sabato 29 novembre 2008

Gli americani continuano a ringraziare, Brown nazionalizza la Royal Bank of Scotland e la montagna Bermonti partorisce un topolino!


Forse a causa delle pesanti libagioni a base di tacchino ingurgitate nel corso del Thanksgiving Day da operatori, analisti ed investitori/risparmiatori, quella di ieri sul mercato azionario statunitense è stata davvero una seduta soporifera che ha visto abortire sul nascere un’ondata di prese di profitto, immediatamente sovrastata dalla quinta ripetizione consecutiva di quella scommessa sul futuro seguita agli ultimi provvedimenti dell’amministrazione uscente che sono stati visti come largamente condizionati dall’impostazione del Dream Team obamiano che, con la nomina di Paul Volker, può dirsi oramai completato e che vede rafforzato il suo impatto dal sempre più evidente ruolo di cerniera tra il vecchio ed il nuovo rappresentato da Timothy Geithner, al momento presidente della Fed di New York ma, dal 20 gennaio prossimo venturo, nuovo ministro del Tesoro USA.

E’ anche grazie a questo nuovo clima che si è potuto registrare un notevole affinamento degli strumenti di intervento che stanno perdendo sempre di più quelle caratteristiche di misure un po’ alla cieca che ha visto le tante ‘pensate’ dell’ex (?) investment banker Hank Paulson, che forse sin da febbraio potrà tornare ad occuparsi della sua amata, potente ed ancor più preveggente Goldman Sachs, potendo a certamente maggior titolo di Bush Junior pronunciare la fatidica frase “mission accomplished” nella splendida sala che accoglie i lavori del board of directors di Goldman.

Non vi è, infatti, dubbio alcuno che la selettiva acquisizione di titoli della finanza strutturata strettamente collegati a mutui, più o meno sub prime, credito al consumo nelle sue più svariate forme, prestiti agli studenti consente, attraverso il braccio armato delle nazionalizzate Fannie Mae e Freddie Mac, di rinegoziare le condizioni, mettendo così un freno efficace alla crescita esponenziale del deliquency rate, cosa che sta avvenendo anche in tutte quelle banche di ogni ordine e grado, Citigroup in testa, chiamate, sarebbe meglio dire obbligate, a contribuire a questo gigantesco sforzo di rinegoziazione che era del tutto impensabile fino alle elezioni presidenziali di inizio novembre, pur essendo sostenuto con tutte le sue forze dalla brava presidentessa della Federal Deposit Insurance Corporation, una donna che ha provato in tutti i modi ad abbattere quel vero e proprio muro di stupidità neofondamentalista incarnato dalla maggior parte dei suoi colleghi nell’amministrazione uscente che ancora crdevano, o fingevano di credere, nel verbo neoliberista che tanti lutti inflisse ai discendenti dei padri pellegrini!

Non vorrei che qualcuno tra i miei non più tanto pochi ma, almeno a giudicare dalle statistiche graziosamente fornitemi da Google Analytics, sempre più affezionati, dovesse pensare che sono stato colto da un eccesso di ottimismo nelle doti dei componenti del Dream Team obamiano, peraltro non ancora in carica, ma li invito a riflettere sul fatto che, per la prima volta da quando quasi diciassette mesi orsono la tempesta perfetta ha preso il via, sembra di scorgere un’analisi più corretta delle vere cause della crisi finanziaria in corso, un’analisi che consente l’adozione di misure più efficaci nei confronti dei suoi effetti, ma, soprattutto, un approccio bene augurante per il prossimo sforzo di redazione di regole intelligenti che consentano di non vedere, a medio termine, una riedizione dei comportamenti che ci hanno portato nella gravissima situazione attuale, anche se non nascondo che il ruolo che stanno svolgendo Warren Buffet, George Soros e Paul Volker nell’edificazione di una obanomics che, grazie ad altri e più giovani ispiratori, sta preoccupandosi di vedere nella drammatica sfida ambientale il vero motore di quella terza rivoluzione industriale che potrebbe coniugare in modo molto più efficace i concetti di locale e di globale.

Lasciando gli americani alle loro speranze di un sol dell’avvenire tinto di verde, credo sia ancora il caso di soffermarsi sui diversi approcci che vengono seguiti nell’Unione Europea a 27, perché credo che mai come in questa fase stia emergendo la profonda divergenza tra il decisionismo e la chiarezza sulle misure da prendere tra il blocco rappresentato dalla Gran Bretagna, la Francia e la Germania, in parte imitati da Spagna ed Irlanda e quella del resto dei paesi membri, con particolare riferimento a quei paesi un tempo facenti parte del blocco sovietico e che, forse anche per questo, non vogliono sentir parlare di alcuna forma di limitazione della loro sovranità nazionale in favore di maggiori poteri delegati ad un futuro governo europeo, per non parlare poi della da loro aborrita prospettiva di edificazione degli Stati Uniti d’Europa.

Non credo in alcun modo che si possibile trovare un denominatore comune tra le visioni politiche del rinato Gordon Brown, dell’irrequieto presidente francese, Nicolas Sarkozy, e di quella vera sorpresa rappresentata dalla cancelliera proveniente dal freddo della ex Germania Est, Angela Merkel, ma è, tuttavia, certo che è possibile rinvenire in questi tre personaggi, così diversi tra di loro per storia, visione del mondo e cultura, una consapevolezza della crisi attuale molto più simile a quella che caratterizza la terrorizzata amministrazione statunitense uscente e la speranzosa ed attivista amministrazione entrante, una consapevolezza che si è tradotta nell’adozione di piani di intervento per più di 1.500 miliardi di euro, sulla base dei quali, ad esempio, la Royal Bank of Scotland è da ieri a pieno titolo una banca nazionalizzata, con una quota facente capo al Tesoro britannico che sfiora il 60 per cento del capitale sociale, un intervento che potrebbe venire presto praticato anche con riferimento alle banche degli altri due paesi.

Fa un po’ tristezza dopo questi esempi parlare del piano annunciato ieri da Bermonti, tutto composto di interventicchi e del quale è pure difficile dire che è sempre meglio di niente, non fosse che per la decisione di agganciare i tassi variabili al tasso BCE!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

venerdì 28 novembre 2008

L'America ringrazia, l'Europa è incerta e l'Italia soffre!


Mai come in questo davvero orribile 2008, gli operatori, gli analisti, gli investitori/risparmiatori statunitensi hanno salutato con un sospiro di sollievo la pausa festiva coincidente con il Thanksgivig Day, una salutare pausa dopo quattro rialzi consecutivi abbastanza convinti in gran parte legati alle nuove misure governative che presentano caratteristiche molto più aderenti alle caratteristiche specifiche della tempesta perfetta di quelle che le hanno precedute, anche se non va a assolutamente sottovalutato il fatto che l’impegno complessivo si è portato alla stratosferica cifra di 7 mila miliardi di dollari, mentre lo stock del debito 2009 a stelle e strisce, inclusi gli impegni legati al debito di Fannie e Freddie non potrà in alcun caso essere inferiore ai 16 mila dollari, contro i 9 mila circa della prima metà del 2008.

Il Dream Team obamiano è oramai pressoché completo ed è formato da un eccellente mix di vecchi e di nuovo che conferma come per il presidente eletto quella dell’economia e della finanza rappresenti davvero una priorità assoluta, anche se la vera e propria guerra in corso a Mumbai tra forze di sicurezza e terroristi, nonché le minacce di nuovi e tremendi attentati sul suolo statunitense stanno riportando in primo piano la questione della sicurezza e della lotta al terrorismo di matrice islamica.

Apprendo dall’informatissimo Federico Rampini, e come potrebbe essere altrimenti visto il suo strettissimo legame con il proprio datore di lavoro, l’ingegner Carlo De Benedetti che quando era all’apogeo della sua fortuna imprenditoriale veniva semplicemente indicato come l’Ingegnere, che il neo presidente della task force anticrisi, Paul Volker, non è stato solo il presidente della Fed, ma ha anche contribuito con un ruolo di primo piano alla creazione della Commissione Trilaterale, oggi in larga parte sostituita dal gruppo Bildberg, un’istituzione che ha visto il gotha imprenditoriale e politico del mondo industrializzato elaborare le strategie e le tattiche che hanno portato alla dissoluzione dell’impero sovietico, un evento di portata certamente storica e pressoché coeva di quel mix micidiale di deregolamentazione, finanziarizzazione e globalizzazione che ci ha portati dritti, dritti alla tempesta perfetta che si appresta fra pochi giorni a festeggiare i suoi primi diciassette mesi di vita!

Rifuggendo per profonda convinzione da tutte le ricostruzioni complottistiche, non posso tuttavia esimermi dal rendere noto ai miei lettori che la composizione della Trilaterale e quella del successivo gruppo Bildberg è perlomeno inquietante e che dei lavori dei due organismi si sa poco o, per meglio dire, assolutamente niente, se non che non vi è potente del pianeta che non ambisca, spesso venendo esaudito, a partecipare ai meeting annuali, così come è molto, ma molto interessante scorrere i nomi dei pochissimi italiani che ne fanno parte.

Come mi trovo a scrivere da parecchie puntate, la presenza del giovane Timothy Geithner nel gruppo che sta attualmente gestendo la crisi finanziaria e che lo stesso, dal 20 gennaio prossimo, prenderà il posto dell’ ex (?) investment banker Hank Paulson, nonché la presenza delle migliori menti femminili e maschili collocati in posti chiave della future amministrazione statunitense, sono tutti elementi che, insieme all’intrinseca caratteristica di estrema elasticità dell’economia e della società a stelle e strisce, fanno ben sperare sulla possibilità di disinnescare in tempi non biblici l’attuale gravissima situazione in cui versa, a tutti i livelli, la più grande, potente ed armata nazione dell’occidente, condizione questa necessaria seppur non sufficiente perché si determini un percorso virtuoso di uscita dalla più grave crisi economica, finanziaria e sociale mai vissuta dalla Rivoluzione Industriale.

Così come non mi stancherò di ripetere che molto, ma molto difficilmente la tempesta perfetta porterà del bene al sogno degli europeisti vecchi e nuovi di vedere nel corso della loro vita la realizzazione degli Stati Uniti d’Europa, vera condizione per la realizzazione di un mondo multipolare, ma vista come il fumo negli occhi dagli atlantici di ogni ordine e grado che continuano a rappresentare la vera quinta colonna dei disegni egemonici statunitensi e che, al di là dei diffusi pregiudizi, non sono basati soltanto nel regno di Sua Maestà britannica, ma sono presenti in numerosi paesi della Vecchia e della Nuova Europa, spesso in posizioni di governo o a capo di aziende di respiro nazionale e multinazionale.

Venendo alle cose di casa nostra, oggi è davvero il giorno della verità per quanto riguarda le intenzioni di Bermonti sulle sorti dell’alquanto ammaccato sistema bancario italiano, in quanto sono proseguite anche nella notte le limature al terzo decreto del governo, quello che prevede le modalità e le condizioni dell’intervento pubblico nelle banche e che vede contrapposta la visione fondamentalista del per la terza volta ministro dell’economia, Giulio Tremonti, a quella più possibilista del premier e del suo più fidato consigliere, Gianni Letta.

Che le cose non si stiano mettendo proprio bene lo dimostra l’indiscrezione sapientemente fatta filtrare da ambienti bancari ai quotidiani finanziari sulla non volontà di chiedere l’aiuto statale a causa dell’eccessiva onerosità dello strumento previsto dal governo, ma, come capirebbe anche un bambino, per motivi che hanno molto più a che fare con la delicatissima questione delle condizioni che potrebbero essere poste a fronte dell’intervento stesso.

Che vi sia molto nervosismo ai piani alti delle banche italiane, è peraltro ben dimostrato dalle dimissioni a sopresa di Giovanni Auletta Armenise, ovviamente per motivi di carattere esclusivamente personale e familiare, dalla carica di amministratore delegato di UBI Banca e dala oramia certa uscita di scena del Dr. Pietro Modiano, nonché coniuge di un ex ministro del governo Prodi, dal gruppo Intesa-San Paolo nel quale ricopriva l’incarico di direttore generale e vice Chief Executive Officer, una nomina che apre la strada alla carica di direttore generale unico al pari grado Francesco Micheli.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

giovedì 27 novembre 2008

Quello che manca realmente all'Europa è un vero governo comune!


