisato è comunque di molte volte multipla degli sforzi del sistema della riserva federale che ne ha già incamerati per un valore facciale che va dai 2 ai 3 mila miliardi di dollari, pagandoli come se fossero buoni, dando in cambio di questa carta straccia denaro sonante!

Per la precisione, e mentre mancano meno di due ore alla chiusura delle contrattazioni a Wall Street, le quotazioni delle tre principali banche commerciali e quelle delle ultime due sopravvissute investment banks sono entrate in territorio negativo, anche perché è chiaro a tutti che la strada del violento processo di ristrutturazione e concentrazione del mercato finanziario a stelle e strisce è ancora lunga e irta di pericoli, non fosse altro che per la scarsa trasparenza che ancora caratterizza i bilanci delle principali banche a oltre un anno e mezzo dallo scoppio della tempesta perfetta, un’inversione di tendenza che si è estesa agli indici principali, in quanto gli investitori non sono certo convinti che una rondine faccia primavera..

Il fine settimana ha consentito di comprendere meglio le direttrici dell’analogo processo di concentrazione in corso nel sistema bancario europeo, soprattutto in due dei tre paesi che hanno deciso di mettere in campo un ammontare di risorse pari a 1.500 miliardi di euro, una somma stratosferica che in larga parte è stata stanziata a solo titolo cautelativo per garantire, per quanto umanamente possibile, i passivi delle banche dei rispettivi paesi, ma che con gradualità viene utilizzata per favorire quelle aggregazioni tra le banche che, alla fine della fiera, dovrebbero ridursi, in ognuno dei tra grandi paesi, ad un massimo di due o tre grandi colossi contorniati dalla solita pletora di banche di minori dimensioni, replicando così il modello spagnolo che vede la presenza di due colossi creditizi multinazionali che sono in realtà il risultato di aggregazioni successive e che, a parte qualche incidente più di immagine che di sostanza, hanno dimostrato di saper reggere meglio all’impatto degli alti marosi della tempesta perfetta tuttora in corso.

L’avvicinamento in corso tra Socgen e il Credit Agricole, per ora mediante l’aggregazione delle rispettive entità specializzate nell’assett management in una joint venture che vede però la banca verde fare la parte del leone con una quota del 70 per cento, potrebbe sfociare in un vero matrimonio favorito dall’ingresso in forze di capitali pubblici, un’eventualità che il mercato ha premiato con vistosi rialzi del titolo dell’Agricole e un sostanzioso anche se inferiore balzo in avanti della quotazione di Socgen.

Un discorso a parte lo merita Bnp Paribas che ha anticipato i risultati del quarto trimestre e dell’intero 2008 che vedono un risultato dell’ultimo quarto dell’anno in rosso per 1,4 miliardi di euro, in larga parte determinato dalle rilevanti perdite della divisione di Corporate & Investment Banking e un utile netto annuale di 3 miliardi di euro, risultati salutati da un rialzo di oltre il 16 per cento del valore dell’azione anche perché nel comunicato stampa si fa riferimento ad un emissione di azioni destinata all’ingresso di capitali pubblici per un ammontare non meglio determinato e mentre si è in attesa della evoluzione dell’acquisizione di Fortis per la quale, secondo la stampa, sarebbero state avanzate due diverse ipotesi di offerta. Mentre restano coperte le carte di Frau Merkel, qualcosa si ta movendo in Gran Bretagna, paese dove sembra sempre più certo che Barclays avrà un ruolo aggregante.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

lunedì 26 gennaio 2009

Perché è impossibile una riforma del mercato finanziario globale


Senza grande clamore, la maggior parte delle banche di tutto il mondo stanno mettendo mano al portafoglio per compensare in tutto o, nella maggior parte dei casi, almeno in parte i propri clienti danneggiati dal repentino fallimento di Lehman Brothers nel settembre del 2008, un evento che ha cambiato in modo così radicale il mercato finanziario globale che, molto probabilmente, i futuri storici della tempesta perfetta parleranno di prima Lehman e di dopo Lehman per fornire una datazione agli eventi venuti prima e dopo quel fatidico giorno nel quale il trio Bush-Paulson-Bernspan decisero che la storica banca di investimento dovesse finire a zampe all’aria, apparentemente incuranti delle terribili conseguenze di questa loro decisione.

Come ben sanno i miei lettori, nei giorni, nelle settimane e nei mesi successivi a quel 15 settembre, il principale responsabile di quella decisione e, per fortuna di noi tutti, ex ministro del Tesoro statunitense, Hank Paulson, un uomo solitamente sicuro di sé, non fu assolutamente in grado di fornire una qualche ragione razionale per spiegare come mai a Richard Fuld e all ‘sua’ Lehman non fosse stato consentito di avere una sorte simile a quella di Bear Stearns o Merrill Lynch, tanto per restare nel campo delle ex investment banks, o di Countrywide, Wachovia Bank o Washington Mutual, tutte entità andate a irrobustire quel nucleo di banche destinate a sopravvivere agli alti marosi della tempesta perfetta, forse per il semplicissimo motivo che tali ragioni razionali non esistevano.

Non vorrei passare per un convertito sulla strada del too big too fail, quel principio che, almeno a parole, era stato solennemente rinnegato dalla vasta pletora di teorici del neoliberismo più o meno spinto, nonché dai reggitori pro tempore del dicastero del Tesoro negli ultimi venticinque anni, ma quello che trovo davvero intollerabile è vedere salvare l’orso di Stearns che ha dato il la alla più grave crisi finanziaria mai vista a memoria d’uomo, oppure quella Merrill Lynch gestita da un ex Goldman come John Thain, sì quello che è stato licenziato in tronco da Bank of America quando si è scoperto che aveva un po’ indorato la pillola alla banca acquirente e aveva elargito un mare di bonus ai manager negli ultimi giorni che hanno preceduto l’ufficializzazione della transazione, per non parlare del disastro che la Bank of America, sì sempre lei, ha trovato nei conti della Countrywide fondata e gestita dal ‘figlio del droghiere’ Angelo P. Mozilo o della finanza allegra di Fannie Mae e Freddie Mac, o delle voragini trovate in AIG.

Più procede il salvataggio del sistema finanziario a stelle e strisce e più non si capisce dove e quale sia la differenza tra i comportamenti alla Bernand L. Madoff e quelli di cui si sono macchiati Chuck Prince III, John Thain, Dick Fuld, Robert Rubin, Hank Paulson, Larry Blankfein e tanti altri Chairman o Chief Executive Officer, figure che spesso coincidevano, che, nelle stanze foderate di mogano poste ai piani alti dei grattacieli di Manhattan, hanno gestito quello che ogni giorno che passa si rivela un casinò a cielo aperto nel quale valgono regole che verrebbero considerate illegali anche a Las Vegas!

Non stupisce al riguardo che i leaders del mondo industrializzato strillino come aquile di fronte a tutto questo, anche se si va a scovare nei rispettivi curricula si scopre che l’inorridito presidente tedesco è stato in passato il numero uno del Fondo Monetario Internazionale, che il bellicoso presidente francese è stato un brillante avvocato d’affari, che i ministri del Tesoro di Bill Clinton sono stati i picconatori del sistema di regole introdotto nel corso della grande depressione, che l’attuale premier britannico, Gordon Brown, è stato per quasi dieci anni Cancelliere dello Scacchiere, cioè ministro dell’economia, e non vado oltre perché l’elenco sarebbe troppo lungo e non aggiungerebbe nulla al ragionamento.

Sempre in tema di ipocrisie e di responsabilità più o meno soggettive, che dire dei banchieri centrali con un passato di presidenti e/o amministratori di banche più o meno di investimento e più o meno globali o alti esponenti delle stesse e qui non faccio l’elenco perché non basterebbero due puntate del Diario della crisi finanziaria per enumerarli tutti, il che consente di dire che l’espressione apparentemente offensiva del per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, loro rivolta, l’oramai storico “topi posti a guardia del formaggio”, non era in fondo che un buffetto affettuoso!

