mercoledì 30 settembre 2009

Il Congresso accende un faro su Moody's!


Oramai il termine più utilizzato in occasione del rilascio di dati statunitensi è inaspettato, ovviamente riferito a variazioni negative o meno positive di quanto ci si attendeva, così è stato per diversi dati relativi al mese di agosto e nello stesso modo è stato commentato il calo dell’indice del Conference Board che misura la fiducia dei consumatori, calato a 53,6 dal 54,5 rivisto di agosto, mentre gli analisti si attendevano un ulteriore rialzo a 57.

La maggiore preoccupazione è legata alla flessione nelle intenzioni di acquisto rilevanti, quali case e automobili, una flessione non imprevedibile alla luce del fatto che gli acquisti verificatisi nei mesi scorsi erano alquanto stimolati da due diversi programmi di incentivazione oramai venuti a scadenza.

Pur essendo lontani dai minimi segnati nel febbraio di quest’anno, quando l’indice aveva toccato un minimo poco al di sopra di 25, va ricordato che solo con un indice posto al di sopra della soglia di 90 si può parlare di ripresa, che diviene solida solo con indicazioni che si pongono al di sopra dei 100.

Se dagli effetti ci spostiamo verso le cause, è facile vedere che quella della sicurezza del posto di lavoro e delle restrizioni dell’offerta di credito sono quelle maggiormente vissute dai consumatori americani che sembrano poco inclini a credere alle continue dichiarazioni ufficiali che cercano di convincerli che il peggio sia davvero alle spalle

Il mercato azionario statunitense non ha gradito questa ulteriore doccia fredda che ha spinto al ribasso sia il Dow Jones che il Nasdaq, mentre lo Standard & Poor’s 500 è riuscito a mantenersi pressoché invariato,mentre il dollaro non è riuscito a mantenersi nella riconquistata area degli 1,45 contro l’euro.

Non è bastato un rialzo dei prezzi di vendita delle case nelle venti maggiori aree metropolitane in luglio che l’indice Standard & Poor’s Case Schiller stima nell’1,2 per cento, un rialzo che porta l’indice a 143, mentre la flessione dei prezzi delle case rispetto al luglio dell’anno precedente è del 13,3 per cento.

Ferve intanto l’attivismo del Congresso che mira a fare luce sui retroscena dell’acquisizione di Merrill Lynch da parte di Bank of America, una questione sulla quale la banca deve anche difendersi dall’azione intrapresa dalla Securities and Exchange Commission, ma che ha acceso anche un faro sulle attività delle agenzie di rating, in particolare di Moody’s dopo la testimonianza di un suo ex dirigente che ha dichiarato che la sorveglianza sui cosiddetti munibonds non era adeguata, una testimonianza che si aggiunge a quella di un ex analista che ha consentito di fare luce sulla questione del conflitto di interessi esistente nell’agenzia che da un lato forniva il giudizio sulle emissioni e dall’altro eseguiva ben remunerate consulenze volte a definire in ‘modo appropriato’ la struttura delle operazioni soggette a valutazione.

Entrambi gli ex dipendenti di Moody’s si erano rivolti alla Sec, che ha reso noto di avere in corso indagini su questa stessa delicatissima questione e di avere allo studio una riforma delle agenzie di rating volta a favorire maggiore concorrenza tra le agenzie, favorendo tra l’altro nuovi ingressi, e a evitare i conflitti di interesse.

martedì 29 settembre 2009

Crollano i prezzi in Giappone


Due acquisizioni da oltre 6 miliardi di dollari l’una hanno ridato fiato ai mercati azionari europei e a quello statunitense, un rimbalzo che ha ignorato le pesanti flessioni segnalate dai listini asiatici, grazie anche al fatto che operatori e investitori oramai si attaccano a qualsiasi notizia per scuotersi dal torpore che sembra averli presi da qualche settimana, il tutto mentre il dollaro recupera terreno nei confronti dell’euro e il petrolio riprende a testare la soglia dei 67 dollari al barile

Non credo che il fatto che la Xerox abbia deciso di acquisire la Affiliated Computer Services per 6,4 miliardi di dollari o che la Abbot Laboratories abbia deciso di fare propria la divisione farmaceutica della belga Solvay per 6,6 miliardi di dollari costituiscano dei buy signals, ma ognuno è libero di pensarla come vuole quando si tratta di investire i propri soldi.

Il movimento altalenante dei tre principali indici statunitensi attorno a livelli comunque molto elevati rispetto ai minimi toccati nel marzo di quest’anno è chiaramente collegato all’incertezza degli investitori, soprattutto di quelli individuali, rispetto alle prospettive di una ripresa che, dopo una serie di dati interlocutori nel mese di agosto, sembra tardare a manifestarsi, al di là delle certezze espresse più volte da autorevoli esponenti della amministrazione Obama e dal neo confermato numero uno del sistema della riserva federale.