Il mercato continua a scommettere da ben quattro giorni sull’efficacia delle nuove mosse che vengono, a torto o a ragione, attribuite all’attuale presidente della Federal Reserve di New York, Timothy Geithner, che già si muove come se fosse lui il ministro del Tesoro in carica enon l’ex (?) investment banker, Hank Paulson, che, pure, assieme al defenestrando Bernspan continua ad apporre la sua firma ai provvedimenti che vengono oramai assunti ad un ritmo quasi quotidiano.

Come dicevo nella puntata di ieri, la vera novità contenuta nella decisione di stanziare ulteriori 800 miliardi di dollari per acquistare titoli della finanza strutturata collateralizzati da varie forme di debito, mutui, prestiti per l’acquisto dell’auto, prestiti a studenti e via discorrendo, nonché mutui veri e propri sta nel fatto che, oltre a riguardare in massima parte operazioni originate dalle nazionalizzate Fannie Mae e Freddie Mac, consente di disinnescare il micidiale meccanismo che trasforma l’evaporazione dei titoli della finanza strutturata in quella sorta di paralisi progressiva che sta sempre più paralizzando le banche di ogni ordine e rango, rendendo inefficaci le misure prese dai governi e dalle autorità monetarie, un rischio più che concreto che viene in buona misura sventato rendendo possibile quelle forme di rinegoziazione del servizio del debito che rappresentano l’unica possibilità di salvezza per quanti si trovano oggi nell’alquanto scomoda posizione di debitori per importi che in non pochi casi superano il reddito effettivo mensile.

Questa speranza in un nuovo e più efficace approccio ai problemi evidenziati dalla tempesta perfetta in corso da sedici mesi e mezzo, è stata rafforzata ieri dalla nomina dell’ex presidente della Federal Reserve, Paul Volker, quale responsabile della unità anticrisi fortemente voluta dal presidente eletto Barack Obama, nonché dall’annuncio della decisione delle autorità federali di dare l’esempio, portando alla simbolica cifra di un dollaro la retribuzione del numero uno esecutivo di una entità creditizia appena salvata grazie ai soldi dei contribuenti.

Ed è sempre questa speranza, speriamo fondata, che sta consentendo di leggere il quartetto di dati micidiali diffusi ieri da vari organismi pubblici e privati che danno un quadro alquanto catastrofico della situazione economica attuale in quella che ancora rimane la nazione più potente ed armata del pianeta, in quanto mai come adesso i dati statistici forniscono una rappresentazione della realtà che è precedente alle novità politiche ed ai provvedimenti adottati in questi ultimi giorni, una situazione che si determina spesso quando gli operatori, gli analisti e gli investitori/risparmiatori iniziano a scommettere sul futuro, piuttosto che soffermarsi a guardare le pur evidenti crepe della situazione economica precedente.

E’ da diverse puntate, peraltro, che invito i miei pochi ma affezionati lettori a riflettere sulle caratteristiche intrinseche degli Stati Uniti d’America, una nazione che continua ad essere caratterizzata da un modello economico e sociale che non piace molto a noi europei, e tantomeno a noi italiani, ma che ha l’evidentissimo pregio di essere dotato di un estremo grado di elasticità che costituisce un vantaggio differenziale evidente per ripartire da una situazione come quella attuale, purché, come sembra stia iniziando ad accadere, si abbia il coraggio di individuare le cause e non gli effetti della crisi finanziaria e si decida, costi quel che costi, di cercare di porvi rimedio.

E’ questo che spiega la diversa reazione che sta caratterizzando i mercati posti al di qua ed al di là dell’Oceano Atlantico, mentre già più simile a quella degli USA è la reazione che possiamo registrare in quell’area asiatica che, pur nelle notevolissime differenze, assomiglia molto di più al modello americano che a quello in voga nel Vecchio Continente, Gran Bretagna inclusa.

Non devono, infatti, trarre in inganno il decisionismo e l’estremo attivismo che stanno caratterizzando l’operato dei governi britannico, francese e tedesco, né l’enorme quantità di risorse finanziarie pubbliche da questi messi in campo, in quanto Sarkozy e la Merkel, molto meno Gordon Brown, continuano a muoversi nella logica dei vincoli imposto dai trattati e non è un caso che chiedano un ammorbidimento ‘temporaneo’ delle rigide previsione degli stessi, ben consapevoli della scarsa efficacia dei provvedimenti da loro adottati per la semplicissima ragione che ogni decisione europea va declinata in ventisette versioni diverse ed applicata in altrettante realtà governate dai rispettivi esecutivi nazionali, tuttora gelosissimi delle proprie prerogative nazionali anche quando la casa comune brucia!

Ciò non toglie che resta evidente il differenziale di efficacia tra le mosse inglesi in primo luogo, ma anche tra quelle prese da Bonn e Parigi, rispetto al balbettio prevalente nelle altre capitali europee, un’incertezza che riguarda allo stesso modo i paesi stagnanti come l’Italia e le ex tigri dello sviluppo come l’Irlanda e la Spagna, due paesi che si sono trovati ad affrontare una decelerazione drammatica del loro ritmo impetuoso sviluppo, basato sulla finanza ed il dumping fiscale il primo e sul settore edilizio e dello sviluppo delle infrastrutture il secondo.

Come non mi stancherò mai di ripetere, la tempesta perfetta costituisce un’opportunità forse irripetibile per verificare sul campo quel che manca nel progetto di costruzione europea, ben rappresentato da quel deficit di Stato e di Governo comuni ai ventisette paesi che hanno aderito, chi prima chi dopo, all’Unione che continua a presentarsi come una realtà dalle mille facce, al di là della forzatura legata alla realizzazione di una moneta unica per un certo numero dei paesi aderenti, ma non per tutti, una serie di limiti che potrebbero venire spazzati via dall’emergenza economica, ma soprattutto da quella geopolitica, gettando le premesse per realizzare, in tempi non biblici, la realizzazione degli Stati Uniti d’Europa a partire anche da un nocciolo di paesi che ne sentano realmente la necessità e l’indifferibilità!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

mercoledì 26 novembre 2008

Le vere ragioni dell'inerzia di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti sul decreto salva banche!


La decisione dell’amministrazione uscente di George W. Bush di acquistare titoli della finanza strutturata collateralizzati da varie forme di debito, mutui, prestiti per l’acquisto dell’auto, prestiti a studenti e via discorrendo, nonché mutui veri e propri per 800 miliardi di dollari complessivi porta l’impegno finanziario complessivo dei vari enti federali statunitensi alla stratosferica cifra di 7 mila miliardi di dollari, un volume di fuoco potenziale che non è destinato ad essere speso integralmente, ma tale comunque da far venire il mal di testa ai, allo stato pochi in verità, cultori della religione del pareggio di bilancio.

Analogamente ad altre misure prese di recente, anche le decisioni di ieri sono finalizzate a disinnescare il micidiale meccanismo che trasforma il meltdown dei titoli della finanza strutturata in una sorta di sindrome cinese che paralizza allo stesso tempo le maggiori banche di ogni ordine e rango e le autorità monetarie, rendendo possibile quelle forme di rinegoziazione del servizio del debito che rappresentano l’unica possibilità di salvezza per quanti si trovano oggi nell’alquanto scomoda posizione di debitori per importi che in non pochi casi superano il reddito effettivo mensile e che, in assenza di correttivi, sono fatalmente destinati a perdere la propria casa, vedersi pignorata l’automobile o dover rinunciare a frequentare l’università.

Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale dell’ottica protestante sinora prevalente negli Stati Uniti d’America e che era supportata da una legislazione che impediva anche agli stessi giudici di modificare le a volte anche assurde norme contrattuali che avevano determinato l’innalzamento spaventoso delle rate, una logica che prevede che chi sbaglia deve inesorabilmente pagare e che è stata mirabilmente descritta da Charles Dickens con riferimento alla situazione del Regno Unito, con i debitori costretti a finire in prigione per non aver onorato i propri debiti.

Non è certo un caso se dietro questa nuova e più compassionevole visione vi siano in prevalenza donne impegnate ad alto livello nell’amministrazione di Bush Junior, come l’ottima presidentessa della Federal Deposit Insurance Corporation, che, sin dal fallimento in luglio della banca californiana IndyMac, ha imposto ai subentranti l’onere di offrire ai mutuatari la possibilità di pagare tassi del tre per cento con un importo massimo che non può comunque superare il 38 per cento del loro reddito familiare, una condizione posta a tutte le banche salvate dagli interventi statali, incluso il colosso creditizio che porta il nome di Citigroup e che viene accettata sempre più di buon grado dai top manager bancari per la semplicissima ragione che è sempre meglio recuperare quanto da loro anticipato che continuare ad ammassare case pignorate che, come conferma l’ultima rilevazione dell’indice Case-Shiller, vedono crollare il proprio valore, per non parlare del costo medio di 50 mila dollari che le banche sostengono per la procedura di foreclosure.

Non so assolutamente se il colossale impegno finanziario dell’attuale amministrazione e le prime idee rese note dal presidente eletto saranno sufficienti a costruire un’efficace diga nei confronti degli alti marosi della tempesta perfetta, ma concordo con quanti sostengono che l’estrema elasticità del sistema economico e sociale a stelle e strisce consentirà maggiori chance di rivedere la luce in fondo al tunnel, anche se resta impossibile prevedere il timing della possibile inversione di tendenza, anche alla luce dell’annunciato quasi raddoppio della flessione del PIL statunitense nel terzo trimestre e della pesantissima previsione relativa all’entità della flessione nell’ultimo quarto di questo veramente orribile 2008.

Se si volge lo sguardo allo scenario europeo, il discorso si complica moltissimo, per l’altrettanto semplice ragione che, in assenza di un vero governo dell’Unione Europea e con una moneta unica che caratterizza meno della metà dei paesi membri, è del tutto impossibile prevedere un piano di salvataggio unico avente le stesse caratteristiche e lo stesso volume di fuoco di quello adottato dagli Stati Uniti d’America, una circostanza che rende meno certi gli effetti dei mega piani adottati, a livello esclusivamente nazionale,da paesi quali la Gran Bretagna, la Francia e la Germania per complessivi 1.500 miliardi di euro e rotti, per non parlare degli oltre 2.000 miliardi previsti sommando tutti i paesi dell’Unione.

Temo che non porterà soverchia fortuna la logica imperante dell’ognun per sé e Dio per tutti, non fosse altro che per la palmare evidenza del fatto che un impegno finanziario di queste dimensioni non produce lo stesso effetto di annuncio che avrebbe se fosse gestito in modo unitario e, soprattutto, seguendo criteri uniformi, né servono, in questo contesto, a molto le accresciute prospettive di ingresso nella moneta unica delle valute di importanti paesi che hanno a suo tempo esercitato l’opting out!

Gli evidenti limiti di questa logica da rissosa assemblea condominiale assumono dimensioni drammatiche nella realtà italiana, una realtà caratterizzata da un tasso di solidarietà nazionale giunto ai minimi storici e nella quale sembra, ogni giorno che passa, prevalere la logica del regolamento di conti tra il potere economico e quello politico, al momento incarnato da una maggioranza guidata da un premier e da un ministro dell’Economia che, nonostante siano alla terza esperienza nei rispettivi ruoli, non hanno mai nascosto la propria insofferenza nei confronti delle banche e delle fondazioni di origine bancaria, un’insofferenza forse solo pari a quella da loro nutrita nei confronti di quelle grandi dinastie industriali ree di non aver appoggiato da subito e con convinzione il progetto berlusconiano di contrasto alla sinistra politica ed a quella sociale.

Il continuo rinvio del decreto che consentirebbe la sottoscrizione delle obbligazioni subordinate perpetue da parte dello Stato è tutto meno che casuale, così come lo è l’indeterminatezza delle somme impegnate da Bermonti in questo sforzo finanziario che, al di là delle dichiarazioni ufficiali, è molto atteso dai beneficiari!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

martedì 25 novembre 2008

Le borse mondiali accolgono con euforia le prime mosse del nuovo ministro del Tesoro e salutano, senza rimpianti, il vecchio Hank Paulson!