La realtà è che la schiera di responsabili più o meno colpevoli e più o meno distratti è estremamente vasta e del tutto bipartisan, il che è di poco conforto ove si pensi che ciò rende non solo oltremodo difficile distinguere i buoni dai cattivi, ma, il che mi sembra molto più importante, induce a ritenere che molto, ma molto difficilmente ci si potrà attendere dagli attuali governanti e banchieri centrali una riforma incisiva delle regole sulle quali dovrà essere edificato il mercato finanziario globale del futuro, figurarsi poi se ci si può attendere da questi personaggi un processo severo ai responsabili della tempesta perfetta.

Con questo non voglio assolutamente dire che non accadrà nulla o che non verranno adottate misure volte a ripristinare quel minimo di fiducia essenziale per il funzionamento dei mercati in generale, e di quello creditizio in particolare, ma soltanto che come è già accaduto più volte nel secolo scorso, tali misure non saranno mai caratterizzate da quel grado di efficacia e di incisività che pure lo sfacelo attuale richiederebbe, anche perché questo è letteralmente impossibile anche per il giovane nuovo presidente degli Stati Uniti d’America e non perché non sia possibile, ma per la semplicissima ragione che è letteralmente impossibile anche per uno come lui non essere influenzato dai poteri forti esistenti al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

sabato 24 gennaio 2009

Il deal tra Socgen e l'Agricole apre il tranquillo weekend di paura dei banchieri europei!


Con uno scarno e secco comunicato rilasciato nella serata di venerdì, la Federal Deposit Insurance Corporation ha reso noto di avere deciso la chiusura della Centennial Bank, una piccola banca californiana dotata di sei sportelli, una notizia corredata dell’informazione che si tratta della terza banca a fallire dall’inizio dell’anno e che, nel 2008, le autorità hanno lasciato fallire tredici banche di varia dimensione, a cui si aggiunge la Lehman Brothers, mentre sono state acquisite da altre banche la Bear Stearns, Countrywide, Wachovia Bank, Washington Mutual e Merrill Lynch, mentre sono state nazionalizzati i colossi dei mutui Fannie Mae e Freddie Mac e la più grande compagnia di assicurazione statunitense, se non del mondo intero, AIG.

Mentre vengono annunciate misure che prevedono l’adozione di criteri più restrittivi per l’operatività di Fannie, Freddie e Zinnie, i nomignoli affettuosi con cui vengono descritte entità che hanno apportato al debito pubblico statunitense titoli per qualcosa come 5.200 miliardi di dollari, caratterizzati peraltro da un significativo turn over, è in corso un riorientamento che, attraverso uno stanziamento di 100 miliardi di dollari, dovrebbe puntare ad una rinegoziazione di parte dei mutui residenziali esistenti, soprattutto nelle micidiali componenti conosciute come subprime o quelle armi di distruzioni di massa che sono gli ARM nelle loro diverse varianti, una misura essenziale per ridurre al minimo le procedure di foreclosure che, a loro volta, portano a quel proliferare di vendite all’incanto che stano esercitando un effetto davvero micidiale sui prezzi delle case.

Purtroppo, non sarà né facile né semplice risolvere gli intricatissimi problemi legali che impediscono le rinegoziazioni, problemi in buona misura legati al trattamento cui i mutui originari sono stati sottoposti dagli apprendisti stregoni impegnati nelle fabbriche prodotto delle ex Investment Banks e delle sempre più deperite divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, mutui che sono stati spesso prontamente impacchettati, spacchettati, sminuzzati in quei titoli più o meno tossici della finanza strutturata che nessuno oramai vuole più e che il sistema della riserva federale sta stoccando a tonnellate nella più ampia discarica a cielo aperto del pianeta, provvidenzialmente, almeno per le banche di ogni ordine e grado, aperta presso la Fed di New York, presieduta sino a pochi giorni fa dal nuovo ministro del Tesoro a stelle e strisce, Timothy Geithner.

Non posso non ricordare che nel settembre del 2007, agli albori cioè della tempesta perfetta, la brava ed energica presidentessa dell’ente federale che si occupa del problema abitativo propose esattamente di intraprendere la strada della rinegoziazione dei mutui, ma fu prontamente stoppata da Hank Paulson e Bernspan che, a nome di quelle stesse banche e finanziarie a cui avevano consentito di tutto, trovarono molto interessante la sua idea, ma trovarono insormontabili i problemi legali connessi, ma, soprattutto, invocarono il principio sacro in ogni paese influenzato dall’ideologia protestante e che prevede che chi sbaglia, ovviamente, almeno secondo loro, i mutuatari deve inesorabilmente pagare!

La logica micidiale che ha portato la finanza più o meno strutturata a deviare dal suo compito originario sta colpendo con forza anche le varie società finanziarie collegate alle grandi Corporations, entità che spesso avevano le dimensioni di una grande banca e che basavano le loro pratiche alquanto disinvolte sul principio dell’estremo frazionamento del rischio, avendo le stesse decine di milioni di clienti, un principio in sé poco discutibile se non quando, evento giudicato pressoché impossibile dai teorici neoliberisti, ci si trova a fronteggiare una tempesta perfetta che non è poi che lo scoppio contemporaneo di varie e gigantesche bolle speculative, una situazione che rende del tutto inefficace la logica assicurativa di fatto seguita da colossi quali GMAC e la divisione finanziaria del colosso energetico General Electric, due entità che, insieme ai piani previdenziali e di assistenza sanitaria previsti sia in General Motors che in General Electrics, minacciano di far affondare il primo produttore di automobili statunitensi e la più grande società elettrica (in realtà un mostruoso conglomerato di attività le più disparate) a stelle e strisce.

Mentre è appena iniziato quello che ieri definivo un tranquilli weekend di paura per le banche europee, è giunta la notizia di un accordo tra l’oramai celebre Socgen, quella del trader infedele Kerviel e del relativo buco di 5 miliardi di euro, e il Credit Agricole che avrebbe deciso di costituire una joint venture nell’assett management, una nuova entità che vedrebbe la banca verde al 70 per cento e Socgen al 30, un divario di pesi ancor più accentuato di quello presente nel deal raggiunto tra Citigroup e Morgan Stanley e che autorizza a definire l’operazione come una vendita dell’assett management di Sosgen al Credit Agricole.

La notizia assume un particolare rilievo alla luce dell’obiettivo da me attribuito al decisionista presidente francese Nicolas Sarkozy di giungere ad una drastica riduzione del numero delle grandi banche francesi, un obiettivo la cui realizzazione potrebbe passare per un merger proprio tra Socgen e l’Agricole, mentre non è chiaro, una volta andata in porto l’operazione Fortis, quale potrebbe essere lo shopping più o meno ‘spintaneo’ di BNP Paribas che potrebbe solo passare per acquisizioni nel variegato mondo delle casse di risparmio e delle banche a carattere mutualistico.

Non è peraltro un mistero per nessuno che la rilevante perdita del sistema delle casse di risparmio nel casinò a cielo aperto della finanza più o meno strutturata, pur se di molto inferiore al danno patrimoniale e d’immagine subita da Socgen, ha fatto andare su tutte le furie Sarkozy e non pochi dei suoi ministri

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venerdì 23 gennaio 2009

Sarà davvero un tranquillo weekend di paura per i banchieri europei!