In realtà, quelle stesse dichiarazioni sono sempre state accompagnate da una serie di warning sulla attuale inadeguatezza dell’offerta di credito e sui sempre più cauti comportamenti dei consumatori a stelle e strisce, criticità non da poco e che potrebbero impedire una ripresa significativa e sostenibile, ma è soprattutto l’andamento dei prezzi che induce a ritenere che lo stato della domanda non sia proprio effervescente.

L’ultimo segnale in questo senso è giunto stamane dal Giappone, dove si è registrato un calo, su base annua, dell’indice dei prezzi al consumo depurato della componente alimentare del 2,4 per cento nel mese di agosto, una flessione che non ha precedenti nella serie statistica avviata nel 1971 e che getta pesanti ombre sulle possibilità di ripresa di questo paese tutt’altro che secondario nello scacchiere internazionale, possibilità già minate dal vero e proprio crollo delle esportazioni, in particolare nel settore degli autoveicoliconsente di il che una

Quello che non risulta affatto chiaro è lo stato di salute delle banche statunitensi, in particolare di quelle che non godono di quella sorta di assicurazione occulta legata alle loro dimensioni, e l’infittirsi di anticipazioni su una richiesta della Federal Deposit Insurance Corporation di riscuotere in anticipo le fees dovute dalle banche per rimpinguare il fondo di cui dispone per gli interventi in caso di default non lascia presagire nulla di buono e non solo per le tesorerie delle banche costrette a far fronte a un salasso imprevisto, almeno nella tempistica, per un ammontare che viene stimato nell’ordine dei 36 miliardi di dollari.

Le esigenze dell’organismo guidato da Sheila Bair sono note, anche alla luce del salasso subìto nel corso degli ultimi dodici mesi, ma la dimensione dei fondi richiesti in anticipo lascia supporre che sia destinata a cessare una delle anomalie più stridenti della tempesta perfetta rispetto alle crisi precedenti e che è rappresentata proprio dal relativamente esiguo numero di banche andate in default rispetto, a esempio, a quanto è avvenuto nei primi anni Novanta in occasione della crisi delle Saving & Loans.

lunedì 28 settembre 2009

Il G20 stila l'agenda delle cose da fare!


Ho avuto seriamente la tentazione di non occuparmi di quanto è accaduto nel corso del vertice del G20 svoltosi nei giorni scorsi a Pittsburgh, l’ennesimo vertice che si è sostanzialmente occupato di stilare un agenda, di prendere in esame i quattro documenti elaborati dal Financial Stability Board e di decidere se in futuro sarà questa l’assise determinante per l’economia e la politica globale, ridimensionando il ruolo del G8 a poco più di un’occasione di dialogo tra vecchi amici, prima che ne venga sancita ufficialmente la soppressione.

Eppure, almeno sulla carta, di carne al fuoco ve ne era davvero tanta, anche se, come al solito, si è visto molto più fumo che arrosto, pur dovendosi riconoscere lo sforzo di Stati Uniti e Cina nel delineare un accordo quadro che chiama i singoli paesi a prendersi le proprie responsabilità sugli squilibri strutturali da essi stessi prodotti.

L’illusione che si trattasse di una nuova Bretton Woods è durata lo spazio di un mattino, anche se va detto che si è discusso della riforma dei due pilastri nati da quella conferenza storica, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, mentre si pensa di attribuire un ruolo più formale e istituzionale al Financial Stability Board, l’organismo presieduto dal Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che, rispetto al precedente Financial Stability Forum, prevede la presenza di esponenti delle banche centrali di paesi che siedono a pieno titolo nel G20.

Dei quattro documenti illustrati da Draghi, la stampa internazionale si è soffermata in prevalenza sulla questione dei compensi variabili dei banchieri, ma non meno importanti sono quelli che si occupano del cosiddetto moral hazard, cioè di quei comportamenti tenuti da entità protagoniste del mercato finanziario globale che contano abbastanza palesemente sul fatto che qualcun altro poi caverà loro le castagne dal fuoco, della questione del cosiddetto principio del too big to fail o della necessità di far transitare nei mercati regolamentati tutte o quasi le operazioni in derivati che spesso transitavano altrove.

Sull’ultima di queste questioni, quella che riguarda l’immenso mercato dei derivati, qualcosa sta effettivamente accadendo, almeno stando alla lettera inviata dalle principali banche globali che si dichiarando disponibili a far transitare le loro operazioni attraverso la clearing house presso la Federal Reserve di New York, ma temo che la strada da percorrere per giungere a una situazione più regolata sia ancora lunga.

Per quanto riguarda invece la questione della difficoltà di giungere al fallimento delle entità di grandissime dimensioni, credo che il chiarimento fatto di fronte a una commissione del Congresso dall’ex numero uno della Federal Reserve e attualmente consigliere di Obama, Paul Volker, dovrebbe aver fatto cadere le speranze degli investitori istituzionali, sui quali gravano una parte rilevante delle perdite complessive legate alla tempesta perfetta, di essere salvati al pari delle grandi banche, anche se è abbastanza difficile pensare che possano essere lasciati al loro destino i fondi pensione o grandi fondi di investimento.