Le modalità mediante le quali è stata ‘salvata’ Citigroup devono fare riflettere su quanto sia già avanzato il processo di transizione tra l’amministrazione Bush Jr. e quella che va, giorno dopo giorno, indicando il presidente eletto Barack Obama acui sulla carta mancherebbero due mesi e mezzo alla cerimonia ufficiale dell’insediamento, costituzionalmente prevista per il 20 gennaio prossimo.

Dei due uomini e le due donne che il presidente eletto ha presentato ieri alla stampa ed all’opinione pubblica, infatti, ve ne è uno, Timothy Geithner, che è già operativo da sedici mesi e mezzo nella battaglia alquanto impari che i governi dei paesi maggiormente industrializzati e le relative autorità monetarie stanno combattendo contro i sempre più alti marosi della tempesta perfetta e questo non solo perché occupa la poltrona più importante dopo quella dell’ineffabile Bernspan al vertice della Federal Reserve, quella di numero uno della Fed di New York, quella che ha rapporti diretti con la maggior parte delle banche statunitensi o straniere operanti nella grande mela, ma anche membro permanente del Federal Open Market Committee, nonché gestore della più ampia discarica a cielo aperto che lavorato, negli ultimi mesi, tonnellate di titoli più o meno tossici della finanza strutturata per un controvalore facciale non inferiore ai mille miliardi di dollari.

Ebbene, come ricorda efficacemente nel suo blog Federico Rampini, Geithner non è solo un coetaneo di Obama e come lui caratterizzato da un’esperienza ed una visione molto cosmopolite, ma è anche l’unico tra lo stuolo di consiglieri clintoniano-obiamiani anon avere mai lavorato per una banca d’investimenti o per una banca commerciale, o per uno di quei conglomerati ibridi, come Citi appunto, nati grazie all’abolizione dello Glass-Steagall Act scelleratamente voluta proprio da un suo concorrente alla guida del Tesoro, quel Robert Rubin che ha veramente giocato molte, ma molte parti in commedia, prima al vertice della molto potente ed ancor più preveggente Goldman Sachs, poi al dicastero del Tesoro, ricevendo poi in premio la carica di presidente dell’entità risultante dalla fusione di Citicorp, Travellers e banche di investimento di varia dimensione favorita proprio dal suo provvedimento deregolamentatorio.

Non sono particolarmente appassionato alla questione dei compensi stellari dallo stesso Rubin ricevuti in questi anni e, purtroppo, anche in questi drammatici mesi, anche perché, dal punto di vista rovesciato di Big Finance, se li era veramente guadagnati, consentendo di creare quel mostro a due se no a tre teste, che, al pari dei suoi maggiori competitors, ci ha portati nell’attuale situazione che, come appare sempre più chiaro anche agli sprovveduti, è davvero di difficile soluzione.

Sempre da Rampini apprendo un particolare che mi era francamente sfuggito della biografia del ministro del Tesoro USA prossimo venturo, un episodio legato alla cosiddetta crisi asiatica della fine degli anni Novanta, che, grazie anche alla determinazione dell’allora trentaseienne dirigente del Tesoro, prese la direzione del famoso fondo di salvataggio da 100 miliardi di dollari stanziato dagli Stati Uniti d’America per impedire il meltdown di quelle che allora venivano giustamente appellate ‘Tigri asiatiche’, un piano che assomiglia maledettamente alla versione browniana dell’iniziale piano in tre paginette destinato a salvare le maggiori banche statunitensi e mandare a piccolo quelle più piccole!

Il piccolo Tim ha, quindi, già preso il posto del navigatissimo Hank Paulson e ha, almeno di fatto, commissariato il povero Bernspan, che certamente non vede l’ora di ripercorrere i verdi vialetti della prestigiosa Università di Princeton, per tornare ad occuparsi dello studio accademico delle crisi finanziarie, inclusa quella tempesta perfetta che lo ha quasi mandato ai matti.

Peraltro, citando apertamente il mio mito John Maynard Keynes e prendendo in anticipo il piglio roosveltiano, Obama si è già mosso ieri da presidente in carica, chiarendo che se ne strimpipa dello stato prossimo venturo delle già disastrate finanze pubbliche a stelle e strisce, anche perché ha ben chiaro in mente che, non facendo subito qualcosa anche a costo di infrangere il galateo istituzionale, degli Stati Uniti d’America non rimarebbero che le strisce, ricordando, in piena conferenza stampa, una delle frasi più famose dell’economista di Cambridge, quella relativa al fatto che l’inazione di oggi legata ai timori degli equilibri di bilancio ha poco senso, in quanto “nel lungo periodo saremo tutti morti”!

Mi soffermerò nelle prossime puntate sulle due donne chiamate da Obama nel gruppo che dovrà occuparsi dell’economia e della finanza, mentre non ho intenzione di spendere nemmeno una parola per quel Larry Summers, che, al pari del suo ex collega Rubin, sarà solo a capo dei consiglieri economici, non essendo, per fortuna degli americani e di noi tutti, candidato a prendere il posto che sarà presto lasciato da Bernspan, anche se si sarebbe trattato di un contrappasso degno di Dante Alighieri, bello a vedersi, ma del tutto inadatto ad una situazione che più che i tratti della commedia, per quanto divina, presenta quelli della tragedia.

Se si osserva in controluce il piano di salvataggio di Citigroup, si individuano le linee guida dell’approccio di Geithner nella gestione della tempesta perfetta in corso, in quanto alla garanzia statale non del tutto gratuita sui 306 miliardi di titoli tossici (attenti alle cifre, perché si tratta di una accurata scelta nel più ampio parco di titoli tossici del colosso creditizio multinazionale) ed ai provvidenziali ulteriori 20 miliardi di capitale ordinario si accompagnano misure di rinegoziazione dei mutui che ho già descritto nella puntata precedente e che rappresentano un approccio molto pragmatico ma caratterizzato da un alto grado di efficacia nel disinnescare almeno una delle micidiali cause dell’effetto domino platealmente in corso, il che dimostra che, una volta tanto, l’euforia delle borse mondiali è alquanto giustificato!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

lunedì 24 novembre 2008

Basterà il maxi piano di salvataggio ad evitare il default o lo spezzatino di Citigroup?


La notizia del tentativo di salvataggio del colosso creditizio Citigroup è giunta stamane all’apertura dei mercati asiatici, il Nikkei era chiuso per festività, ma non è riuscita, vista la vaghezza dei dettagli, ad impedire la chiusura in rosso di Hong Kong e di Shanghai, perdite, tuttavia, alquanto ridotte rispetto allo scivolone iniziale registrato da entrambi i listini.

Si tratta di un piano di intervento alquanto complesso, che prevede un’ulteriore iniezione di capitale per 20 miliardi di dollari dopo i 25 miliardi già stanziati un mese fa circa, mentre la parte più interessante riguarda una garanzia offerta dal Dipartimento del Tesoro, dalla Federal Reserve e dalla Federal Deposit Insurance Corporation sulle perdite potenziali relative a 306 miliardi di titoli più o meno tossici della finanza strutturata che fanno parte dei 2.000 miliardi di dollari di total assets facenti capo a Citi (erano 2.500 prima dell’energica cura dimagrante prescritta dal giovane Chief Executive Officer indiano, Vikram Pandit, pisologicamente assistito da quella vecchia volpe che risponde al nome di Robert Rubin, una vita spesa in Goldman Sachs, poi ministro del Tesoro sotto Bill Clinton ed, infine, un incarico pressoché onorifico da 60 milioni di dollari l’anno proprio in Citigroup).

I 20 miliardi di dollari in azioni ordinarie di Citi saranno a carico del TARP, il fondo da 700 miliardi di dollari approvato dal Congresso dopo tante incertezze e l’insurrezione della minoranza repubblicana, mentre il costo non quantificato della garanzia andrà a carico delle tre entità federali coinvolte nel salvataggio, anche se è previsto che i primi 29 miliardi di dollari di perdite andranno a sul conto economico di Citi, mentre la restante parte sarà sostenuta dallo Stato per il 90 per cento (la parte a carico della Fed prenderà la forma di un finanziamento a Citi), mentre il 10 per cento sarà sostenuto dalla banca.

Non è solo previsto che il costo della garanzia sarà trasformato in azioni privilegiate di Citi per 7 miliardi di dollari, ma è stato anche scritto nero su bianco che il dividendo trimestrale per azione non potrà essere superiore ad un centesimo di dollaro per i prossimi dodici trimestri, contro i 16 centesimi attuali ed i 32 centesimi pagati nello scorso trimestre (si consideri che per una regola non scritta le azioni della banca garantivano, negli anni passati, un rendimento del 7,5 per cento, quasi si trattasse di obbligazioni e non di titoli di rischio e pertanto legati all’effettivo andamento della gestione), mentre vengono previste anche non meglio precisate limitazioni alle remunerazioni ed aboliti i bonus precedentemente previsti.

Ma la parte più importante del piano di salvataggio della seconda banca commerciale statunitense, peraltro presente in 100 paesi del globo, prevede l’estensione del modello Indymac, la banca californiana andata a zampe all’aria a luglio, di rinegoziazione dei mutui, un modello che prevede che i mutuatari in difficoltà paghino soltanto il 3 per cento di tasso e che l’importo annuale delle rate non superi il 38 per cento del reddito del mutuatario, una soluzione che mira a ridurre al minimo il numero di espropri immobiliari e che oltre che da Citigroup, verrà prossimamente adottato anche dalle nazionalizzate Fannie Mae e Freddie Mac.

Come ben evidenziato dal comunicato diffuso stamane dalle tre entità governative impegnate nel salvataggio di Citi, alle intense negoziazione ha partecipato anche il futuro ministro del Tesoro statunitense ed attualmente presidente della Fed di New York, Timothy Geithner, oltre che ovviamente ai numeri uno attuali del ministero del Tesoro, della Fed e della FDIC, una presenza che ha certamente influito sulle modalità tecniche e ‘sociali’ dell’intervento, nonché sulle limitazioni alle retribuzioni ed ai dividendi e sulla sospensione dei bonus.

L’aspetto più inquietante del gigantesco financial bailout è rappresentato dal fatto che, ad onta delle sue dimensioni, non è del tutto sicuro che sarà sufficiente a risolvere tutti i problemi di una banca che era ritenuta sino a pochi mesi orsono una delle meno toccate dagli alti marosi della tempesta perfetta in corso oramai da sedici mesi e mezzo, tanto è vero che era stata prescelta per il salvataggio di Wachovia Bank, la quarta banca statunitense, finita poi nelle braccia, pare alquanto più solide, della Wells Fargo, la banca che trae le sue origini dalla compagnia che assicurava le comunicazioni nell’allora selvaggio West.

La reazione dei principali mercati azionari europei alla notizia del tentativo di salvataggio di Citigroup è stata, ovviamente, quasi euforica, con rialzi che stamane andavano dai 2 ai quasi 4 punti percentuali, anche se sono risultate subito evidenti l’andamento in netta controtendenza delle due maggiori banche francesi che, a differenza delle altre banche europee e delle principali compagnie di assicurazione, segnavano flessioni significative che contrastano nettamente con il forte rialzo della britannica Barclays o della svizzera UBS, mentre improntate a molto maggiore prudenza appaiono i rialzi delle banche italiane e delle altre banche poste al di qua ed al di là della Manica.

Una spiegazione dell’andamento difforme delle banche europee potrebbe essere ascrivibile all’indeterminatezza dei piani di razionalizzazione e concentrazione prossimi venturi da parte dei governi dei quattro principali paesi dell’Unione europea, il che spiegherebbe, almeno in parte, il motivo del balzo in avanti delle quotazioni delle azioni delle poche banche che hanno deciso di non utilizzare i finanziamenti pubblici e di rivolgersi ai propri azionisti per gli indispensabili aumenti di capitale.

Non resta che attendere la reazione dei mercati azionari statunitensi che, dopo il rally di venerdì scorso legato alle sempre più probabili nomine nella futura amministrazione Obama, daranno modo di comprendere meglio quante chances il mercato attribuisce alle possibilità di successo del salvataggio di Citigroup.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

sabato 22 novembre 2008

Citigroup will be the next!