Mentre ci si avvicina a un nuovo fine settimana decisivo, o che potrebbe essere tale, per decidere quale strada seguire per porre un argine al meltdown del settore finanziario statunitense e di quello globale, i mercati sembrano intenzionati a segnalare che quanto è stato fatto sinora non è servito a iniettare le dosi sufficienti di fiducia sulla rotta intrapresa dai governi e dalle banche centrali, un elemento non da poco ove si consideri che soltanto al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico sono stati già spesi qualcosa come 5 mila miliardi di dollari, più o meno la metà di quanto stanziato per fronteggiare una tempesta perfetta che dura oramai da diciotto mesi e non sembra perdere l’impeto iniziale.

Certo, il clima di totale sfiducia esistente sul mercato interbancario globale si è certamente rasserenato rispetto a quello riscontrabile qualche mese fa, ma non dimenticato che una delle misure caldeggiate nel corso dell’ultimo vertice del G20 a Washington e poi fatta propria da diversi paesi industrializzati è stata proprio quella di garantire più o meno a piè di lista il passivo delle banche sia nei confronti dei depositanti che quello esistente tra di loro, una misura eccezionale che, tuttavia, non ha consentito di evitare che sparissero letteralmente dal mercato decine di migliaia di dollari divorati da quel fenomeno che prende il nome di credit crunch.

Quello che potrebbe essere deciso nelle prossime ore da Gordon Brown, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel è di intraprendere con maggiore decisione e senza più ascoltare i lamenti dei banchieri la strada di una nazionalizzazione di una parte rilevante del sistema bancario dei rispettivi paesi, affidando alle banche prescelte (ci si augura in base a criteri oggettivi) il compito di farsi carico di quelle banche che sono considerate tecnicamente fallite e per ciò stesso giudicate irrecuperabili.

Pur volendo evitare con cura di addentrarmi nel ginepraio di criteri e valutazioni che hanno spinto a compiere la selezione, considero essenziale ribadire che, alla fine della fiera, la situazione dei mercati creditizi dei tre maggiori paesi dell’Unione Europea non potrà essere molto dissimile da quello esistente da qualche anno in Spagna, dove, dopo un processo durissimo di selezione, sono emersi due soli grandissimi gruppi bancari che, forse non del tutto a caso, sono passati pressoché indenni tra gli alti marosi della tempesta perfetta, e dico quasi perché, anche se in misura diversa, sono incappati nello schema di Ponzi di Bernard L. Madoff, una circostanza che ha letteralmente fatto perdere il sonno a Don Emilio Botin e ha reso molto turbolente le riunioni che usa tenere nel pomeriggio del giorno che i cristiani solitamente dedicano al riposo e alla preghiera.

Mentre uno scenario simile potrebbe presentare pochi problemi in Germania, dove da qualche tempo le banche private si sono di fatto già ridotte a due, anche se resta il problema di quel 70 per cento circa del mercato creditizio tuttora appannaggio delle Landesbanken e delle Sparkassen, le cose sono destinate a complicarsi parecchio quando si prendono in considerazione la realtà francese e quella britannica, che di grandi banche ne annoverano almeno quattro ciascuna, nessuna delle quali sembra incline a interpretare la parte della aggregata da qualche odiata rivale, a meno che il tutto non venga deciso per decreto!

Ma se le cose si presentano complesse nei tre paesi che hanno deciso di prendere il toro per le corna e hanno messo nel piatto oltre 1.500 miliardi di euro, provate voi a immaginare quanto lo siano di più in un Paese come l’Italia che, a parte il provvedimento assunto d’urgenza a tutela dei depositanti, ha sinora affrontato gli alti marosi della tempesta perfetta erigendo una diga di parole e di buoni proponimenti, evitando, al contempo e con estrema cura, di mettere anche un solo euro a disposizione delle banche che oramai vedono la loro capitalizzazione di borsa ridotta in non pochi casi a un quinto di quella vantata quando le cose andavano ancora bene ed erano universalmente valutate come un po’ conservatrici ma molto affidabili.

Come scrivevo nella puntata di ieri, il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, ha fatto esattamente quello che aveva detto sin dall’inizio e, cioè, ha tessuto una vera e propria tela di Penelope in quel di via XX Settembre, redigendo e cancellando per oltre tre mesi quel decreto che avrebbe consentito al Tesoro di sottoscrivere le obbligazioni emesse dalle banche, sapendo benissimo che sarebbe giunto il giorno in cui i vertici delle stesse gli avrebbero chiesto a gran voce di fare quello che soltanto qualche mese fa giudicavano inutile e superfluo e che oggi appare come l’unica soluzione possibile per riportare i ratio patrimoniale nella versione definita TIER 1 ai livelli previsti dalle norme vigenti, ben sapendo che da un momento all’altro quello stesso limite minimo potrebbe essere elevato all’8 per cento, un livello per molte, se non tutte, del tutto irraggiungibile.

Nel frattempo, un interessante banco di prova è rappresentato dall’aumento di capitale deciso in quell’orribile mese di ottobre del 2008 da Unicredit Group, una roba da complessivi 3,3 miliardi di euro che costerà alla sola Fondazione Cariverona la cifra tonda di 500 milioni di euro, ma che, per la disperazione del suo presidente, Paolo Biasi, ne varrebbe, mark to market, poco più di un terzo e si accompagna al previsto digiuno primaverile in sede di attribuzione del dividendo.

Non sono assolutamente in grado di dire come finirà questa operazione, ma sono certo che la lettera circolare che Tremonti ha inviato nei giorni scorsi alle fondazioni di origine bancaria e, soprattutto, le insidiose e indiscrete domanda da lui rivolte influenzeranno e non di poco le scelte in materia delle fondazioni medesime!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/.

Ministro Tremonti, se ci sei, batti un colpo!


Il nuovo tonfo delle costruzioni di nuove case in dicembre, scese del 15,5 per cento ad un dato annualizzato di 550 mila unità abitative contro le 610 mila previste dagli analisti, l’imprevisto balzo in avanti dei sussidi settimanali di disoccupazione, giunti oramai a sfiorare le 600 mila unità, l’annuncio di 5 mila licenziamenti alla Microsoft, sono tutte notizie che rendono chiaro il quadro recessivo a dodici mesi esatti dall’avvio della fase.

Quello che colpisce maggiormente nel dato sulle nuove costruzioni è il riferimento temporale del nuovo minimo, un livello per ritrovare il quale bisogna tornare addirittura al 1959, né consola molto che il dato relativo ai nuovi permessi sia caduto nello stesso mese ‘soltanto’ del 10,9 per cento, il che porta il dato annualizzato a 549 mila, sempre del 10 per cento al di sotto delle previsioni degli analisti evidentemente tratti in inganno dal dato provvisorio relativo al mese di novembre.

Le pessime notizie provenienti dall’economia reale hanno immediatamente fatto volgere al rosso i tre listini principali statunitensi che avevano vissuto quasi un mercoledì da leoni, una seduta caratterizzata da forti rimbalzi delle azioni delle principali entità finanziarie dopo i tracolli registrati nella seduta precedente, una riproduzione fedele del movimento ondoso della tempesta perfetta che ci ha oramai abituati alla alternanza di onde molto alte inframmezzate da momenti di relativa bonaccia, utili al più a far parlare i giornali e gli altri media.

Con un candore ammirevole il giovane presidente della Federal Reserve di New York, Timothy Geithner, ha affrontato le domande alquanto insidiose di alcuni senatori repubblicani, in particolare quelle relative al ruolo di primo piano da lui svolto in tutte le operazioni di salvataggio delle banche di investimento e di quelle commerciali di ogni ordine e rango, affermando che era certamente possibile per la Fed di New York agire in modo molto più incisivo di quanto abbia in realtà fatto, quasi lui passasse di là per caso e non avesse trascorso tutti i fine settimana di questi ultimi diciotto mesi in riunioni più o meno affollate nel corso delle quali si decideva chi salvare e chi lasciar fallire tra le banche a stelle e strisce.