Il problema non è purtroppo soltanto accademico, ove si pensi che, oltre a una considerevole esposizione nei prodotti più o meno tossici della finanza strutturata, le non banche sono gravate dal 47 per cento dei prestiti sindacati di importo superiore ai 20 milioni di dollari a rischio, quasi metà cioè di un aggregato che, a seconda dei criteri utilizzati, va da 447 a 643 miliardi di dollari!

sabato 26 settembre 2009

Un mare di sofferenze sui prestiti sindacati!


A un solo giorno di distanza dalla flessione del 2,7 per cento delle vendite di case già esistenti in agosto negli Stati Uniti d’America, è giunto ieri il calo, altrettanto a sorpresa, degli ordini di beni durevoli, una flessione del 2,4 per cento che fa seguito a un rialzo del 4,8 per cento in luglio, anche se in entrambi i mesi ha pesato la componente molto volatile dei velivoli, in forte crescita in luglio e in calo di poco meno del 50 per cento in agosto, ma anche il dato che non tiene conto di questa componente è rimasto invariato, mentre il consensus degli analisti prevedeva una crescita di mezzo punto percentuale.

Insomma, nonostante le certezze sulla ripresa oramai in atto, è abbastanza evidente che quella di luglio sembra, ogni giorno che passa, rivelarsi al più una falsa partenza, anche se è sui dati di quel mese che Bernspan e i suoi colleghi hanno ripetutamente affermato che la tempesta perfetta era sostanzialmente finita e la ripresa, appunto, oramai in corso.

Una spiegazione di questa contraddizione tra i desideri e la dura realtà, la si può trovare in un rapporto denominato Shared National Credit Program 2009 Review, un rapporto annuale che viene presentato sin dal 1977 e al quale collaborano la Federal Reserve, il Federal Deposit Insurance Corporation, l’Office of the Comptroller of Currency e l’Office of Thrifts Supervision, di fatto tutte le entità chiamate a vigilare sul mercato creditizio a stelle e strisce, un rapporto che prende in esame solo i prestiti sindacati da 20 milioni di dollari in su.

Pur con le limitazioni di perimetro indicate, emerge che le perdite delle banche statunitensi relative a questo tipo di prestiti di grande ammontare sono triplicate nel 2009 portandosi a 53 miliardi di dollari, ma che l’ammontare dei crediti dubbi ha toccato i 643 miliardi di dollari, cioè il 22,3 per cento dei crediti censiti dal SNC, mentre si fermava al 13,4 nel 2008.

Impressionante l’escalation dei crediti più a rischio, escludendo cioè quelli semplicemente sotto osservazione, in quanto si passa dai 163 miliardi di dollari del 2008 ai 447 dell’anno in corso, anche in questo caso ci troviamo di fronte a un dato cresciuto di poco meno di tre volte nel giro di soli dodici mesi, ma ancora più impressionante è la crescita annua di quelle che noi considereremmo sofferenze in senso stretto e perdite vere e proprie, un aggregato che cresce di quattordici volte, portandosi a 110 miliardi di dollari.

La quota di questi prestiti sindacati di pertinenza delle banche straniere è alquanto considerevole, venendo indicata nel rapporto pari al 38 per cento, mentre quella di pertinenza delle non banche, fondi pensione, fondi di investimento, hedge funds e compagnie di assicurazione è pari al 21 per cento, una quota certamente elevata per dei soggetti non bancari, ma il problema è che la quota di crediti dubbi facente capo a queste entità è largamente superiore alla loro ‘quota di mercato’ e viene indicata al 47 per cento, un dato che è abbastanza in linea con le attribuzioni delle perdite a questi soggetti stimate dagli economisti del Fondo Monetario Internazionale.

Sono cifre da brivido che fanno capire meglio l’accenno di Volker alle non garanzie di salvataggio per le entità non bancarie, ma che rendono poco tranquillizzante anche la situazione delle banche statunitensi e di quelle straniere, facendo comprendere meglio la determinazione emersa nel vertice del G20 in merito alle nuove regole e alla necessità di legare i bonus dei top manager a obiettivi di medio periodo!

venerdì 25 settembre 2009

Paul Volker ruggisce ancora!


Il dato sulle vendite di case già esistenti in agosto negli Stati Uniti d’America, una flessione del 2,7 per cento e un dato annualizzato di 5,10 milioni di case che ha spento sul nascere il tentativo di recuperare le perdite registrate sul mercato azionario statunitense nella giornata di mercoledì, anche perché le attese erano per un ulteriore aumento delle vendite dopo il notevole balzo in avanti registrato in luglio.

Come è noto, le vendite nei tre mesi compresi tra maggio e luglio erano state spinte dal bonus fiscale fino a 8 mila dollari per chi acquistava una casa per la prima volta, vendite che vanno perfezionate entro il mese di novembre, il che, alla luce dei tempi tecnici e delle difficoltà poste da molte banche agli aspiranti mutuatari, faceva sì che in agosto si era già fuori tempo massimo per poter godere del beneficio.