La notizia di tre nomine importanti da parte del presidente eletto Barack Obama, notizia non ufficiale ma proveniente direttamente dal suo staff, ha consentito al Dow Jones, in linea peraltro con gli altri due principali indici statunitensi, di recuperare nel finale della seduta di venerdì poco meno di 500 punti, pari al 6,5 per cento, invertendo la tendenza di una ottava altrimenti davvero orribile che aveva visto, nella seduta di giovedì, l’onta dei 7.500 punti e scambi complessivi sull’intero mercato azionario per oltre 13 miliardi di pezzi.

Certo, la quasi certa nomina di Hillary Rhodam Clinton alla carica di Segretario di Stato, l’equivalente del nostro ministro degli esteri, così come quella del Governatore Bill Richardson al Commercio sono nomine importanti e pesanti sia per il peso relativo degli incarichi, sia per il peso politico dei nominati, ma è bastato che filtrasse la molto pilotata indiscrezione sul nome di Timothy Geithner (si pronuncia gaitner) quale sostituto dell’ex (?) investment banker Hank Paulson per mettere letteralmente le ali alle quotazioni della maggior parte delle azioni, Citigroup ovviamente esclusa, anche perché sembra davvero destinata ad essere la prossima banca salvata in extremis!

Il quarantasettenne presidente della Federal Reserve di New York e gestore della più ampia discarica a cielo aperto per i titoli tossici della finanza strutturata era quello più voluto dagli operatori di Wall Street e dalle banche di ogni ordine e grado, in quanto giudicato un esperto navigato a dispetto della giovane età, ma, soprattutto, un non nemico, né tantomeno un sostenitore delle tante Main Street di cui è costellata quella che ancora resta la nazione più potente del pianeta, un personaggio che si è fatto le ossa al Dipartimento del Tesoro sotto le due amministrazioni di Bill Clinton e poi passato alla guida della più importante tra le Fed territoriali, oltre ad essere quella che ospita i lavori del Federal Open Market Committee nel quale il suo numero uno ha diritto di voto permanente.

Con grande signorilità, l’altra candidata alla carica, Sheila Bair, la molto determinata presidentessa della Federal Deposit Insurance Corporation ha nella stessa giornata ufficializzato il piano per garantire nuove emissioni di titoli di debito delle banche statunitensi destinati ad altre banche per la non modesta cifra di 1.400 miliardi di dollari, una misura che si accompagna all’estensione della garanzia dei depositi dai precedenti 100 mila dollari a 250 mila, due provvedimenti tesi a ripristinare la fiducia nelle e tra le banche, condizione necessaria, ma, purtroppo, non automaticamente sufficiente, per spingere le banche stesse a limitare il micidiale credit crunch in corso per un ammontare di parecchio multiplo a quello previsto dal provvedimento del FDIC.

Come aveva giustamente osservato un brillante commentatore, Obama si è guardato bene dall’indicare alla titolarità del Dipartimento del Tesoro un castigamatti, puntando piuttosto su un addetto ai lavori che, seppure non proveniente né dall’investment, né dal commercial banking, non è considerato proclive a quella crociata contro il moral hazard che pure sembra fortemente desiderata da almeno il 60 per cento degli americani che avrebbero voluto vedere una sorta di Norimberga della finanza, con centinaia, se non migliaia di imputati alla sbarra, non esclusi Hank Paulson, Bernspan ed Effe O Ixs (al secolo Christopher Cox)!

Per quel che vale, avrei francamente preferito, a dispetto della non giovane età, la nomina di Paul Volker, un personaggio che aveva tutte le carte in regola per procedere ad una risistemazione di quel casinò a cielo aperto che è purtroppo divenuto il mondo della finanza, ma tiro un sospiro di sollievo all’idea che è stata scartata l’ipotesi di nominare Larry Summers, un clintoniano doc, ma anche uno dei massimi responsabili di quello scellerato processo di deregolamentazione che ha reso la finanziarizzazione e la globalizzazione ingredienti micidiali della tempesta perfetta in corso da sedici mesi e mezzo.

Forse anche perché molto preoccupato per la stabilità del suo dorato impiego, il germanizzato Jean Claude Trichet a capo dei suoi neotemplari colleghi della Banca Centrale Europea, ha voluto rassicurare i governi dei paesi facenti parte dell’eurozona e gli autorevoli candidati a farne parte, Gran Bretagna in testa, della sua intenzione di tenere conto del drammaticamente mutato quadro di riferimento, procedendo, sin dalla riunione del board dell’istituto di Franfurt am Mein prevista a dicembre, ad un ulteriore taglio dei tassi, una decisione che rende più credibile la previsione che vede il tasso di riferimento, attualmente al 3,25 per cento, portarsi nuovamente al minimo storico del 2 per cento entro la metà dell’anno prossimo.

Assolutamente non paghi di questo ammorbidimento di Trichet e dei suoi colleghi e delle buone notizie provenienti dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, Gordon Brown, Nicolas Sarkozy, Anglea Merkel e, per quel che conta, Bermontì (sintesi che utilizzerò, d’ora in avanti, per indicare la versione tremontiana di Berlusconi, una delle tante maschere assunte dal nostro premier, che alterna a quelle di Berlettà e Berbossì, due altre e più o meno felici sintesi che affido all’immaginazione dei miei lettori), affilano neanche troppo in segreto le loro tutt’altro che spuntate armi in vista di quella regolazione dei conti tra il potere da essi stessi incarnato e quello del Big Finance e del Big Business in salsa europea, non tanto perché responsabili dell’attuale meltdown della finanza e dell’economia reale, quanto, piuttosto, in quanto colpevoli del reato, ai loro occhi ben più grave, di essersi allargati a dismisura, rendendo il potere effettivo delle cancellerie ben poca cosa.

Gli eventi delle prossime settimane chiariranno meglio i contorni della risistemazione dei rapporti tra i poteri prossima ventura, anche se, almeno stavolta, i mercati sembrano avere capito tutto, o quasi!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

venerdì 21 novembre 2008

E se gli Stati Uniti d'America restassero orfani dellle tre big del settore automobilistico?


E’ proprio vero che ad ogni giorno basta la sua pena, un adagio che trova quotidianamente applicazione sul molto travagliato mercato finanziario statunitense, vera costola del mercato finanziario globale, che anche ieri ha registrato una sfilza di dati molto negativi, quali l’ulteriore balzo in avanti dei delle nuove richieste settimanali di sussidi di disoccupazione, balzati a 542 mila, massimo degli ultimi sedici anni, il tracollo del leading indicator (-0,8 da +0,1), nonché l’ulteriore appesantimento del Philadelphia Fed Index, un indicatore molto seguito dagli uomini di Bernspan, insomma tutte ulteriori conferme del fatto che si è oramai immersi fino al collo in una recessione bella e buona, della quale non si conosce ancora la profondità e, soprattutto, la durata.

Nel frattempo, fonti vicine alla banca forse finora meno toccata dalla tempesta perfetta, la J.P. Morgan-Chase guidata da Jamie Dimon, rendono noto che sarebbe prossimo un taglio di almeno il dieci per cento degli addetti della divisione di Corporate & Investment Banking, il comparto operativo certamente più falcidiato dalla crisi finanziaria in corso, nonché quello che presenta, all over the world, l’età media più bassa degli addetti unita alle remunerazioni più elevate, in gran parte legate queste ultime all’infernale meccanismo dei bonus di fine anno, spesso multipli della retribuzione contrattuale.

Prosegue la telenovela infinita delle tre maggiori case automobilistiche statunitensi, con le audizioni infinite dei tre big delle case di Detroit sull’orlo del fallimento davanti ai senatori, anche se pare sia stata molto più efficace l’alquanto brutale testimonianza del capo del più potente sindacato del settore, uno speech molto diretto che è stato seguito pressoché in diretta dall’annuncio di un possibile compromesso favorito dalla frenetica attività dei senatori espressione degli Stati maggiormente coinvolti dalla crisi del settore automobilistico, che, in maniera del tutto bipartisan, sarebbero riusciti a trovare una soluzione capace di salvare i classici cavoli e le altrettanto mitiche capre e che sembra non dispiacere troppo neanche ad Hank Paulson (ieri fustigato in diretta dal suo quasi omonimo hedge under) e all’oramai ex presidente Bush.

La possibile accelerazione degli aiuti federali ha consentito un rimbalzo delle quotazioni delle azioni della Ford e della General Motors, in particolare di quelle di quest’ultima che avevano appena raggiunto un livello mai toccato dai tempi della Grande Depressione, un minimo che ha fatto il paio con quello di Citigroup che, nonostante l’annuncio di un arrotondamento della quota da parte del principe saudita Bin Al Whaleed, avevano toccato il ben infimo livello di 4 dollari e 60 centesimi per poi riguadagnare rapidamente l’area dei 5 dollari.

Ovviamente, il compromesso raggiunto è esattamente quello fortemente voluto dai repubblicani moderati, quelli più fondamentalisti chiedevano, infatti, a gran voce il fallimento delle Big Three, consistente nel dirottamento dei fondi del Dipartimento dell’Energia attribuiti dal Congresso per il finanziamento di misure volte ad una maggiore efficienza energetica e non per tappare i buchi di bilancio legati alle scelte davvero scellerate dei maggiori produttori mondiali di SUV, sigla che non ha nulla a che fare con quei SIV che sono costati a Citigroup altri 17 miliardi e spiccioli di dollari.
In questo quadro a tinte davvero fosche, risulta quasi esilarante l’ondivago comportamento dell’ormai mitico Effe O Ixs (al secolo Christopher Cox), un uomo che si è trovato alla guida della Securities and Exchange Coomission unicamente in virtù della sua fede repubblicana e dell’amicizia con Bush Jr., uno che continua a non accorgersi delle montagne russe su cui corrono da mesi le due maggiori compagnie monoliner, MBIA ed Ambac, che tra ieri e l’altro ieri hanno registrato variazioni in un senso ed in un altro per oltre il 100 per cento, dopo essere state nuovamente degradate dalle non proprio attente, né tantomeno particolarmente severe agenzie di rating, quelle, per intenderci, che hanno degradato Lehman Brothers solo dopo che l’alquanto disperato Dick Fuld si era già recato in tribunale per notificare il fallimento!

Prosegue, nel frattempo, il tiro al piattello degli operatori alle maggiori banche e compagnie di assicurazione dei quattro maggiori paesi europei, in una sorta di prefigurazione, anche molto rischiosa, del quadro che assumeranno i due settori al termine delle operazioni di risistemazione/concentrazione che verranno decisi nei prossimi giorni o nelle prossime settimane dai sanguigni Brown, che ha finalmente raggiunto Cameron nei sondaggi ed anche per questo non mollerà la preda, Sarkozy ed Angela Merkel, che è forse la più determinata e decisa del trio, un gioco molto pericoloso proprio perché ho l’impressione che si stia tirando troppo la corda, il che comporta il rischio che si determini la classica situazione nella quale l’operazione riesce brillantemente ma si è costretti a constatare che il paziente è già bello che morto.

Mentre nei tre maggiori paesi europei sono in corso le grandi manovre attorno alle banche ed alle compagnie di assicurazione, in Italia siamo ancora a carissimo amico, quasi la tempesta perfetta non ci riguardasse e si continuasse a credere nella favola della impermeabilità delle banche e degli altri soggetti del mercato finanziario italiano ai guai che stanno vivendo i nostri maggiori partners europei, o almeno questo è quanto verrebbe da credere leggendo le dichiarazioni del presidente dell’Associazione Bancaria Italiana, un personaggio che insiste nel credere che può essere lui a dettare l’agenda di Berlusconi alias Tremonti.

Peccato che la partita in gioco nel nostro paese sia molto più complicata di quanto si lasci intendere nei pressi di palazzo Altieri, sede dell’ABI, la cui distanza da Palazzo Grazioli, residenza romana del premier, appare in questi giorni passate dalle decine di metri effettive a quella misurabile in anni luce, con i banchieri che si ostinano a credere che il governo darà loro qualche decina di miliardi di euro a titolo subordinato e perpetuo, evitando molto accuratamente di porre qualsivoglia condizione in cambio del suo soccorso!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

giovedì 20 novembre 2008

La tempesta perfetta travolge tutto!