Non è tanto e non è solo per il ruolo fondamentale svolto nell’ambito del sistema della riserva federale dal presidente della Fed che ospita i lavori del Federal Open Market Committee e che ha tenuto aperta la più grande discarica a cielo aperto per i titoli più o meno tossici della finanza strutturata, stoccandone per un valore facciale di oltre 2 mila miliardi di dollari, né per la partecipazione alle soprammenzionate riunioni, il fatto è che Timothy è, per unanime ammissione, uno che è abituato da sempre a svolgere un ruolo decisivo nelle questioni più o meno spinose che è chiamato ad affrontare, così come appare del tutto incurante del divario tra il suo ruolo pro tempore e quello ben più elevato dei suoi interlocutori, come accade quando, trentasettenne dirigente del Tesoro, riuscì a fare passare il suo piano da 100 miliardi di aiuti alle Tigri asiatiche in estrema difficoltà, un piano a cui inizialmente si opponevano sia il Maestro Greenspan che il ministro del Tesoro dell’epoca.

Pur essendo proprio queste caratteristiche di Geithner che hanno influito sulla scelta del coetaneo Obama di puntare su di lui per quella che sarà certamente la poltrona più scottante del primo governo del suo primo mandato, è altrettanto indubbio come sia difficile per lui vestire i panni di Biancaneve di fronte ai rodatissimi lupi del Great Old Party che lo stanno interrogando, anche perché, se è certo che il suo curriculum non presenti permanenze più o meno durature in banche di investimento o in banche più o meno globali, è altrettanto vero che ha avuto poteri di vita e di morte sulle stesse per oltre un anno e mezzo, una circostanza che fa di lui uno dei maggiori responsabili della gestione della maggiore crisi finanziaria mai vista, anche se è certo che questo piccolo particolare non gli impedirà certo di passare indenne sotto le forche caudine del Senato degli Stati Uniti d’America!

Sempre a proposito di nuove nomine, non vi è alcun dubbio che il preannunciato cambio al vertice di Citigroup, che ha visto l’ex numero uno di Time Warner, Richard Parsone, prendere il posto del povero baronetto inglese, Win Bishoff, alla presidenza della più che martoriata banca a stelle strisce, non ha entusiasmato più di tanto gli azionisti che hanno ripreso a vendere a piene mani le azioni portandole di nuovo a testare verso il basso la soglia dei 3 dollari, così come non credo che appassioni nessuno la vicenda personale di John Thain che potrebbe oggi stesso essere costretto a fare gli scatoloni e a lasciare Bank of America, la banca in cui ha traghettato l’ex investment bank Merrill Lynch.

Se le banche statunitensi sono di nuovo bombardate da ordini di vendita, non molto diversa si presenta la situazione delle loro consorelle europee che, fate salve poche e sporadiche eccezioni, sono nuovamente sotto pressione, anche se stavolta si tratta di vendite molto mirate e che sembrano ispirate dalla conoscenza o dalla preveggenza sulle mosse che, forse già nel prossimo fine settimana, verranno assunte dai governi dei tre paesi dell’Unione Europea che hanno complessivamente messo sul piatto più di 1.500 miliardi di euro, ma che ne hanno sinora spesi solo una parte frazionale, ottenendo per di più risultati molto, ma molto modesti.

Per quanto riguarda, invece, le maggiori banche italiane, continuo a segnalare, anche dopo il più che strombazzato summit tra il Direttorio della Banca d’Italia e gli esponenti delle sei maggiori banche, l’assenza del decreto sui bond destinati al Tesoro!

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giovedì 22 gennaio 2009

Dal Dream Team al Governo di Obama!


Il giuramento di Barack Obama quale quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America ha richiamato la più grande folla che una cerimonia del genere ricordi, ma la giornata è stata anche funestata da un sonoro tonfo dei tre principali indici statunitensi, con flessioni come non se ne vedevano dallo scorso dicembre, mentre il sottoindice dei titoli finanziari ha registrato la peggiore perdita di sempre, con una flessione che ha sfiorato il 17 per cento e che si pone di otto punti al di sotto della vera e propria debacle di quella Bank of America che ha dopo ricevuto un’iniezione di capitali pubblici da 20 miliardi di dollari, ricevendo al contempo l’autorizzazione della Fed di New York a scaricare altri titoli più o meno tossici della finanza strutturata dal valore facciale di 120 miliardi di dollari, ma che, ove venduti sul mercato, non varrebbero nemmeno un quinto di tale valore.

Se vi è una cosa certa, è che il povero presidente della più importante tra le banche che compongono il sistema della riserva federale, Timothy Geithner, non vede davvero l’ora di ottenere i previsti placet dal Congresso alla sua nomina a successore dell’ex (?) investment banker Hank Paulson, non fosse altro che per allontanarsi dall’immensa discarica a cielo aperto oramai stracolma di titoli dal poco piacevole olezzo ma che già sono costati al contribuente la bellezza di duemila miliardi di dollari, o due trilioni come si usa dire da quelle parti!

Proprio mentre Obama giurava, il mitico e ineffabile Effe O Ixs, al secolo Christopher Cox, ha firmato la sua lettera di dimissioni dall’incarico di presidente della Securities and Exchange Commission, una delle tante autorità statunitensi che in questi anni, se non negli ultimi due decenni, hanno girato con costanza degna di miglior causa la loro testa dall’altra parte, basti pensare che la divisione della Sec che avrebbe dovuto prevenire i dissesti delle banche quotate si era più o meno ridotta alla sola targa, in quanto si riteneva che non servisse assolutamente a nulla ed è solo nell’ottobre del 2007 che sono state reclutate in fretta e furia duecento persone che sono state letteralmente gettate nella mischia e a sorvegliare colossi bancari caratterizzate da bilanci così oscuri e così complessi da rendere del tutto risibili gli sforzi di un pugno di donne e di uomini di poca o nulla esperienza chiamati a confrontarsi con legioni di avvocati, fiscalisti, esperti della finanza più o meno strutturata e chi più ne ha ne metta.

Il mesto addio dell’uomo che credeva di essere più furbo dei vari David Einhorn in circolazione, cioè di quei miliardari e ottimi conoscitori delle pecche delle principali entità protagoniste del mercato finanziario globale in grado di guadagnare sia vendendo allo scoperto che approfittando degli insensati blocchi posti a tale tipo di operatività per speculare sui più che prevedibili rialzi, precede di poco i traslochi verso altri lidi di Bernspan e di Paulson, che mi auguro si siano preparati per tempo, anche per non fare la fine del vice di Bush, Dick Cheaney, costretto a partecipare in carrozzella alla cerimonia del giuramento dell’odiato avversario politico per la troppa foga messa nel fare gli scatoloni all’ultimo minuto.

A proposito delle audizioni in corso al Senato dei candidati, fanno sorridere le critiche mosse da alcuni esponenti repubblicani che contestano al giovane Geithner di essere inadatto al delicatissimo compito di ministro del Tesoro degli Stati Uniti d’America per essere troppo vicino alle istanze della potente anche se sempre meno preveggente Goldman Sachs, critiche mosse molto spesso da quegli stessi senatori che non trovarono nulla da ridire sul fatto che il predecessore di Geithner, Hank Paulson, assumesse lo stesso incarico nel giugno del 2006 quando sino al giorno precedente era, e da lunga pezza, Chairman e Chief Executive Officer proprio della più blasonata tra le ex Investment Bank e che il suo ruolo nel salvataggio del colosso assicurativo AIG non è stato certo minore di quello del povero presidente della Fed di New York.