Secondo gli esperti del settore, il problema è rappresentato dal fatto che il prezzo delle case non riesce a stabilizzarsi e questo anche perché una vendita su tre è rappresentata da vendite all’asta legate a procedure di foreclosure o a pignoramenti legati al dissesto finanziario del proprietario, il che spiega bene perché il prezzo mediano delle case in agosto si ponga del 12,5 per cento al di sotto di quello, già molto inferiore ai livelli precedenti alla crisi, dell’agosto dell’anno precedente, mentre in alcune aree degli Stati Uniti d’America i livelli dei prezzi si pongono al 50 per cento di quelli del 2006.

Il giorno successivo alla dichiarazione di cessato pericolo fatta da Bernspan e colleghi lo scenario non si presenta esaltante, a partire dal capitombolo del prezzo del petrolio, passato da oltre 70 a poco più di 66 dollari al barile, complice la forte crescita delle scorte statunitensi, ma anche una sempre maggiore consapevolezza della netta superiorità dell’offerta sulla domanda, un divario che pone qualche dubbio sui tempi della ripresa prossima ventura, ma soprattutto sulla forza che la stessa potrà avere.

In una testimonianza di fronte a una commissione del Congresso, il consigliere di Obama ed ex presidente della Federal Reserve, Paul Volker, ha confermato che i nuovi progetti di regolazione del sistema bancario proposti dalla nuova amministrazione non faranno venire meno il principio del too big to fail, un principio che in passato è stato più volte escluso a parole, ma sempre confermato nei fatti, anche se, secondo Volker, tale principio dovrebbe essere applicato esclusivamente nei confronti di entità bancarie e non nei confronti di entità assicurative come AIG o delle divisioni finanziarie di aziende industriali e, men che meno, per le banche che svolgono prevalentemente attività di investment banking.

Per chi ha memoria degli epici scontri che Volker ebbe con il potere politico, è abbastanza evidente che la sua determinazione nel voler escludere le entità non bancarie di tipo tradizionale dai possibili salvataggi non gli farà certamente nuovi amici, ma l’uomo è fatto così e difficilmente cambierà in futuro e questo è uno dei motivi per i quali, a mio modesto avviso, sarebbe stato un eccellente ministro del Tesoro o sarebbe stato una scelta di primo livello come rimpiazzo di Bernspan, anche perché un suo ritorno alla guida del sistema della riserva federale avrebbe rappresentato un forte messaggio simbolico sulla volontà di Obama e della sua amministrazione di non consentire gli eccessi del passato e i comportamenti delle principali entità protagoniste del mercato finanziario globale.

giovedì 24 settembre 2009

Barroso spinge per organi di vigilanza globali!


Alla vigilia del vertice di Pittsburgh dei capi di Stato e di governo del G20, il presidente della Commissione dell’Unione Europea, Manuel Barroso, batte non uno ma ben quattro colpi, proponendo quattro organismi di vigilanza paneuropei, il primo sulle banche, il secondo sulle compagnie di assicurazione, il terzo sui mercati finanziari e l’ultimo, ma non certo per importanza, sarebbe chiamato a vigilare sui rischi sistemici, organismi che partirebbero come paneuropei, ma che dovrebbero presto diventare globali.

Come Barroso sa benissimo, sarà molto difficile convincere non tanto i partners extraeuropei, Stati Uniti in testa, quanto la comunitaria Gran Bretagna che ci tiene molto all’indipendenza e all’autonomia del suo sistema duale di vigilanza sul proprio sistema finanziario e non credo proprio che basterà prevedere la vice presidenza del nuovo organismo deputato a vigilare sulle banche di tutta l’Unione europea al Governatore della Bank of England, Mervey King, mentre la presidenza spetterà ovviamente a Jean Claude Trichet e la sede sarà a Francoforte.

Organigrammi a parte, si tratterebbe, il condizionale è d’obbligo, di un passo molto importante sulla strada della prevenzione dei rischi nei diversi comparti che sono presenti nel mercato finanziario, condizione necessaria, ma, purtroppo, non sufficiente per prevenire il ripetersi di crisi finanziarie, a prescindere dal fatto che le stesse assumano o meno la forma di una tempesta perfetta come quella che è in corso da oltre due anni.

Quella del carattere globale delle nuove entità di vigilanza è una questione apparentemente ovvia, ma anche in questo caso basta andare al di là delle dichiarazioni ufficiali per capire di quante difficoltà e di quanti ostacoli è lastricata la strada indicata dall’ex primo ministro portoghese, del resto basterà aspettare il summit del G20 per vedere all’opera i guastatori pronti a sabotare il progetto.

Avevo torto a dire che non sarebbe scaturito qualcosa di importante dal meeting di due giorni del Federal Open Market Committee, anche se avevo scritto nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria che si trattava di un’occasione ghiotta per Bernspan e i suoi colleghi per lanciare un segnale forte in vista della riunione dei leaders dei venti paesi maggiormente industrializzati del pianeta.