La coppia di dati a carattere chiaramente recessivo piovuta ieri su un già pesante mercato statunitense ha dato la stura ad un’ondata di vendite senza precedenti che ha spedito il Dow Jones al di sotto dell’importantissima soglia psicologica posta a 8 mila punti, con una perdita del 5 per cento, mentre lo Standard & Poor’s 500, pur riuscendo a tenersi di pochissimo al di sopra degli 800 punti, tocca il minimo degli ultimi 5 anni ed il Nasdaq si trova più o meno agli infimi livelli toccati dopo lo scoppio della bolla tecnologica che aveva toccato il suo apice nel 2000.

Una flessione record dei prezzi al consumo su base mensile (-1 per cento), ma, soprattutto, la prima flessione dell’indice al netto dei prodotti alimentari e di quelli energetici da tempo immemorabile, un dato che fa peraltro seguito ad una maxi flessione del 2,8 per cento, sempre su base mensile, registrata il giorno prima dall’indice che misura i prezzi alla produzione e che si accompagna ad un ulteriore calo delle nuove case e dei cantieri edlizi che spedisce il dato annualizzato delle nuove costruzioni sotto il livello delle 800 mila abitazioni, cosa che non si verificava dal 1959, hanno letteralmente chiuso la bocca alla residua pattuglia di ottimisti ad oltranza, quelli, cioè, che vedono la ripresa dietro ogni angolo.

Lo stallo drammatico del Senato sul doppio fronte rappresentato dalla questione degli aiuti per 25 miliardi di dollari all’industria automobilistica a stelle e strisce e l’altrettanto urgente questione dell’assegnazione di un plafond di dimensioni pressoché analoghe alla Federal Deposit Insurance Corporation per consentire una rinegoziazione di milioni di mutui al fine di evitare un’altra micidiale ondata di pignoramenti ha fatto il resto e le quotazioni delle maggiori banche statunitensi sono scese a livelli davvero senza precedenti negli ultimi anni, con colossi come Citigroup in calo del 23,44 per cento e fissati in chiusura a 6,40 dollari, mentre tutti gli altri si trovano accomunati da flessioni a due cifre, per non parlare del vero e proprio squagliamento delle quotazioni delle azioni delle tre maggiori case automobilistiche, un meltdown che sta trascinando inevitabilmente con sé le azioni delle maggiori Corporations operanti in settori contigui a quello automobilistico, ingrediente essenziale, insieme alla casa di abitazione, dell’oramai tramontato American Dream.

Che la situazione stia davvero volgendo al peggio è, peraltro, inequivocabilmente testimoniato dall’inusuale decisione di Hank Paulson di scrivere un articolo sulla stampa americana, ma ripreso dai quotidiani di mezzo mondo, per difendere le scelte sue e dell’amministrazione uscente di difendere con le unghie e con i denti quel che resta del “bottino” da 700 miliardi di dollari destinato al salvataggio di quel che resta del sistema bancario a stelle e strisce dagli assalti dei democratici che “pretendono” di utilizzarne una parte per evitare il fallimento dei tre colossi di Detroit e dare una mano alle famiglie americane in crisi per evitare di perdere la propria casa, incorrendo nella stessa sorte già toccata ad altri milioni di famiglie, molte delle quali hanno anche già perso il lavoro e si sono viste pignorata l’automobile.

In una revisione dell’antico detto sulla effettiva volontà e che suona come “chi vuole vada, chi non vuole ‘rimandi’”, i venti maggiori paesi industrializzati del pianeta hanno lanciato un messaggio terrificante ad un mercato che sa benissimo che ad aprile del 2009 sarà già accaduto quello che doveva accadere e che qualsiasi provvedimento perfetto preso in quella data, ammesso e non concesso che ciò accada e che le decisioni prese abbiano effetto immediato, molto difficilmente sarà in grado di far tornare nella bottiglia il liquido versato!

Purtroppo, come vado incessantemente dicendo da alcuni giorni, dietro questa chiara volontà dilatoria dei governi e delle autorità monetarie non vi è inerzia ma un’insopprimibile voglia di fare da padroni in casa propria, non costretti da scelte sopranazionali e da criteri condivisi con gli altri partners, una scelta che la dice davvero lunga sulle reali intenzioni di regolare, a livello nazionale, l’annoso conflitto/competizione che oppone i governi più o meno democraticamente eletti agli esponenti di quel potere economico transnazionale che negli ultimi decenni ha spesso dettato l’agenda alla politica, il che è stato drammaticamente vero nei cinque continenti e che ha prodotto i mostri dell’attuale finanziarizzazione e globalizzazione proprio grazie a quell’ondata deregolamentatrice che i governi di tutto il pianeta hanno disciplinatamente introdotto nelle rispettive regolamentazioni nazionali.

Sono da sempre tra quelli che sostengono le tante imperfezioni ed i disequilibri cui conduce il mercato lasciato a sé stesso, ma sono altresì fermamente convinto che non vi sia giudice più implacabile del mercato stesso, così sto sostenendo da diverse puntate che il piano distintamente, ma contemporaneamente, ideato dai vari Brown, Sarkozy, Merkel e Berlusconi alias Tremonti è stato perfettamente compreso dagli operatori che stanno bastonando quelle banche che dovrebbero farsi carico in prospettiva più o meno immediata delle altre e che ciò è possibile leggerlo nei grafici relativi delle quotazioni delle maggiori protagoniste dei diversi mercati azionari del vecchio continente, gran Bretagna inclusa.

Per settimane e per mesi siamo stati subissati da analisi molto embedded che cedevano il settore creditizio italiano relativamente al riapro dalle sempre più alte ondate della tempesta perfetta, con le maggiori banche unite come un sol uomo nel respingere con sdegno l’ipotesi di interventi pubblici a carattere condizionante della loro preziosa autonomia, con il risultato che più venivano diffuse queste esternazioni e più le azioni delle stesse banche scendevano, spesso con movimenti molto violenti, al punto che per molte di loro ci si sta movendo su livelli del tutto inesplorati, in quanto rappresentano dei veri e propri minimi storici, esperienza che, purtroppo, contagia l’economia reale!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

mercoledì 19 novembre 2008

Approfittando del rinvio del G20, Giulio Tremonti cala l'asso dell'innalzamento per decreto del core Tier 1 dal 6 all'8 per cento!


Ieri Hank Paulson ha davvero dato il meglio di sé testimoniando di fronte alla Commissione Bancaria del Senato degli Stati Uniti d’America, a fianco di un silente ed alquanto imbarazzato Bernspan, compiendo il capolavoro di distruggere quel velo di finzione che separa le sue attuali e molto temporanee attribuzioni di civil servant ed il suo lunghissimo passato al vertice della potente ed ancor più preveggente Goldman Sachs, l’ex Investment Bank che, per evitare l’onta del fallimento, si è dovuta piegare al diktat della Federal Reserve e diventare una banca commerciale, una “scelta” che ha peraltro condiviso con Morgan Stanley che, insieme a Goldman, è l’unica Investment Bank sopravvissuta alla tempesta perfetta.

Dopo essere stato costretto a digerire il gigantesco rospo della brownizzazione del suo iniziale piano di salvataggio del sistema bancario statunitense, basato sull’acquisto a prezzi del tutto fuori mercato di parte della montagna di titoli tossici che attualmente ingolfano i bilanci delle banche di ogni ordine e grado, ha dirottato la prima tranche delle risorse accordategli dal Congresso, 250 miliardi di dollari, nell’acquisto di azioni delle 30 principali banche statunitensi (125 dei quali alla sua ex (?) banca ed altre big del settore, 25 miliardi ciascuna a Citigroup e Bank of America), ma quando gli è stato chiesto di utilizzare parte del “bottino” per salvare le tre big del settore automobilistico dal fallimento e di spendere altri 25 miliardi per favorire la rinegoziazione dei mutui, come proposto dalla brava presidentessa della Federal Insurance Deposit Corporation, Hank è tornato quello di un tempo ed ha di fatto detto che dovranno passare sul suo cadavere prima di scippargli le risorse che servono esclusivamente a riparare le malefatte dei suoi ex (?) colleghi.

Il bello è che Paulson ha ottenuto dal Congresso una sorta di manleva molto simile a quella che, secondo Alexandre Dumas padre, sarebbe stata consegnata dal cardinale Richelieu alla bella Milady, un salvacondotto che lo rende penalmente irresponsabile di quanto farà fino a che non verrà sollevato di forza dal suo incarico dal nuovo presidente eletto Barack Obama, che, tanto per non sbagliare, farebbe bene a rispedire l’attuale numero uno della Fed agli amati studi sulle crisi finanziarie (sic), consentendogli di ricalcare quegli stessi fioriti vialetti della prestigiosa Università di Princeton a suo tempo percorsi da Albert Einstein, ‘o tempora, o mores’.

Pur ritenendo tutti i nomi indicati come possibili successori di Hank di ottimo livello, mi permetto di avanzare un piccolo suggerimento, ben consapevole che il giovane presidente non avrà mai modo di venirne a conoscenza, e che consiste nell’opportunità di nominare proprio quel Paul Volker che fu costretto a lasciare la Fed per la sua opposizione alla reaganomics, quel mix davvero micidiale di deregolamentazione, finanziarizzazione e globalizzazione alla carlona che ci ha portati dritti, dritti al meltdown della finanza e dell’economia reale nel quale ci troviamo adesso!

Nel frattempo i mercati fanno quello che possono e continuano a scommettere sulle nazionalizzazioni prossime venture di banche e compagnie di assicurazione, al di quà ed al di là del sempre più stretto Oceano Atlantico, spedendo letteralmente agli inferi le quotazioni delle azioni dei big del settore, con la tanto amata da Hank Goldman Sachs che si trova oramai a quotare un quarto di quanto valeva tredici mesi orsono ed il colosso Citigroup abbondantemente al di sotto dei 10 dollari, per non parlare delle due maggiori monoliner, MBIA ed Ambac, per le quali le agenzie di rating non trovano più ulteriori spazi di downgrade.

Come ricordavo ieri, il discorso riguarda anche, e forse in misura ancora maggiore, le banche dei quattro principali paesi dell’unione Europea, che si apprestano a vivere il più rapido e violento processo di concentrazione mai vissuto, con l’obiettivo neanche troppo nascosto dei rispettivi governi di ridurre al minimo il numero dei colossi anche per fare economie di scala sugli indispensabili aiuti, una prospettiva inimmaginabile soltanto un anno e mezzo fa e che sta gettando lo scompiglio nei quartier generali delle banche che non sono state prescelte come aggreganti da Brown, Sarkozy o dalla bellicosa cancelliera Angela Merkel.

Come sempre accade, il mercato tende a punire più le entità che dovranno caricarsi del fardello delle altre che di quelle destinate a scomparire e, pertanto, i movimenti azionari dei giorni scorsi sono alquanto self explaining e non necessitano di ulteriori approfondimenti, cosa peraltro ben nota ai banchieri esclusi dagli abboccamenti governativi più o meno riservati in corso oramai da alcune settimane, in alcuni casi da mesi.

Noto con piacere che l’interpretazione da me data a caso del “fallimento” del recente summit del G20/G21 inizia a trovare proseliti tra i commentatori, che iniziano a dire apertamente che dietro quel lunghissimo rinvio di ogni decisione alle calende greche si cela la tanto richiesta mano libera dei governi più o meno pronti a dare il via a quel vero e proprio regolamento di conti da tempo minacciato.

E’ in questo quadro che è maggiormente comprensibile l’indiscrezione fatta filtrare attraverso il quotidiano MF in edicola stamane e che vorrebbe inserita nel decreto legge proposto dal per la terza volta ministro dell’Economia Giulio Tremonti, l’innalzamento dell’asticella del core TIER 1 al proibitivo livello dell’otto per cento, dall’attuale già problematico sei per cento, un qualcosa che richiede aumenti di capitale o prestiti subordinati di speciale natura per decine di miliardi di euro solo fermandosi ai primi cinque gruppi bancari del Belpaese, una misura che mette i principali banchieri italiani letteralmente nelle mani di un ministro che non ha tralasciato occasione per dire quello che pensa delle vere cause della tempesta perfetta in corso, ma che, soprattutto, sembra avere un’idea molto chiara sulle responsabilità personali!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

Solo i Governi sanno quali saranno le banche aggreganti e quali le aggregate!