Il più che prevedibile rimbalzo delle quotazioni delle banche, delle compagnie di assicurazione e delle corporations di ogni ordine e rango dopo le perdite spettacolari registrate nella terribile seduta di martedì, sta spingendo verso l’alto i tre indici principali di Wall Street , anche se in misura non sufficiente a recuperare il terreno perduto, anche perché le notizie che provengono dal disastrato settore immobiliare, in particolare quell’indice che misura la fiducia dei costruttori che si sta avvicinando paurosamente a zero, inducono a ritenere che si sia ben lungi dall’aver toccato il fondo del grafico dei prezzi che continua a essere appesantito dalla falcidia delle procedure di esproprio delle case dei mutuatari morosi, dall’affollamento delle date delle aste promosse dalle banche e dal concomitante e apparentemente inarrestabile aumento dello stock delle case invendute.

Volgendo lo sguardo al settore finanziario a stelle e strisce, non può non colpire la ripresa dei movimenti molto violenti al ribasso e al rialzo delle quotazioni delle principali banche che, in due sole sedute, hanno generalmente fatto registrare escursioni superiori ai quaranta punti percentuali, per non parlare degli oltre settanta punti percentuali complessivi di variazione registrati dall’azione della State Street Bank, movimenti questi che stanno mandando di nuovo alle stelle l’indice della volatilità, comunemente definito l’indice della paura.

In una giornata caratterizzata dai rimbalzi delle maggiori banche europee, si fanno notare i segni più frazionali di alcune banche fortemente penalizzate nelle sedute precedenti, ma ancor di più i persistenti segni meno di alcune banche italiane come Intesa-San Paolo, il Monte dei Paschi di Siena e del gruppo bancario e assicurativo Unipol.

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mercoledì 21 gennaio 2009

Obama giura e il sistema bancario si lecca le ferite e si ristruttura!


Scrivo mentre milioni di cittadine e cittadini degli Stati Uniti stanno affollando lo spazio antistante il palco sul quale avverrà il giuramento del primo presidente nero della nazione compresa tra due oceani, un avvenimento che avviene solo pochi decenni dopo la messa la bando dell’odioso sistema di segregazione razziale allora pienamente vigente in numerosi Stati dell’America profonda e che forse segna davvero l’inizio di una nuova era che viene a inaugurarsi negli stessi giorni in cui prende l’avvio l’Era dell’Acquario.

Come dicevo ieri, mai il lungo periodo di interregno tra il presidente uscente e quello eletto è apparso così pieno di attese, un clima che, con il lento trascorrere delle settimane, ha contagiato sia quanti avevano votato Obama che la consistente minoranza che gli aveva preferito l’anziano Mc Cain, veterano di guerre combattute sui campi di battaglia vietnamiti e nelle austere sale del Senato a stelle e strisce, tutti accomunati dal timore che dalla tempesta perfetta oramai nel pieno del suo diciottesimo mese di vita si possa passare ad una recessione che competa per durata con quella che è stata definita la Grande Depressione.

L’attivismo di un ufficio di transizione sempre più simile ad un governo ha rafforzato queste attese poco meno che messianiche, mentre il mercato finanziario statunitense ha, da qualche giorno, perso la pazienza e abbiamo assistito alla rottura verso il basso di quei livelli davvero infimi che molte banche e altre entità protagoniste dell’agone finanziario avevano toccato dopo il fallimento della Lehman Brothers il 15 settembre del 2008, quell’ondata ribassista che aveva portato nei trenta giorni successivi la flotta della finanza più o meno globale a rischiare il naufragio e i governo dei paesi maggiormente industrializzati a mettere sul piatto qualcosa come 10 mila miliardi di dollari!

Gli operatori e gli investitori/risparmiatori non sono rimasti con le mani in mano neanche in questa storica giornata, iniziata davvero male in Asia e che ha visto le banche europee affrontare il secondo giorno di calvario, dopo la disastrosa seduta di venerdì che, anche complice la mega perdita annunciata dalla Royal Bank of Scotland (28 miliardi di sterline), ha registrato una vera e propria alluvione di ordini di vendita sui colossi creditizi e assicurativi europei.

Ma il peggio doveva venire con l’apertura di Wall Street, chiusa nella giornata di lunedì per la festa nazionale dedicata a Martin Luther King, dove si è assistito sin dalle prime contrattazioni all’ennesimo bagno di sangue per Citigroup e Bank of America, i due colossi creditizi che hanno ricevuto sinora il maggior numero di aiuti pubblici, sia in termini di sottoscrizione di azioni privilegiate da parte del Tesoro per complessivi 90 miliardi di dollari, sia mediante l’accollo da parte della Federal Reserve di poco meno di mille miliardi di dollari di titoli più o meno tossici della finanza strutturata, interventi assolutamente senza precedenti ma che non riescono in alcun modo ad arrestare l’ondata di vendite in corso sui rispettivi titoli azionari.

Quanto sta accadendo al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico sta gettando nella disperazione centinaia di milioni di azionisti delle banche e delle compagnie di assicurazione, ma ha consentito a David Einhorn e a quel manipolo di miliardari che da oltre un anno si sono messi sulla sua scia di diventare molto, ma molto più ricchi scommettendo senza soluzione di continuità contro la maggior parte delle entità protagoniste del mercato finanziario globale, un’operatività intensa e che ha visto anche mutamenti tattici quando la Sec e i regolatori europei hanno temporaneamente bloccato le vendite allo scoperto, perché in quelle fasi non hanno fatto altro che guadagnare sui rialzi drogati che, almeno in alcuni casi, hanno fatto registrare incrementi anche del seicento per cento delle quotazioni.

La decisione del governo Brown di procedere alla nazionalizzazione di Royal Bank of Scotland con una quota del capitale che dovrebbe aggirarsi intorno al 70 per cento (anche se non viene escluso che si passi al 100 per cento), così come l’aumento della quota pubblica nelle Royal Bank, lasciano nell’area privata le sole Barclays e Hong Kong Shanghai Banking Corporation, anche se non si sa per quato tempo questi due colossi dai piedi sempre più di argilla potranno continuare a rifutare orgogliosamente la mano loro tesa da Downing Street.

Molto più complesso si presenta lo scenario francese, anche perché le due banche maggiormente candidate a fare da elementi aggreganti, BNP Paribas e Socgen, sono entrambe in caduta libera da diverse sedute, in attesa che, forse già nel prossimo fine settimana, gli uomini di Sarkozy decidano di rendere note le prossime tappe di un processo di aggregazione che dovrebbe avvenire ai danni del Credit Agricolo e della alquanto disastrata Caisse, mentre nulla si sa degli sviluppi dell’Affaire Fortis dopo la nuova offerta, articolato su due opzioni alternative, rilanciata dalla stampa e non smentita dal quartier generale della banca parigina.

Altrettanto a carte accuratamente coperte sta giocando la cancelliera più o meno di ferro, Angela Merkel, che ha sì acquisito il 25 per cento dell’aggregato risultante tra Commerzbank e l’acquisita Dresder, ma che sembra non aver deciso nulla sul destino della Deutsche Bank che da poco è entrata in possesso dell’ex braccio bancario della Deutsche Post, mentre nulla ancora trapela sui progetti governativi in merito alle Landesbanken e alle Sparkassen, entità cui fa ancora riferimento il 70 per cento circa di quel sistema bancario tedesco a sua volta essenziale per garantire la tenuta dell’apparato industriale teutonico.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

martedì 20 gennaio 2009

Mentre l'America aspetta l'incoronazione di Obama, l'Europa assiste al meltdown delle suo sistema bancario!


Mentre l’America festeggia il Martin Luther King Day e un’immensa folla a New York ha avuto modo di ascoltare un mega concerto all’aperto in ricordo del leader nero tragicamente scomparso, in attesa della cerimonia di insediamento del primo presidente nero della più che bicentenaria storia degli Stati Uniti d’America, i mercati finanziari di quel paese sono rimasti chiusi e possono restare sugli allori del mini rimbalzo di venerdì scorso che ha fatto registrare rialzi che si aggirano intorno all’uno per cento per i tre indici principali.