Ovviamente, la novità non riguarda i tassi di interesse prossimi allo zero, che, secondo quanto recita il comunicato della Fed, verranno mantenuti a tale infimo livello ancora per qualche tempo, una dichiarazione sulla quale si sono gettati a pesce gli analisti, divisi tra quanti sono sicuri che resteranno a questo livello fino alla fine dell’anno in corso e quanti giurano che non verranno toccati anche per una buona parte del 2010.

Né, alla luce delle ripetute dichiarazioni di Bernspan e le ultime edizioni del Beige Book, può essere considerata una novità la valutazione che vede l’economia oramai in ripresa dopo una recessione durata 19-20 mesi, mentre il cilindro tirato fuori dal cappello riguarda il non completamento del programma di acquisto di mortgage baked securities e altri titoli emessi da Fannie Mae, Freddie Mac e Ginnie Mae per 1.450 miliardi di dollari, un programma finalizzato sia a cavare le castagne dal fuoco delle tre entità nazionalizzate, sia a favorire un livello più basso dei tassi dei mutui residenziali.

mercoledì 23 settembre 2009

Poca suspense per il meeting della Fed!


Apparentemente, la giornata vissuta ieri nei mercati finanziari di tutto il mondo è apparsa ben diversa da quella del giorno precedente, un lunedì non proprio nero, ma che ha visto nel calo dei consumi di prodotti petroliferi in Cina nel mese di agosto un pessimo segnale per le speranze di ripresa, una preoccupazione che aveva spinto il prezzo del petrolio fino a poco più di 68 dollari al barile, così come flessioni vistose avevano caratterizzato anche le altre commodities, mentre il dollaro tentava un mini recupero nei confronti delle altre due principali valute.

Ieri tutti questi timori sembravano svaniti come neve al sole e sia le quotazioni sui mercati azionari che i prezzi delle materie prime si spingevano al rialzo, anche se nessuna notizia aveva contrastato il sentimento negativo vissuto il giorno precedente, anche se, dopo oltre due anni di tempesta perfetta, non ha molto senso stupirsi per quest’andamento erratico dei mercati, così come c’è poco da essere sorpresi, a sole ventiquattro ore dal mini recupero, nel ritrovare il dollaro a testare la soglia degli 1,48 contro l’euro.

Quello che è certo è che i movimenti degli indici azionari, in particolar modo di quelli statunitensi, sono oramai ben poco vistosi sia al rialzo che al ribasso, come se si fossero raggiunti dei livelli per allontanarsi dai quali è davvero necessario che giungano segnali molto più chiari di quelli che hanno portato negli ultimi sei mesi le borse dai minimi del mese di marzo a un passo, nel caso del Dow Jones, dalla soglia dei 10 mila punti.

Non vi sono molte attese per il meeting di due giorni del Federal Open Market Committee, anche perché è molto difficile che il comunicato finale redatto da Bernspan e compagni non potrà dire molto di più di quanto è stato esternato nelle settimane scorse, né è prevedibile che la Fed scopra in questo momento le sue carte su un mutamento della politica dei tassi, che dovrebbero restare poco al di sopra dello zero ancora per parecchio tempo.

Una moderata curiosità vi è, invece, per quello che il ‘messaggio’ che il presidente del sistema della riserva federale vorrà inviare al vertice dei capi di Stato e di governo che si terrà questa settimana in terra americana, anche perché nei progetti di Obama è previsto un rafforzamento dei poteri della Fed, anche se verrà istituita una nuova Authority per la tutela del consumatore anche rispetto all’operato di banche e finanziarie.

Non vi è pace, invece, per Bank of America, in quanto un giudice ha ieri stabilito che l’accordo da 33 milioni di dollari con il quale la banca evitava il processo intentatale dalla Securities and Exchange Commission, un accordo che il giudice Jeff Rakoff ha definito una violazione dei principi di giustizia e di legalità, anche perché il fatto che sia stato autorizzato da BofA il pagamento di 5,8 miliardi di dollari di bonus a dipendenti di Merrill Lynch che contemporaneamente evidenziava una perdita mostre di 27,6 miliardi di dollari è francamente qualcosa di difficilmente comprensibile, in particolare per i contribuenti americani e per gli stessi azionisti di Bank of America.

Ma un appuntamento ancora più difficile attende una manager si Bank of America che dovrà cercare di convincere il presidente di un comitato del Congresso delle buone ragioni della banca nel non volere svelare i dettagli delle trattative che hanno preceduto l’acquisizione di Merrill Lynch, anche se, come ho scritto nella puntata di ieri, è abbastanza difficile il deputato repubblicano si farà convincere.

martedì 22 settembre 2009

Il Congresso mette alle strette Bank of America!


Quella di lunedì non è stata proprio una giornata facile sui mercati azionari di tutto il mondo, con ribassi iniziati in Asia e ampliatisi in Europa, ma anche a Wall Street le cose non sono andate liscie, una ventata di pessimismo che ha spinto il petrolio anche al di sotto dei 69 dollari al barile, mentre l’oro si è riportato sotto la soglia psicologica dei 1.000 dollari.