Mentre Hank Paulson e Bernspan difendono con le unghie e con i denti il loro bottino di 700 miliardi di dollari davanti alla Commissione bancaria del Senato degli Stati Uniti d’America dall’assalto dei massimi esponenti dell’industria automobilistica a stelle e strisce che reclamano una cospicua fetta di quella somma per non vedere le loro aziende andare a ramengo, il mercato continua a scommettere contro qualsivoglia cosa abbia a che fare con il mercato finanziario statunitense, ma anche, e con rinnovata virulenza, vende il vendibile delle banche e delle compagnie di assicurazioni europee, oramai universalmente considerate alla vigilia di ancor più massicci e condizionanti interventi da parte dei rispettivi governi.

Pensavo proprio in questi giorni che, se avessi detto due anni fa che Lehman Brothers poteva fallire, Bear Stearns e Merrill Lynch essere ignominiosamente assorbite da banche commerciali, i tre massimi esponenti dei colossi dell’auto presentarsi con il cappello in mano di fronte ai senatori per essere salvati, il minimo che poteva capitarmi era di essere rinchiuso in qualche casa di cura per malattie mentali, un pensiero che si accompagnava alla tristissima constatazione che questo non è che l’inizio di un terreno del tutto inesplorato per chi è nato dopo la fine del secondo conflitto mondiale e non ha avuto modo di misurarsi con le conseguenze della Grande Depressione seguita al crollo borsistico del 1929.

Ho avuto modo di ascoltare l’intervista fatta da tre giornalisti all’autore di Crack, una sorta di instant book scritto da un economista, ex banchiere ed ex proprietario di una casa che realizzava i software utilizzati dagli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto delle principali banche d’investimento e delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, un signore abbastanza anziano per avere potuto toccare con mano gli effetti della Grande Depressione e che ha lucidamente messo in luce le analogie tra l’abbondanza di liquidità degli anni Venti del secolo scorso e quella che ha caratterizzato questi ultimi quindici anni, ma che ha anche ricordato come alcune grandi banche che si sono tenute alla larga dall’ingegneria finanziaria ed hanno mantenuto bassi i livelli di leverage ratio godano a tutt’oggi di buona salute, anche se negli anni passati si sono dovuti accontentare di ROE molto più modesti di quelli vantati dalle banche più disinvolte, così come i loro amministratori hanno ricevuto stipendi ben più bassi dei loro concorrenti, ma almeno manterranno il posto!

Venendo all’attualità, va ricordato il vero e proprio tracollo dell’indice dei prezzi alla produzione negli USA, che ha segnato un calo record del 2,8 per cento nel mese di ottobre, in larga misura determinato dal crollo dei prezzi delle materie prime, in particolare di quelle energetiche, a sua volta determinato da un calo della domanda tale da fugare ogni dubbio sulla profondità della recessione in corso nell’ultimo trimestre di questo veramente orribile 2008, un trimestre che dovrebbe registrare un calo del prodotto interno lordo nell’ordine del 3,5 per cento, sempre che le cose non decidano di mettersi peggio, anche perché non va mai dimenticato che il rischio maggiore che stiamo vivendo è quello di entrare alquanto bruscamente da una fase di prezzi in decisa salita ad una di prezzi ancor più rapidamente in discesa.

Come dicevo sopra, gli operatori e gli investitori cominciano a sentire il sangue delle diverse entità protagoniste del mercato finanziario globale ed intensificano le loro scommesse sugli esiti possibili dei processi di feroce ristrutturazione e concentrazione per ora nella mente dei decision makers politici ubicati al di qua ed al di là dell’Oceano Atlantico, anche perché è molto più difficile intuire le intenzioni del governo giapponese, mentre è quasi impossibile anticipare le mosse dei vertici del partito comunista cinese in materia creditizia e finanziaria.

Quello che inizia a delinearsi nei maggiori paesi europei è il superamento di quella coesistenza di tre, a volte quattro, grandi gruppi bancari, spesso aventi come azionisti di riferimento colossali compagnie di assicurazione, un numero che appariva molto ridotto ma che appare oggi destinato a ridursi ancora sino ad un massimo di due gruppi creditizi per paese, banche di dimensioni davvero colossali ma dai piedi veramente di argilla, “temporaneamente” controllati dallo Stato ed in grado di garantire il flusso desiderato di risorse alle imprese, molte delle quali, altrettanto “temporaneamente”, direttamente o indirettamente controllate dai rispettivi governi nazionali.

Le oscillazioni vistosissime di alcune banche europee sembrano anche indicare quale sarà la banca aggregante e quale quella destinata a fondere sé stessa nella prima, un gioco molto, ma molto pericoloso, a meno di non disporre di informazioni riservate, il che determinerebbe una fattispecie che esporrebbe chi le fornisse e chi le utilizzasse a grossi rischi sul piano giudiziario.

I cinque mesi circa che ci separano dal vero vertice del G20/G21 previsto per aprile, quello deciso nel corso dell’alquanto inutile passerella svoltasi nello scorso fine settimana, saranno dunque davvero cruciali per la stessa sopravvivenza come entità autonome di numerose banche americane ed europee, nonché per i destini di una vera pletora di Chief Executive Officer, Chief Financial Officer, Chief Operating Officer, nonché per centinaia e centinaia di manager di alto livello destinati ad essere soppiantati, almeno in larga parte, dai loro omologhi presenti nelle banche aggreganti, il tutto senza neanche la soddisfazione di ricevere il solito generoso bonus per Natale.

Ma mentre è abbastanza chiara la road map che verrà seguita in gran Bretagna, Germania e Francia, le richiano di presentarsi più oscure e complesse per quanto riguarda il nostro paese, per il semplice motivo che le banche in ballo sono certamente tre, se non addirittura cinque, il che rende molto complessa la scelta di quelle tra loro destinate ad aggregare e di quelle destinate ad essere aggregate!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

martedì 18 novembre 2008

In attesa di Obama, gli altri diciannove governi si apprestano a fare tutto da soli!


Il tentativo della borsa di Tokyo di reagire all’annuncio ufficiale dell’ingresso del paese asiatico in recessione dopo sette anni di espansione con uno scatto di orgoglio si è rapidamente spento sul finire delle contrattazioni con un ben misero rialzo dello 0,7 per cento e dopo aver ballato a lungo sull’orlo sottile che divide il rialzo dal ribasso, un esito tutt’altro che sorprendente dopo il tonfo del marcato azionario statunitense di venerdì scorso ed il sostanziale nulla di fatto scaturito dal popolatissimo vertice di capi di Stato e di Governo dei venti paesi maggiormente industrializzati, inutilmente scomodati, ma allo stesso tempo visibilmente rincuorati dalla corale decisione di rinviare tutto ad aprile dell’anno prossimo.

Ben più netta è stata la reazione negativa sul fuso europeo, nel corso del quale gli operatori hanno avuto modo di manifestare appieno tutta la loro delusione per l’assenza di decisioni provenienti dalla tanto strombazzata riunione di Washington, riprendendo con forza a vendere il vendibile, spedendo così i listini azionari in ribasso per un 3 per cento medio, ma punendo in maniera ancora più decisa i titoli delle principali protagoniste del mercato finanziario europeo, per il semplicissimo motivo che è oramai chiaro a tutti che ogni governo agirà per conto proprio e che l’unica azione possibile è l’ingresso, più o meno in forze e più o meno condizionante, di capitali pubblici nelle banche e nelle compagnie di assicurazione.

A rendere più tetro, se possibile, questo avvio di settimana, è venuto l’annuncio di un ennesimo taglio dei dipendenti di una grande banca statunitense, Citigroup, che dopo aver reso note nei mesi scorsi nei mesi scorsi analoghe decisioni che hanno riguardato 22 mila suoi dipendenti, ha deciso oggi di spingersi ben oltre e di tagliare altre 53 mila buste paga, il che porta il suo organico a livello planetario dal picco di 375 mila raggiunto nell’aprile 2007 al numero di 300 mila che verrà toccato quando il nuovo piano industriale sarà a regime all’inizio del 2009.

Il giovane Chief Executive Officer di Citi, Vikram Pandit, ha annunciato il suo nuovo piano di tagli in un meeting della banca svoltosi stamane a Manhattan, un piano che sembra ignorare che il maxi intervento statale per 25 miliardi di dollari appena avvenuto ha, tra le sue motivazioni, quello di mantenere ed eventualmente sviluppare il credito all’economia del colosso creditizio statunitense, mantenendo al contempo e per quanto possibile i livelli occupazionali, né sarà sufficiente per le sensibili orecchie del nuovo presidente eletto la considerazione che parte dei tagli occupazionali sono legati alla dismissioni di interi rami di attività basati all’estero, in particolare in Germania, paese nel quale sono a rischio ben 18 mila posti di lavoro nell’affiliata tedesca di Citi che è stata posta in vendita.

Se il buongiorno si vede dal mattino, è possibile dire che il banchiere indiano che ha preso il posto di Chuck prince III, a sua volta erede di un banchiere di lungo corso ancora presente nel board of directors della banca, sta effettuando non solo il più selvaggio deleverage mai visto nella storia di Citi, ma verrà anche ricordato come uno dei maggiori artefici di downsizing, il tutto in una banca che vede in una posizione di vertice Robert Rubin, una delle quindici personalità del mondo degli affari e della finanza chiamate da Barack Obama come suoi consulenti per individuare una strda socialmente sostenibile per uscire dal meltdown finanziario in corso.

Nel corso del suo intervento, Pandit ci ha tenuto a sottolineare come in importanti rami di attività i guai della banca da lui guidata sono meno gravi di quelli che affligono le dirette concorrenti J.P. Morgan-Chase, Bank of America e Wells Fargo (guai provenienti per quest’ultima in gran parte da quella Wachovia che Pandit ha lottato strenuamente per conquistare per un piatto di lenticchie grazie alla complicità di Hank Paulson e del solito Bernspan), il che non lascia molte speranze sul comportamento che i vertici di queste tre banche terranno con riferimento al mantenimento o meno degli attuali livelli occupazionali.

Se i licenziamenti avvenuti nei sedici mesi della tempesta perfetta, quelli annunciati oggi e quelli che, purtroppo, alquanto immancabilmente si verificheranno hanno carattere generalizzato, quello che sta avvenendo nelle Investment banks e nelle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali assume caratteri ben più marcati, anche perché fa seguito ad una lunghissima fase di continua espansione dell’attività e dell’organico, inducendo un po’ in tutti l’illusione che le cose sarebbero continuate così indefinitivamente, anche se si trattava di una prospettiva poco credibile alla luce della ciclicità propria dell’economia, ma ancor più della finanza più o meno strutturata.

Come ricordavo ieri, il rinvio alle calende greche delle decisioni coordinate a livello globale lascia mano libera ai governi dei singoli paesi, che hanno ora per di più almeno cinque mesi per ridisegnare la mappa del potere economico sia nel settore della finanza che in quello industriale, un’opportunità quasi irripetibile che i vari Brown, Sarkozy, Merkel e Berlusconi non sciuperanno certamente e che darà ad ognuno di loro la possibilità di regolare vecchi conti, ma, soprattutto, di rimettere al proprio posto quel potere economico che, in particolare negli ultimi venti anni, aveva cominciato a coltivare l’illusione di fare a meno del ceto politico e che ora si trova a mendicare l’intervento della mano pubblica per evitare il tutt’altro che improbabile rischio di essere costretti a portare, come si suol dire, i libri in tribunale.

Nel frattempo, terrorizzati dalla relativa insondabilità dei paini del per al terza volta ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, i banchieri italiani stanno compiendo un’affannosa ed alquanto inutile corsa ad arruolarsi sotto le bandiere del centro-destra!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

lunedì 17 novembre 2008

A chi conviene il rinvio ad aprile 2009 di ogni decisione scaturito dal vertice di Washington?