A fare le spese dell’avvio dell’ottava sono rimasti i mercati finanziari europei che hanno fatto registrare l’ennesima seduta negativa, contrassegnata da un calo pressoché generalizzato degli indici che si mantengono comunque su livelli di perdita ben inferiori a quelle registrate dalle principali entità del mercato finanziario europeo, con cali che arrivano anche a essere a due cifre, come nel caso dei due colossi creditizi francesi, BNP Paribas e Socgen, mentre il Credite Agricole si limita a perdere qualcosa come l’8 per cento.

Ben peggiori sono le performance delle banche britanniche, con la Royal Bank of Scotland che ha perso in una sola seduta poco meno dell’80 per cento, spingendosi a testare la soglia psicologica di una sterlina, mentre la Barclays e l’Hong Kong Shanghai Banking Corporation perdono entrambe più del 10 per cento, anche per l’annuncio del premier Gordon Brown che ha in programma di procedere con nuove e più sostanziose immissioni di capitali pubblici che si tradurrebbero di fatto in una vera e propria nazionalizzazione della parte più rilevante del sistema creditizio inglese.

Non molto diversa appare la situazione in Germania e in Svizzera, con Deutsche Bank in calo di poco meno del 10 per cento, mentre la quasi nazionalizzata Commerzbank, che ha da poco completato l’acquisizione della Dresdner Bank dalla Allianz, contiene le perdite a poco più del 3 per cento.

Le bellicose intenzioni del governo britannico, le mire mai nascoste del decisionista Sarkozy, uno che sin dai primi mesi della tempesta perfetta ha usato parole durissime contro gli eccessi (le follie ebbe a definirle nel corso di una visita in India) del mercato finanziario e che vorrebbe favorire un forte processo di concentrazione che riguarderebbe in un modo o nell’altro le quattro principali banche del paese e il netto cambio di passo della cancelliera Angela Merkel che ha deciso in pochi giorni l’acquisizione di un quarto delle azioni della Commerzbank, sono tutti elementi che fanno ritenere che i leaders dei tre grandi paesi dell’Unione Europea hanno finalmente deciso di rompere gli indugi e di utilizzare una parte più consistente dei 1.500 miliardi di euro stanziati a metà ottobre (e sinora utilizzati soltanto in minima parte).

La vera novità del nuovo approccio seguito da quello che molti iniziano già a chiamare il Direttorio europeo sta nel fatto che è oramai chiara la consapevolezza della sostanziale inutilità degli aiuti incondizionati in favore delle banche, anche perché solo da una presenza diretta dello Stato nei consigli di amministrazione e, dove necessario, da un ricambio più o meno radicale degli attuali vertici possono venire maggiori garanzie sul mantenimento del flusso di credito alle famiglie e alle imprese, vera conditio sine qua non dell’avvio di un percorso che eviti alle economie dei tre paesi di restare in recessione per un periodo di tempo lunghissimo.

Non è, invece, ancora altrettanto chiara la strategia del governo Zapatero in materia, anche alla luce della maggiore solidità dei due principali gruppi creditizi spagnoli, due vere e proprie multinazionali del credito con forte radicamento nei paesi dell’America latina, mentre è certamente apprezzabile lo sforzo che il governo di Madrid sta profondendo in favore del settore delle costruzioni e di ampie parti dell’industria manifatturiera.

Nella puntata di ieri, ho cercato di delineare un ambizioso progetto di controllo statale indiretto delle principali entità del mercato finanziario italiano, una ricostruzione in larga misura basata sull’osservazione delle mosse del per la terza volta ministro italiano dell’economia, Giulio Tremonti, anche perché scrivevo ascoltando le risposte fornite dallo stesso nel corso di una lunga intervista rilasciata al conduttore della fortunata trasmissione televisiva di Fabio Fazio.

La mia lunga esperienza nel campo dell’analisi economica e della comunicazione mi ha insegnato ad ascoltare quello che dicono i protagonisti, un approccio che ho molto affinato quando dovevo prevedere le decisioni dei maggiori banchieri centrali del pianeta, anche perché spesso dicono esattamente quello che faranno, seppure amino utilizzare un linguaggio che va in qualche modo interpretato.

Ebbene, devo dire francamente che il linguaggio di Tremonti è, invece, abbastanza chiaro e che, sin dall’inizio di ottobre, ebbe modo di dichiarare in più occasioni che il suo obiettivo non era quello di salvare le banche o le compagnie di assicurazione, quanto quello di garantire che i depositanti non perdessero i propri risparmi, cosa che stabilì per decreto, mentre chi aveva sbagliato tra i banchieri doveva andare, a seconda delle fattispecie e delle responsabilità individuali, o a casa o in galera!

Tre mesi dopo quelle prime dichiarazioni, è chiaro ai più quello che ebbi a scrivere in quei giorni e che, cioé, le banche italiane potevano scordarsi aiuti pubblici incondizionati e a poco prezzo, cosa che in realtà non è mai accaduta e mentre si è ancora in attesa del relativo decreto legge.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

lunedì 19 gennaio 2009

Ma sta a vedere che Berlusconi, attraverso Tremonti, vuole mettere di nuovo le banche nelle mani del Governo?


La visita che Alessandro Profumo e altri top manager di Unicredit Group hanno fatto in un paese arabo provvidenzialmente dotato di un ricco fondo governativo alla ricerca di buone occasioni sui sempre più turbolenti mercati finanziari occidentali è stata ufficialmente motivata dalla ricerca di compratori per alcuni assets in vendita scampati ai saldi di fine anno che hanno consentito al gruppo creditizio milanese di mettere una pezza ai non proprio brillanti conti dell’esercizio 2008 che, come è noto, non darà luogo ad alcuna distribuzione di dividendo, con buona pace degli azionisti, fondazioni in testa, chiamati a mettere le mani al portafoglio per garantire il successo dell’aumento di capitale per complessivi 3,3 miliardi di euro appena approvato dalla Consob.

Non sono, tuttavia, mancati articoli di stampa da parte dei soliti giornalisti sospettosi che hanno voluto vedere in questa trasferta all’estero di Profumo e compagni la ricerca di soci disponibili a rintuzzare le paventate pretese dei presidenti delle fondazioni bancarie azioniste di Unicredit che vorrebbero, almeno stando alla attenta ricostruzione de Il Sole 24 Ore, un merger tra Mediobanca e l’istituto di Piazza Cordusio, un’operazione che porterebbe anche a un radicale ricambio dei vertici aziendali, ipotesi ovviamente ben poco gradita al presidente tedesco Rampl e all’ex enfante prodige della finanza italiana che non ha alcuna intenzione di anticipare di qualche anno l’addio alle armi da lui unilateralmente fissato al compimento del sessantesimo anno d’età.

Non so assolutamente se tali indiscrezioni e ricostruzioni rispondano al vero, anche perché è certo che i fondi governativi, siano essi arabi, cinesi o di qualsivoglia altra origine, dopo le scottature ricevute correndo in soccorso delle principali banche statunitensi e svizzere, appaiono molto restii a mettere mano al portafoglio prima che si sia raggiunto davvero il fondo dell’apparentemente inarrestabile meltdown azionario delle banche e delle compagnie di assicurazione, situazione che dovrà essere testimoniata da un sensibile e duraturo rialzo, non certo da qualche sporadica e molto episodica fiammata.

Nel frattempo, continuano le consultazioni tra i principali azionisti sia dell’istituto di Piazzetta Cuccia che di quello con sede a Piazza Cordusio, consultazione che, con ogni probabilità, sono destinate a durare a lungo, anche perché è a tutti chiaro che il principale protagonista del nuovo e per ora del tutto ipotetico scenario, il presidente della Fondazione Cariverona, Paolo Biasi, ha un piede anche nella principale partecipata di Mediobanca: le Assicurazioni Generali, una compagnia attorno alla quale si sono combattute molte guerre palesi e moltissimi conflitti più o meno clandestini che non hanno mai prodotto un chiaro vincitore.