Nel frattempo il dollaro sta vivendo una fase di leggero miglioramento, riportandosi nell’area degli 1,46 contro l’euro e a 92 yen per dollaro, un rafforzamento che non si sa se dovuto a una fase di accumulazione prima di testare nuovi minimi contro le altre due principali valute o a discreti interventi da parte delle banche centrali.

Pur segnalando qualche miglioramento nella gestione della compagnia, i funzionari del Congresso che stanno monitorando AIG temono che molto difficilmente sarà in grado di ripagare completamente gli oltre 180 miliardi di dollari di aiuti pubblici ricevuti da quando è stata di fatto nazionalizzata nella stessa terribile notte di metà settembre del 2008 che vide il fallimento di Lehman Brothers e il salvataggio di Merrill Lynch da parte di una non proprio entusiasta Bank of America, che oltre ai guai che aveva di suo si era già dovuta accollare quelli di Countrywide e di Washington Mutual, divenendo, inoltre, così il primo operatore nel settore dei mutui residenziali statunitensi.

Il salvataggio di AIG si rese necessario non solo per la dimensione della compagnia, ma anche perché era controparte di Credit Default Swaps per immensi ammontari e un suo fallimento avrebbe messo in seria difficoltà le maggiori banche globali poste sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, una circostanza che si è resa palese quando sono stati resi noti i nomi delle banche ripagate in fretta e furia nei tre mesi successivi all’intervento pubblico, banche che altrimenti non sarebbero forse fallite ma si sarebbero certamente trovate in serie difficoltà e non avrebbero potuto presentare i bilanci in attivo.

In quelle drammatiche circostanze, a presiedere la AIG venne chiamato da Hank Paulson, allora ministro del Tesoro ed ex numero uno di Goldman Sachs, Edward Liddy, un pensionato ma anche egli proveniente da Goldman, il quale accettò l’incarico dietro il compenso simbolico di un dollaro, ma che si sottopose al sacrificio ben consapevole della posta in gioco

Ma la notizia del giorno è la forte presa di posizione del presidente di un organismo del Congresso, tale Edolphus Towns che, secondo quanto ricostruito da una giornalista del New York Times, avrebbe chiarito agli esponenti di Bank of America che non possono opporre il segreto sulle convulse trattative che precedettero l’acquisizione di Merrill Lynch, quando a richiedere le suddette informazioni è, appunto, il Congresso.

Come i lettori del Diario della crisi finanziaria ricorderanno, il neo confermato presidente del sistema della riserva federale, Bernspan, già si era trovato in serie difficoltà nelle aule parlamentari quando venne senza tanti giri di parole accusato di avere fatto forti pressioni sul numero uno di Bank of America per indurlo a non tergiversare troppo sull’operazione fortemente voluta dalla Fed e dal ministero del Tesoro, pressioni rese note dallo stesso Lewis, che ha anche candidamente ammesso di non avere informato i consiglieri di amministrazione di quanto stava accadendo, in quanto riteneva che, tutto sommato, l’acquisizione di Merrill Lynch fosse un affare.

lunedì 21 settembre 2009

Cosa deciderà il vertice del G20?


Temo proprio che anche stavolta, nonostante sia stato chiamato in causa per oltre due anni, il mai troppo compianto John Maynard Keynes non avrà modo dall’alto dei cieli di vedere la nascita di un ordine economico internazionale meno ingiusto di quello che, nonostante la sua ferma opposizione, nacque nel lontano 1944 a Bretton Woods, la seconda importante conferenza internazionale cui ebbe modo di partecipare, ma che forse lasciò ancora più amareggiato di quanto lo fosse abbandonando i lavori della conferenza di pace di Parigi dopo la fine del sanguinosissimo primo conflitto mondiale.

Certo, quel sistema dollarocentrico ma ancorato a quel relitto barbarico dell’oro era molto più ordinato e regolato di quello esistente nel luglio del 2007, poco prima che prendesse vita la tempesta perfetta, perché nessuno dei partecipanti a quella conferenza avrebbe potuto neanche lontanamente immaginare quella miscela di globalizzazione, finanziarizzazione e deregolamentazione selvaggia che ha fatto seguito alla dichiarazione unilaterale di inconvertibilità del dollaro in oro decisa da Nixon il 15 agosto del 1971.

Nonostante le dichiarazioni di fuoco dei maggiori leaders mondiali, quel sistema regna incontrastato anche oggi, così come si è persa ogni traccia sia della nuova conferenza che avrebbe dovuto disegnare le nuove regole e i nuovi limiti cui sarebbero state soggette le varie entità operanti nel mercato finanziario globale, sia della riforma delle agenzie di rating, per non parlare della tela di Penelope tessuta prima dal Financial Stability Forum e poi dal Financial Stability Group, entrambi presieduti dal Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi.