Come avevo già reso noto la settimana scorsa, sto cercando di sottrarmi all’annullamento di fatto dei fine settimana che è in corso sin dall’avvio della tempesta perfetta l’ormai storico 9 agosto del 2007, una crisi della quale non si intravede in alcun modo la conclusione e che ha avuto il merito di costringere i decision makers del pianeta, nonché i principali attori del mercato finanziario globale a rinunciare a quelle pause dorate e spesso allungate nel corso delle quali godere dei tanti privilegi del loro status e spendere una piccola frazione dei loro redditi megagalattici, un’iperattività alla quale ho deciso, almeno in parte di sottrarmi, riducendo ad una sola le puntate nei giorni dedicati al riposo.

D’altra parte, la sceneggiata verificatasi nel salone affollatissimo di Washington che si è trovato ad ospitare le centinaia di persone facenti capo a vario titolo alle ventuno delegazioni che accompagnavano i capi di Stato e di governo più importanti del mondo, solennemente riuniti per dare una risposta ai problemi prepotentemente posti sul tappeto dalla più grave crisi finanziaria mai verificatasi, si commenta da sola, presentandosi come la classica montagna che ha partorito non già l’altrettanto classico topolino, ma ha deciso di non decidere e di rinviare tutto al prossimo mese di aprile dell’anno che verrà immediatamente dopo questo davvero orribile 2008, il tutto condito da un documento finale farcito di impegni solenni quanto scritti bellamente sull’acqua e da promesse da marinaio di agire di concerto, quando tutti oramai sanno benissimo che si è deciso di andare ognuno per la sua strada, mediante l’adozione di piani di salvataggio nazionali nell’ordine di decine o centinaia di miliardi di euro, dollari o sterline, a seconda delle rispettive valute e disponibilità.

Va detto, ad onor del vero, che una volta tanto i mercati avevano capito tutto con un certo anticipo, cosa particolarmente vera per il mercato azionario statunitense che ha chiuso una delle tante ottave schizofreniche con un bel tonfo malaugarante per gli augusti ospiti convenuti nella capitale dell’ex impero a stelle e strisce, un paese dove i politici di fede repubblicana, sonoramente sconfitti nel recente Election Day, non trovano di meglio da fare che mettere i bastoni tra le ruote del piano di salvataggio dell’industria automobilistica locale, apparentemente, in qualche caso sinceramente, del tutto indifferenti al possibile ricorso alla protezione della legge fallimentare dei tre colossi del settore e che rispondono ai nomi di General Motors, Ford e Chrysler, un evento che porterebbe con sé la cancellazione di un numero sterminato di buste paga dei dipendenti delle tre compagnie, ma soprattutto dell’amplissimo indotto!

La stessa ragione del rinvio dell’ora delle decisioni più o meno fatali da parte dei tremebondi vertici politici dei ventuno paesi è davvero esilarante, in quanto era noto a tutti che il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America non si insedierà prima del 20 gennaio e non sarà in grado di prendere decisioni storiche prima della fine della primavera prossima, rendendo del tutto inattuabile la proposta di rinvio a febbraio avanzata dal bellicoso ed iper decisionista presidente francese, uno che se non prende una decisione un giorno sì e l’altro pure pensa davvero di aver sprecato un giorno della sua vita, ma che si è piegato alla dura logica delle previsioni costituzionali statunitensi che prevedono la compresenza di due presidenti per la bellezza di due mesi e mezzo.

Ma siamo poi così sicuri che i capi di Stato e di governo siano così rattristati dal fatto che le prime misure concrete verranno forse decise non prima di venti mesi dopo quello che tutti oggi definiscono lo tsunami finanziario ed in un periodo nel quale lo stesso avrà fatto in tempo a fare a polpette buona parte dell’economia cosiddetta reale?

Spiace per coloro che ancora credono alle favole, in particolare a quelle nel quale vi è sempre un cavaliere azzurri che salva la principessa da un pericolo mortale e si conclude con l’immancabile tutti vissero felici e contenti, ma l’evidenza della dura realtà dei fatti induce a ritenere che Brown, Sarkozy, Merkel, Berlusconi e compagnia cantante non vogliano farsi sfuggire l’occasione della loro vita, mettendo mani e piedi nel potere economico finanziario ed industriale, potendo finalmente rimettere al loro posto quanti, tra top manager, top bankers, numeri uno di compagnie di assicurazione, locuste e compagnia cantante si erano allargati a dismisura, spesso gestendo attivi di bilancio superiori allo stesso prodotto interno lordo del paese nel quale la loro multinazionale era basata e che avevano, per di più, la pretesa davvero insopportabile per i leaders più o meno eletti dai rispettivi popoli di rappresentare loro il potere con la p maiuscola!

Non farei troppo affidamento sulla voglia di presidenti della repubblica e primi ministri quasi miracolosamente riemersi all’onore della cronaca dal profondo rosso dei sondaggi redatti non più tardi di qualche mese orsono di tornarsene buoni, buoni al loro posto, nuovamente negletti dai loro contemporanei, proprio ora che hanno la possibilità di decidere dei destini delle banche, delle compagnie di assicurazione e di tante altre entità protagoniste del più grande casinò a cielo aperto del mondo, il mercato finanziario globale, esercitando fino in fondo l’estremo potere discrezionale legato alla fase di altrettanto estrema emergenza, una discrezionalità di cui si è già fatto massimo interprete quell’Hank Paulson, l’ex (?) investment banker un tempo a capo della potente ed ancor più preveggente Goldman Sachs, che, da ministro del Tesoro statunitense, ha deciso quale Investment Bank salvare, quale affondare, accasando Bear Stearns, Merrill Lynch, tenendo nel limbo Morgan Stanley e spedendo all’inferno della procedura fallimentare la forse a lui non simpatica Lehman Brothers, peraltro dando di questa decisione una spiegazione scritta letteralmente sull’acqua.

Non mi soffermo sulle intenzioni vere o presunte, ma nenanche troppo nascoste, di Brown, Sarkozy e Merkel, ma vorrei fare notare che l’uomo più felice del momento appare decisamente essere il per la terza volta ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che ha ora pienamente modo di applicare la sua ricetta ai da lui odiati banchieri nostrani!

Ricordo che il diario della crisi è presente anche sul mio blog http://www.diariodellacrisi.blogspot.com/ e che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

venerdì 14 novembre 2008

A Washington si profila il trionfo dei Governi sulle banche!


Anche se è del tutto vero che questi sedici mesi ci hanno davvero abituato a vederne di tutti i colori, credo proprio che quello che è avvenuto ieri sul palcoscenico di Wall Street sia qualcosa che non si era davvero mai visto, con l’indice Dow Jones che prima precipita sotto l’importante soglia psicologica degli 8.000 punti, per poi rimbalzare in su di poco meno di 900 punti, chiudendo in rialzo di oltre il 6 per cento, seguito a ruota dal Nasdaq e dallo Standard & Poor’s 500, un qualcosa che merita solo la definizione utilizzata in un noto film americano dal titolo “Un giorno di ordinaria follia”, una delle migliori interpretazioni di Michel Douglas.

Non so se questo viaggio sulle montagne russe compiuto dai tre vagoni più importanti del treno finanziario globale influenzerà le determinazione delle venti delegazioni che stanno apprestandosi a raggiungere a Washington quella dei padroni di casa, ancora guidata da Bush, ma con l’occhiuta presenza di Madeleine Albright, già potente segretario di Stato di Bill Clinton ed attualmente consigliera di Barack Obama, anche perché credo che buona parte del lavoro preparatorio sia stato già completato dai soliti sherpa, ma questo non esclude qualche colpo di scena ad opera del solito ed incorreggibile Nicolas Sarkozy, sempre ansioso di mettere il cappello sulle decisioni collegiali che verranno annunciate in questo ennesimo week end di paura.

Una giornata cominciata malissimo sulla piazza asiatica e proseguita in modo incertissimo in Europa, con recuperi davvero modesti dopo l’ennesimo bagno di sangue verificatosi il giorno precedente, si è chiusa così con scambi tornati su livelli altissimi, mentre la volatilità ha raggiunto livelli davvero poco adatti ai cardiopatici.

Eppure, la notizia più attesa della giornata negli Usa, quella relativa ai nuovi sussidi settimanali di disoccupazione era stata veramente pessima, con il dato che sfondava la soglia psicologica del mezzo milione di nuovi sussidi che ha portato con sé l’ennesimo balzo in avanti dello stock mensile, una notizia seguita da quella relativa alle nuove 84 mila case sequestrate e prossimamente messe all’asta da quelle stesse banche che dovrebbero rinegoziare i mutui degli alquanto disperati proprietari oramai non più in grado di sostenere rate che in pochi anni sono divenute multiple di quelle originariamente stabilite da contratti irti di clausole trappola.

Chissà perché mi viene in mente al proposito la frase di un notissimo banchiere a proposito della situazione attuale: “finché la musica suona è il caso di continuare a ballare”, parole che mi ricordano la famosa scena del film sull’affondamento del Titanic, quella in cui l’orchestra continua imperterrita a suonare mentre la nave inizia inesorabilmente ad affondare!

Certo, qualche notizia buona è venuta sempre ieri dal mondo della politica a stelle e strisce, con il Congresso finalmente determinato a dare il via libera ai 25 miliardi di finanziamento previsti per l’industria automobilistica statunitense, anche se va detto che quella somma servirà a stento a tamponare i buchi di bilancio determinatisi nei mesi trascorsi dalla decisione originaria, un ritardo in larga parte legato alle resistenze dei repubblicani recentemente travolti dal per loro veramente infausto esito elettorale, una notizia positiva controbilanciata dall’altrettanto attivismo dei democratici volto a prevedere durissime condizioni da imporre come collaterale all’intervento diretto del Tesoro nel capitale delle banche statunitensi.

Mentre il nuovo presidente continua a stendere una fitta cortina fumogena sulla distribuzione degli incarichi governativi, grazie all’invenzione invero felice del folto pacchetto di mischia di super consulenti che lo circonda ormai giorno e notte e, per aumentare la suspence, ha deciso di non inviare nessuno dei probabili candidati alla poltrona più ambita, quella attualmente occupata da Hank Paulson, ai lavori dell’imminentissimo G20/G21, ma, come ho ricordato sopra, ha pensato bene di spedirci un’esperta di politica estera e negoziatrice inflessibile come la Albright.

Venendo all’Europa, non c’è davvero bisogno della zingara per capire che le vere azioni dei governi dei maggiori paesi europei verranno assunte solo dopo l’appuntamento di Washington, così come non è difficile supporre che il primo a dare seguito alle più che bellicose intenzioni nei confronti degli attuali vertici bancari del suo paese sarà proprio Sarkozy, che forse si spingerà fino a dare l’annuncio della sua campagna di concentrazione su uno, due istituti di quel che resta del sistema bancario francese, una mossa che determinerà una, forse due aggregazioni mostre destinate a fare impallidire quelle, già di dimensioni considerevoli, avvenute nel recente passato.

Non credo proprio che Gordon Brown ed Angela Merkel saranno da meno del loro partner francese, così come credo che le dimensioni dei colossi a stretto controllo statale risultanti sono destinati ad avere dimensioni altrettanto gigantesche di quelle che potrebbero essere realizzate in Francia, mentre un discorso a parte dovrebbe riguardare le due maggiori banche spagnole che, miracolosamente quasi del tutto illese, pare proprio stiano aumentando il fieno in cascina per approfittare degli scampoli di fine stagione prossimi venturi.

Ho lasciato per ultima l’Italia, ma solo perché credo che il per la terza volta ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, aspetterà le decisioni dei tre più importanti paesi europei per muoversi immediatamente dopo e sulla stessa falsariga, facilitato in questo dai rovesci in borsa e dai risultati trimestrali dei tre maggiori gruppi bancari, anche perché è perfettamente consapevole che il summit dei capi di Stato e di Governo segnerà una quasi certa vittoria del potere politico non solo su quello delle banche e delle altre entità protagoniste del mercato finanziario globale, ma anche sugli un tempo potentissimi regolatori, banche centrali in primis!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

giovedì 13 novembre 2008

Paulson si tiene stretti i soldi, mentre Tremonti minaccia i banchieri italiani: chi sbaglia, fuori o in galera!