Ma il matrimonio più smentito del secolo rischierebbe anche di mettere in discussione il fragile equilibrio esistente nella variegata compagine azionaria del gruppo editoriale Rizzoli-Corriere della Sera, da tempo oggetto delle brame di quel Partito del Nord che punta a porre sotto il suo controllo quell’intreccio industriale-bancario-assicurativo-editoriale a suo tempo definito Galassia del Nord, eliminando così l’unico elemento di disturbo, a causa della sua indubbia matrice laica, nei confronti del progetto che punta a realizzare un nuovo blocco di potere che potrebbe perpetuarsi per almeno un decennio, se non di più, ove la sua sponda politico parlamentare fosse in grado di portare a termine quel radicale programma di riforme costituzionali enunciate a suo tempo in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera gestito da tal Tassan Din per conto del duo Gelli-Ortolani, programma oggi ripreso e attualizzato dal Premier, Silvio Berlusconi.

Sconfitti precedenti tentativi di assalto affidati a improbabili personaggi del calibro di Stefano Ricucci, l’odontotecnico laziale trasformatosi misteriosamente in costruttore che passerà forse alla storia per l’espressione ‘furbetti del quartierino’ con cui definì sé stesso e i suoi compari quando, oltre alla sua personale e sfortunata avventura nel settore editoriale, tentarono di sottrarre due banche italiane dalle mani di due grandi gruppi creditizi europei che da tempo ne erano azioniste di riferimento, Berlusconi ha capito che la via migliore per rendere il suo potere più o meno coesistente con la durata della sua vita passa per il controllo dei maggiori gruppi creditizi, snodo essenziale per garantire alle imprese amiche quel flusso di finanziamenti necessario per realizzare quelle opere, più o meno grandi, che il governo da lui presieduto può garantire loro.

Acquisito, grazie all’operazione CAI-Alitalia, al ridimensionamento di Giovanni Bazoli e alla brusca estromissione di un direttore generale marito di una esponente di primo piano del Governo Prodi, il controllo del gruppo Intesa-San Paolo, basterebbe favorire e condizionare il matrimonio tra Mediobanca e Unicredit, indurre alcune aggregazioni tra le banche popolari, costringere il Monte dei Paschi di Siena ad aggregare un’altra banca di livello nazionale e una compagnia di assicurazione per raggiungere l’obiettivo di controllare una quota tra il 70 e l’80 per cento dell’offerta di credito alle imprese e alle famiglie, più o meno la stessa quota che era appannaggio delle banche direttamente o indirettamente controllate dal Governo negli anni Ottanta, con la differenza tutt’altro che secondaria che il potere politico è di fatto concentrato nelle mani di una sola persona, circostanza che porterebbe ad un allargamento a macchia d’olio di quel gruppo di imprenditori che ha già capito da che parte spira il vento del Nord e ha già conseguentemente ed effettivamente giurato fedeltà al nuovo Capo.

Avendo riferito della lettera circolare inviata alle fondazioni bancarie dal ministro dell’economia Giulio Tremonti, mi corre l’obbligo di riferire che oltre alla domanda relativa all’assorbimento più o meno eccessivo del patrimonio in una o più banche, fa anche domande molto indiscrete sui conti, sui rischi e sull’esistenza o meno di un saldo attivo della gestione, domande delle quali conosce già anche le risposte!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

sabato 17 gennaio 2009

Ma cosa può fare di più il povero Trichet se manca un vero governo europeo?


Vedere vendere in una sola seduta di borsa poco meno di un miliardo e centomila azioni di Citigroup e di Bank of America, contro una media di poco più di 200 milioni, rende appieno l’idea del clima di fortissime preoccupazioni sulla possibile sopravvivenza di questi due colossi bancari divenuti dei veri e propri supermarket del credito grazie all’improvvida abolizione dei paletti posti dai provvedimenti assunti ai tempi della Grande Depressione, una deregulation di cui hanno responsabilità le varie amministrazioni repubblicane e democratiche succedutesi a partire dalla metà degli anni Novanta, anche se va detto che gli ultimi e decisivi colpi di piccone portano la firma di Robert Rubin e Larry Summers, alternatisi alla carica di ministro del Tesoro nel corso dei due mandati di Bill Clinton.

Colpisce, inoltre, che il valore dell’azione di Bank of America sia riuscita a portarsi significativamente al di sotto del minimo toccato nel corso del terribile mese di ottobre del 2008, una performance che rappresenta un unicum tra il gruppo di testa delle banche statunitensi, un gruppo, lo ricordo ai più distratti, che, solo pochi mesi, contava dieci entità, in quanto la quarta banca USA, Wachovia Bank, è stata acquisita da Wells Fargo, Bears Stearns e Merrill Lynch sono state inglobate da J.P. Morgan Chase e dalla stessa Bank of America, mentre la povera Lehman Brothers è stata lasciata fallire a metà del mese di settembre.

La celerità con la quale il Senato statunitense ha accolto il pressante invito del presidente eletto, Barack Obama, a concedergli un avallo al gigantesco piano economico volto al rilancio dell’economia e l’autorizzazione all’utilizzo della seconda tranche da 350 miliardi di dollari previsti dal TARP approvato nello scorso mese di ottobre, un via libera da complessivi 1.200 miliardi di dollari che è stato approvato nella serata di giovedì con 54 voti favorevoli e 42 contrari, una maggioranza ben più solida di quella di cui gode il partito democratico e che ben rappresenta come la paura degli effetti devastanti della tempesta perfetta stia facendo saltare molti schemi ideologici ed egoismi di schieramento anche tra i cento eletti nella camera alta in quel di Washington D.C., mentre un clima moderatamente bipartisan si respira anche nella più ampia sala che ospita gli eletti alla Camera dei Rappresentanti, un organismo nel quale, dopo l’esito dell’Election Day di novembre, la maggioranza del partito dell’asinello è molto più ampia.

Secondo l’autorevole Wall Street Journal, il quotidiano che appare sempre di più il vero e proprio giornale di bordo della tempesta perfetta, il dicastero del Tesoro statunitense sarebbe pronto a iniettare altri 20 miliardi di dollari in Bank of America e ad accollarsi 120 miliardi di dollari di titoli più o meno tossici della finanza strutturata che i vertici della banca sostengono costituire parte dell’eredità di quella Merrill Lynch da loro salvata ma, sempre a loro giudizio, strapagata, in quanto la successiva due diligence avrebbe consentito di avere un quadro più realistico dello stato effettivo dei conti della ex investment bank, un quadro che rende stratosferico il valore di 50 miliardi di dollari, seppur pagati mediante scambio di carta contro carta.

Come ricordavo nella puntata di venerdì, la necessità di provvedere con urgenza all’ennesima ricapitalizzazione di Citi e Bank of America dopo analoghi interventi per complessivi 70 miliardi di dollari, 50 in favore di Citi e 20 per Bank of America, per non parlare dei 400 miliardi dollari acquisiti dalla prima e dell’ammontare non meglio precisato, ma certo non irrilevante, scaricato dalla seconda nell’ampia discarica gestita dalla Fed di New York, stanno gettando nel panico operatori e investitori/risparmiatori, mentre è certo che l’ennesima bottiglia di champagne è stata stappata da David Einhorn e da quel pool di miliardari che da diciotto mesi stanno indefessamente e dichiaratamente scommettendo sul ribasso delle banche e delle compagnie di assicurazione statunitensi, una scommessa che è stata certamente vincente non solo nel caso delle banche che sono finite a zampe all’aria, ma anche in quello di Citi che si trova a capitalizzare in questi giorni qualcosa come 20 miliardi di dollari contro i 250 miliardi di un anno e mezzo fa, un trend disastroso accentuatosi nelle ultime cinque sedute che hanno visto polverizzarsi il 50 per cento della capitalizzazione residua della multinazionale del credito con sede a New York!