I venticinque anni di vita della tempesta perfetta sono stati fittissimi di incontri formali e informali tra i leaders del mondo industrializzato, ma nessuna misura concreta ha coronato questi spesso defatiganti incontri, pranzi, cene, con il dovuto corollario di incontri preparatori tra gli sherpa, mentre alcune delle decisioni scaturite sono andate in direzione diametralmente opposta rispetto all’impeto regolatorio dei vari Gordon Brown, Angela Merkel o Nicolas Sarkozy, ufficialmente esterrefatti di fronte ai comportamenti che avevano portato le economie dei loro paesi a un passo dal baratro.

Il rallentamento della caduta del prodotto interno lordo dei principali paesi industrializzati, il rally delle borse dopo i minimi toccati nel mese di marzo dell’anno scorso, la prosecuzione delle politiche più che accomodanti perseguite dalle banche centrali sono tutti elementi che hanno favorito una minore attenzione alla necessità di riforma, anche se vi è la piena consapevolezza che, in assenza di un serio sforzo in tal senso, molto difficilmente tornerà quella fiducia degli investitori indispensabile perché vi possa essere una vera ripresa.

Eppure vi è molta attesa per le decisioni che verranno prese nel corso della settimana che si apre nel vertice del G20 in quel di Pittsburgh, in particolare dopo la durissima requisitoria di Barack Obama sulla scarsa memoria degli uomini della finanza rispetto a quanto è accaduto nei primi venticinque mesi di tempesta perfetta, un atto di accusa veemente, ma che rischia seriamente di restare lettera morta se non riuscirà a convincere gli altri diciannove partecipanti al vertice che è oramai giunta l’ora di varare nuove regole e rafforzare la mission e i poteri degli organismi preposti a vigilare sui mercati finanziari, inclusa la neonata Authority che dovrebbe occuparsi della tutela dei consumatori statunitensi.

venerdì 18 settembre 2009

I mercati non brindano alla ripresa 'drogata'!


Come si è già visto nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria in relazione alla crescita della produzione industriale in agosto, una crescita spinta dal settore automobilistico favorito dalla scadenza a inizio settembre di una particolare forma di incentivazione alle vendita delle auto, anche la crescita delle costruzioni di nuove case, sempre riferita ad agosto, è stata stimolata dal bonus fiscale pari al 10 per cento del prezzo di acquisto, sino a un massimo di 8 mila dollari, una forma di aiuto governativo che ha ridato un po’ di fiato sia alle vendite di case già esistenti che di case di nuova costruzione, ma la cui scadenza è prevista per la fine del mese in corso.

Particolarmente favoriti dal bonus fiscale sono gli acquirenti di case multifamiliari o di appartamenti inseriti in condomini, case dai prezzi molto più abbordabili di quelli relativi alla tipica villetta individuale, una circostanza che spiega in parte il balzo in avanti del 25 per cento riferito a questa tipologia di abitazioni, contro una flessione del 3 per cento per la case unifamiliari, ma quello che più preoccupa è che il dato annualizzato delle nuove costruzioni si ponga ancora a un livello del 74 per cento inferiore rispetto al picco registrato nel 2006.

Ma la preoccupazione maggiore è legata a quello che accadrà alle vendite delle auto e delle case quando gli incentivazioni e le agevolazioni fiscali finiranno, il che è già accaduto per le automobili e accadrà fra pochi giorni per le case, per la semplice ragione che potrebbe verificarsi un rimbalzo negativo in entrambi i settori, in particolare nel settore immobiliare che vede aumentare e non diminuire gli espropri e le vendite all’asta delle case.

D’altra parte, non è pensabile che l’amministrazione Obama possa continuare a stimolare la domanda all’infinito, non fosse altro che per il fatto che non lo permette lo stato delle finanze pubbliche, ma cresce anche un’opposizione alla prosecuzione di politiche che gravano su tutti i contribuenti, inclusi quelli che non vogliono o non possono approfittare delle opportunità offerte, un’opposizione fomentata dai repubblicani che stanno nel frattempo facendo di tutto e di più per bloccare la riforma dell’assistenza sanitaria.

Di tutto questo sembrano rendersi conto anche i mercati azionari che ieri non hanno reagito con entusiasmo a queste notizie di segnali di ripresa alquanto ‘drogati’,mentre gli investitori sono anche condizionati dalla cautissima valutazione fatta ieri da Warren Buffett, una valutazione che, anche se con minore lucidità di quella che caratterizza il Leone di Omaha, sembra essere condivisa da molti investitori individuali che si interrogano sul futuro prossimo venturo, non traendone grandi auspici di ripresa e che considerano quello che di positivo è emerso in queste settimane sia già abbondantemente nei prezzi cui sono giunte le quotazioni delle azioni dopo sei mesi di rally in buona parte basato sulla fiducia.