Con il solito piglio un po’ arrogante, eredità indelebile dei suoi lunghi anni passati al vertice della potente e molto preveggente Goldman Sachs, Hank Paulson ha finalmente ammesso quanto tutti avevano oramai avuto modo di capire da lunga pezza, e cioè che il suo piano di salvataggio delle banche non è più quello che era compreso nelle sue tre smilze paginette presentate a Bush ed ai leaders del Congresso statunitense, ma che, strada facendo, si era trasformato in una fotocopia del piano Brown che, a sua volta, è stato integralmente ripreso dagli atterriti e tremebondi vertici dei paesi di quell’eurozona della quale, ma non per molto, la sterlina continua ostinatamente, ma non più tanto orgogliosamente, a non fare parte, al pari delle valute di Svezia e Danimarca, due paesi che hanno già provveduto a riaprire i relativi dossier preparatori della richiesta di ammissione all’ombrello valutario europeo.

Ad un solo giorno di distanza dalla riunione dei capi di Stato e di governo del G20/G21, il meltdown dei mercati inizia davvero a prendere le sembianze della sindrome cinese che minacciò di scatenarsi a suo tempo nell’impianto nucleare di Three Miles Island, con gli indici azionari che continuano ad essere in caduta libera in tutto il mondo, ma che negli Stati Uniti d’America, prosegue in modo pressoché ininterrotto dal giorno successivo alla storica elezione di Barack Obama alla più alta carica del paese politicamente e militarmente più potente del pianeta, una strana ed anche inquietante coincidenza che la dice lunga sui sentimenti e le aspettative di Big Business, Big Pharma, Big Tabacco, Big Oil, per non parlare delle preoccupazioni con le quali viene vista la nuova amministrazione dagli esponenti del cosiddetto partito della guerra, che spesso con le forze armate in senso stretto ha ben poco a che fare, ma è tanto, ma tanto, interessato a questioni quali le forniture, gli approviggiamenti, le grandi commesse che vengono dal Pentagono!

Orfane di quella vera e propria vincita alla lotteria che era rappresentata dalla prima stesura del piano Paulson che prevedeva che almeno una parte dei titoli tossici che le stanno letteralmente affogando sarebbe finita, a prezzi del tutto fuori mercato, sulle già molto gravate spalle dei contribuenti statunitensi, le banche a stelle e strisce e le altre entità a vario titolo protagoniste del mercato finanziario a stelle e strisce sono subissate, al pari di quelle del resto dei paesi maggiormente industrializzati da una vera e propria pioggia di vendite che stanno determinando lo sfondamento dei minimi toccati nella prima decade di ottobre anche per i colossi del settore, quali Goldman Sachs, Citigroup, Bank of America, mentre anche la leader del settore delle carte di credito, l’American Express è stata costretta a presentarsi con il cappello in mano ai plenipotenziari del dicastero del Tesoro statunitense per pietire un’immissione di capitale dell’ordine di 3,5 miliardi di dollari.

Quasi un novello Sansone disposto a tutto, pure a morire insieme a tutti i filistei, Hank Paulson, pur dovendo inghiottire la radicale revisione del suo piano tanto gradito dai suoi ex (?) colleghi, ha sfoderato ieri i suoi potenti, ma da un po’ di tempo alquanto spuntiti, artigli, scagliandosi con tutte le sue residue forze contro l’ipotesi tutt’altro che peregrina che vedrebbe parte dei 700 miliardi di dollari faticosamente strappati ad un alquanto riottoso Congresso dirottati verso le esangui casse delle maggiori case automobilistiche americane, in particolare quelle della general Motors che capitalizzava martedì scorso un quinto dell’italiana FIAT, anche essa, peraltro, da mesi sotto il tiro delle vendite più o meno speculative.

Se non bastasse tutto questo per guastarvi l’umore, basta prendere in considerazione le esternazioni del Chief Executive Officer di quella Merrill Lynch che ha di recente subito l’onta dell’acquisizione da parte della Bank of America, o quelle di Jimmy Dimon, numero uno di quella J.P. Morgan-Chase che ha dovuto farsi carico della prima delle ex Investment Banks ad essere cadute sotto il fuoco incrociato della speculazione e che risponde al nome di Bear Stearns, entrambi improvvisamente trasformatisi in cupe Cassandre, l’una vaticinante la Grande Depressione parte seconda e l’altra che ci avverte del fatto che la recessione da tempo in corso presenta molti più rischi di quelli caratterizzanti la crisi finanziaria.

Benvenuti nel club del Dr. Dome, un consesso che sino a poco tempo fa era abitato solo da Nouriel Rubini e da quei pochi altri che, come me, stanno dicendo e scrivendo cose analoghe dal settembre del 2007 in avanti, in un’epoca, cioè, nella quale i predetti personaggi, l’intera schiera dei banchieri, le banche centrali ed i governi non facevano che ripetere che la tempesta perfetta era in realtà poco più di una tempesta in un bicchier d’acqua, che il sistema finanziario era sostanzialmente sano e che, soprattutto, la crisi finanziaria non avrebbe assolutamente toccato l’economia reale, il tutto ripreso, tra rulli di tamburi e squilli di trombe, dalla moltitudine di giornalisti ed opinionisti del tutto embedded alle logiche del capitale finanziario.

Scrivevo l’altroieri che Giulio Tremonti nutre propositi molto bellicosi nei confronti dei banchieri e del gotha delle fondazioni di origine bancaria ed il per la terza volta ministro dell’Economia, approfittando delle aule parlamentari ha parlato di licenziamenti e carcere per i banchieri italiani nell’eventualità del fallimento di questa o di quella banca, probabilmente dimentico di averci rassicurato poco tempo fa che una simile eventualità non si sarebbe in alcun modo presentata, ma questo avveniva, appunto, qualche tempo fa e forse anche il commercialista prestato alla politica, come a suo tempo il compianto Leonardo Sciascia, chiederà che sulla sua lapide venga scritto: “vissi e mi contraddissi”.

Sono nel frattempo uscite due molto brutte trimestrali di Intesa-San Paolo e di Unicredit Group, con la prima costretta ad annullare il dividendo e la seconda salvata in corner dalla lesta applicazione degli IAS 39 nuova edizione di cui ha beneficiato per oltre 800 milioni di euro mentre ne ha guadagnati in tutto poco più di 500!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

mercoledì 12 novembre 2008

La grande occasione di Giulio Tremonti!


Con un ritardo di ben sedici mesi, in larga parte dovuto alla sempre più aperta partigianeria dell’ex (?) investment banker, Hank Paulson, che occupa la carica di ministro del Tesoro da oltre due anni, il governo degli Stati Uniti d’America annuncia finalmente un piano volto ad intervenire sulle cause dell’ondata crescente di foreclosure che ha già fatto perdere la propria abitazione a milioni di famiglie americane in ritardo con le rate del mutuo, non necessariamente del tipo sub prime, a causa delle micidiali clausole trappola che hanno visto innalzare in ragione di multipli la relativa rata, spesso sino a superare lo stesso reddito mensile dei mutuatari, un meccanismo che si è ritorto come un boomerang sulle stesse banche concedenti che si trovano con una montagna di case che è sempre più difficile vendere.

Ebbene, l’attuale legislazione prevede la pratica impossibilità di modificare le condizioni del mutuo, legando di fatto le mani ai giudici che non possono disporre tali variazioni che, alla fine, determinerebbero una sorta di gioco win win, del quale trarrebbero giovamento tutte le parti in causa, banche, mutuatari ed anche i proprietari di case non gravate da mutuo che vedrebbero venir meno quella pressione eccessiva da offerta che sta spingendo inesorabilmente verso il basso le quotazioni delle loro case.

Come ho avuto più volte modo di ricordare nei mesi scorsi, si tratta né più, né meno dell’idea venuta ad una donna facente parte dell’amministrazione uscente, che perorò questa soluzione sin dal settembre del 2006, raccogliendo consensi di facciata, ma non riuscendo a perforare quel vero e proprio muro di fondamentalismo neoliberista che si oppose in ogni modo alla realizzazione di questo uovo di Colombo, preferendo sperperare centinaia di miliardi di dollari nel vano tentativo di rianimare le principali protagoniste del mercato finanziario statunitense e di quello globale che hanno finito per diventare le vittime dei micidiali marchingegni escogitati dagli apprendisti stregoni operanti nelle fabbriche prodotto delle oramai ex Investment Banks e di quelle divisioni di Investment & Corporate Banking che, da galline dalle uova sempre d’oro, si sono trasformate in vere e proprie palle al piede che stanno trascinando verso il baratro le banche più o meno globali.

L’ennesima ondata di panic selling in corso su tutti i mercati azionari del pianeta, nonché il recente esito delle elezioni presidenziali statunitensi, stanno spingendo inesorabilmente verso l’adozione di tale misura che, seppur non sufficiente per fermare il meltdown in corso, è, tuttavia, del tutto necessaria per minimizzare i danni giganteschi prodotti dalle sempre più alte ondate della tempesta perfetta in corso senza soste di rilievo dal 9 agosto del 2007.

Certo non aiutano dichiarazioni come quella del bellicoso e decisionista presidente francese, Nicolas Sarkozy, che, non si sa sulla base di quali informazioni, afferma di conoscere l’entità dei titoli tossici in possesso delle diverse entità operanti nel mercato finanziario europeo, una montagna da oltre 600 miliardi di euro che risulta largamente superiore a quanto dichiarato dalle diverse autorità di vigilanza e che rende comprensibili, vista l’autorevolezza della fonte, il nuovo tracollo delle azioni delle maggiori banche europee, alcune delle quali hanno toccato ieri livelli di perdita assolutamente senza precedenti, il tutto mentre interi settori industriali, quali quello dell’auto, stanno viaggiando a fari spenti nella notte in una situazione che non consente di escludere esiti drammatici anche per quelli che fino a poco tempo fa erano considerato colossi solidissimi, quali la General Motors o la Ford, per non parlare della tecnicamente fallita Chrysler.

Ma l’ondata ribassista sembra anche forzare prepotentemente la mano ai governi dei paesi maggiormente industrializzati verso misure volte ad un processo più deciso di nazionalizzazione delle maggiori banche e delle maggiori compagnie di assicurazione, quasi indicando in questa rivoluzione copernica rispetto al neoliberismo spinto sin qui dominante l’unica possibilità di evitare quel credit crunch da decine di migliaia di miliardi di dollari altrimenti inevitabile se le banche continueranno ad essere gestite dagli attuali vertici assolutamente terrorizzati dalle reazioni dei loro azionisti!

Non so se qualcuno tra i prossimi partecipanti al vertice del G20/G21 riuscirà a rimanere insensibile rispetto al grido di dolore che si leva dai mercati, ma sono sicuro che due di questi protagonisti, Gordon Brown e Nicolas Sarkozy, sono del tutto determinati ad impedire, costi quel che costi, che la riunione si risolva in nulla di fatto, avendo indissolubilmente legato i loro personali destini politici a quella che assomiglia sempre più ad una crociata contro i responsabili del disastro attuale, inclusi i regolatori e le agenzie di rating, colpevoli, e non solo agli occhi dei due leaders, di colpevole inerzia i primi e di erori a catena e non del tutto disinteressati i secondi.

Ma sono altrettanto certo che vi è un altro uomo politico che non è assolutamente preoccupato della tristissima piega che stanno prendendo gli eventi e questi risponde al nome di Giulio Tremonti, il per la terza volta ministro dell’Economia che vede finalmente giunta la sua ora per regolare una volta per tutte i conti con quei banchieri e quei finanzieri, sino ad ieri salvati in extremis dalle manovre di Gianni Letta e dai tentennamenti di Silvio Berlusconi che, oltre ai noti conflitti di interessi, non se l’è sentita di assecondare i piani del suo ministro, forse perché timoroso delle possibili reazioni degli attuali vertici delle maggiori banche e di quelle fondazioni di origine bancaria che sono le vere azioniste di riferimento dei tre principali gruppi bancari.

Le perdite assolutamente senza precedenti registrate ieri dalle azioni di Intesa-San Paolo e di Unicredit Group, per non parlare di quelle cumulate nei mesi precedenti, nonché il conflitto al vertice di Intesa, stanno creando l’occasione favorevole che Tremonti aspettava da tempo per vincere le resistenze in seno al Governo rispetto alla prima versione del suo piano di salvataggio, che torna così prepotentemente d’attualità!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.