Lasciando l’America alle sue ambasce, mi preme di chiarire il senso dell’ultima mossa del germanizzato Trichet e dei suoi colleghi neotemplari del board della Banca Centrale Europea, quella riduzione al 2 per cento del tasso di riferimento che è facile liquidare come tardivo e insufficiente, soprattutto se si guardano i livelli prossimi allo zero praticati dalla Federal Reserve e dalla Bank of Japan, una valutazione che non tiene nel debito conto l’approccio di un’istituzione che rappresenta solo sedici dei ventisette paesi membri dell’Unione Europea e che non ha come contraltare un’entità politica come potrebbe essere quel governo europeo da sempre vagheggiato ma mai realizzato, il che si traduce in ventisette piani di salvataggio nazionali poco e male tra loro coordinati, il che determina una situazione che non ha confronti in nessuno degli altri quattro continenti, anche perché tra i paesi che si tengono al di fuori dell’area dell’euro vi è anche quella Gran Bretagna che ospita una delle maggiori piazze finanziarie del mondo e che è a buon diritto membro del G7.

In uno scenario del genere, è alquanto difficile che la Banca Centrale Europea non debba fare di tutto per dimostrarsi la degna erede della Bundesbank, una situazione che potrà anche mandare su tutte le furie Sarkozy, Brown e, almeno da qualche tempo, anche la cancelliera Angela Merkel, ma che rappresenta anche l’unico baluardo per evitare danni ancora maggiori alle istituzioni finanziarie targate UE e alla stessa economia reale dei ventisette paesi membri!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito www.uil.it nella sezione del dipartimento di politica economica.

venerdì 16 gennaio 2009

Mentre il meltdown di Citigroup si estende a Bank of America, Trichet taglia i tassi!


Alle forti preoccupazioni per l’effettivo stato di salute di Citigroup, le cui azioni continuano a essere in caduta libera in apparente assenza di un punto di resistenza, si sono aggiunte quelle relative all’altro colosso creditizio Bank of America che sarebbe impegnata nell’affannosa ricerca di un’altra tranche di aiuti pubblici con il pretesto più o meno fondato di aver trovato una voragine di perdite superiore al previsto nella recentemente acquisita Merrill Lynch, l’ex investment bank che ha evitato per un soffio in settembre di fare la miserevole fine toccata alla sua storica concorrente Lehman Brothers.

Non c’è che dire, le centinaia di miliardi di dollari profusi a piene mani dal TARP gestito in modo non del tutto imparziale dall’ex investment banker Hank Paulson, ancora per qualche giorno ministro del Tesoro USA, i 2 mila miliardi di dollari di titoli della finanza strutturata acquisiti in cambio di denaro contante dalla Federal Reserve da quando è stata istituita l’ampia discarica a cielo aperto presso la Fed di New York, la riduzione a livelli prossimi allo zero dei tassi interbancari, assistere al progressivo meltdown delle quotazioni delle azioni delle principali banche statunitensi, non che quelle europee stiano molto meglio, rende ulteriormente chiaro che la dimensione dei guai delle maggiori protagoniste del mercato finanziario globale richiederà in un futuro molto prossimo interventi in linea con quelli adottati nel caso di Fannie Mae, Freddie Mac e AIG, solo per citare le maggiori entità finanziarie e assicurative nazionalizzate a pese del contribuente.

A chi si interrogava sui reali motivi per i quali sono stati stanziati, anche se solo in parte impiegati, ben 7.200 miliardi di dollari, credo che avrà a breve la risposta, anche non sono del tutto certo che le migliaia di miliardi di dollari ancora disponibili saranno sufficienti ai fabbisogni finanziari legati ai titoli della finanza più o meno strutturata ancora in pancia alle banche, le compagnie di assicurazione, i fondi pensione, i fondi di investimento, per non parlare dello stato degli hedge funds, dei private equity e dei carry traders!

Per dare solo un’idea approssimativa dell’ordine di grandezza dei problemi, è forse sufficiente considerare che, grazie anche ai devastanti effetti delle acquisizioni del colosso dei mutui Countrywide e di Merrill Lynch, il totale dell’attivo di Bank of America sommato a quello di Citigroup dovrebbe aggirarsi, anche dopo gli alleggerimenti selvaggi effettuati in questi ultimi diciotto mesi, intorno ai 5 mila miliardi di dollari, un dato in larga parte sottostimato per la semplice ragione che le due entità considerata sono in realtà gigantesche ragnatele di società molte delle quali poste al di sotto della linea dei rispettivi bilanci aziendali delle capogruppo, il che rende impossibile una accurata stima della reale entità dei rischi effettivamente sostenuti dalle due banche, un’informazione, come ho ripetuto di sovente, spesso ignota anche agli stessi vertici aziendali, il che è tragicamente vero anche per quelle figure denominate Chief Financial Officer che una sorta di credenza superstiziosa riteneva i massimi detentori delle informazioni relative ai fatti di gestione.

In un mercato azionario che ha oramai definitivamente assunto le sembianze di una delle tante case da gioco di Las Vegas, non mancano mai persone disposte a scommettere sull’ennesima operazione di salvataggio a suon di capitali pubblici che finiranno per aggravare ulteriormente l’offerta di moneta, anche perché come emerge chiaramente da uno studio recentemente pubblicato, la Fed ha smesso di bilanciare le crescenti immissioni di liquidità con opportune sottrazioni della stessa (operazioni che hanno consentito per i primi quattordici mesi della tempesta perfetta di far sì che il saldo fosse pressoché uguale a zero), mentre da settembre a dicembre si è registrato un balzo in avanti dell’aggregato monetario pari al 76 per cento, che, in assenza di ulteriori e purtroppo prevedibili accelerazioni, corrisponderebbe ad un tasso annuale di crescita che si aggira intorno al 300 per cento, per non parlare dell’effetto devastante sul deficit federale e sullo stock del debito pubblico.

Ma la lista della spesa non si ferma alle due grandi banche statunitensi, anche perché non è un mistero per nessuno che anche le altre quattro grandi banche superstiti, in un gruppo di testa che ne contava dieci, sono in fremente attesa di ricevere la loro parte, del tutto indifferenti al fatto che la prima tranche da 350 miliardi di dollari è stata già integralmente impegnata, così come è oramai di dominio pubblico la ferma intenzione del presidente eletto di impedire che, nella spartizione dei restanti 350 miliardi, a fare la parte del leone siano ancora una volta le banche e le altre entità protagoniste del mercato finanziario a stelle e strisce.

Sono convinto che Obama condivida appieno la convinzione, recentemente espressa, dal premier tedesco Angela Merkel sulla necessità assoluta di impedire la chiusura delle fabbriche, una tesi condivisa anche dal premier britannico, Gordon Brown, e dall’iperattivo presidente francese, Nicholas Sarkozy, così come sono convinto che eventuali nuove ricapitalizzazioni delle banche dei loro rispettivi paesi non avranno più il carattere soft che ha contraddistinto la maggior parte delle operazioni sinora avvenute, ma che si procederà direttamente a quelle nazionalizzazioni indispensabili per mantenere un flusso di credito sufficiente alle esigenze dell’economia reale.

Vincendo le su resistenze e quelle dei suoi colleghi neotemplari del board della Banca Centrale Europea, Jean Claude Trichet ha comunicato ieri di aver tagliato il tasso di riferimento dal 2,50 al 2 per cento, un tasso che tuttavia continua ad essere di mezzo punto superiore a quello praticato dalla Bank of England e stratosfericamente superiore al tasso prossimo allo zero in vigore sui Fed Funds.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.