Il forte monito lanciato dal presidente Obama ai uomini che contano nel mondo della finanza è destinato a restare lettera morta se la sua richiesta di nuove regole e nuovi controlli non sarà recepito nella prossima riunione dei capi di Stato e di governo del G20, un’occasione forse irripetibile per gettare le basi perché non si ripeta quello che è accaduto in questi ultimi due anni, anche perché una prossima tempesta perfetta potrebbe non trovare più quegli argini che sono stati edificati a metà dell’ottobre del 2008, anche perché dovrà trascorrere molto tempo prima che le finanze pubbliche dei maggiori paesi industrializzati tornino a essere in grado di sostenere un simile sforzo.

giovedì 17 settembre 2009

Il leone di Omaha non è entusiasta della fase!


La crescita della produzione industriale in agosto e un ritorno a valori positivi per il Consumer Price Index starebbero a indicare che la recessione sarebbe finita nel mese di luglio, ma si tratta di una lettura perlomeno frettolosa e che non tiene conto del programma di incentivi per l’auto che è scaduto a dicembre e della ripresa dei prezzi del petrolio, non a caso a trainare la crescita della produzione è stato proprio il settore automobilistico con un +5,5 per cento, mentre il dato complessivo si è fermato a +0,8 per cento.

Si tratta comunque di due informazioni positive e che come tali sono state salutate dal mercato azionario che potrebbe archiviare la settima seduta positiva su otto sedute consecutive, una serie di tutto rispetto, ma che ancora manca di quella convinzione che si è vista tra la metà di marzo e la metà di giugno.

Certo è che martedì la dichiarazione di Bernspan sulla fine della recessione non ha entusiasmato Wall Street, anche perché la sua parte ancora legata al docente di Princeton, Benjamin Bernanke, ha condito l’affermazione di tanti e tali paletti che era davvero difficile per gli investitori scatenarsi in un’ondata di acquisti, in particolare gli investitori individuali che sembra proprio stiano ancora chiedendosi quanto sia sostenibile la strada compiuta dai tre principali indici azionari statunitensi in questi ultimi sei mesi.

Nel frattempo, i magazzini hanno continuato a ridurre le scorte a tutti i livelli, aziende, grossisti e dettaglianti per il dodicesimo mese, un segnale su cui ci si sta interrogando, anche alla luce del fatto che le vendite sono state caratterizzate dal segno più per il secondo mese consecutivo, ma è abbastanza chiaro che il fenomeno è destinato a ripetersi almeno sino a quando non vi saranno indizi più concreti di quella ripresa dei consumi che ancora tarda a manifestarsi a onta dei peana degli ottimisti a ogni costo.

Non passa giorno senza che il dollaro continui a indebolirsi sia nei confronti dell’euro che dello yen giapponese, uno squagliamento graduale e che ieri ha reso necessari oltre 1,47 dollari per un euro, mentre è ancora intatta la soglia psicologica posta a 90 yen e la sterlina continua nel suo processo di rafforzamento.

Mi ha colpito un titolo che riporta una lunga intervista fatta a Warren Buffett, il mitico leone di Omaha, sull’attuale fase della tempesta perfetta, in quanto il grande finanziere ha detto che l’economia non va peggio, ma non va neanche tanto meglio, anzi, a suo dire, stiamo ancora scendendo, una valutazione che è molto in linea con quella di Nouriel Roubini e di altri economisti non embedded che vedono il rischio concreto di una lunga fase di modesti alti e bassi prima che, salvo tutt’altro che esclusi incidenti di percorso, si possa percorrere verso l’alto l’asta della U scelta come indicativa della recessione in corso, in luogo della V cara a tutti quanti gridano alla ripresa da lunga pezza.

Mentre è stato molto esplicito su svariati argomenti, Buffett è apparso alquanto reticente quando la cronista gli ha chiesto se, a partire dalle difficoltà delle banche a stelle e strisce in relazione all’elevatissimo livello di insolvenze sulle carte di credito e i mutui sia residenziali che commerciali, sia possibile un secondo tempo della fase recessiva, ma era difficile aspettarsi che un uomo prudente come lui fosse più esplicito!

mercoledì 16 settembre 2009

Geithner mette in vendita un terzo di Citi!


Secondo anticipazioni dell’agenzia di stampa economica Bloomberg, Timothy Geithner starebbe seriamente pensando di mettere in vendita il pacchetto di azioni detenuto dal Tesoro a seguito della trasformazione in azioni ordinarie dei titoli acquisiti ai tempi del salvataggio del colosso creditizio statunitense, un pacchetto da 7,7 miliardi di azioni, pari al 33,6 per cento del totale, una vendita che inizierà a ottobre e durerà tra i sei e gli otto mesi.

L’operazione, almeno agli attuali prezzi di mercato, porterebbe un utile per il Tesoro pari al 40 per cento della somma investita, anche se difficilmente un’offerta così massiccia di azioni non avrà riflessi depressivi sulle quotazioni del titolo, effetti che potrebbero però essere controbilanciati dal fatto che l’uscita dell’azionista pubblico potrebbe essere letto come una sorta di segnale che, dopo aver spesato perdite e svalutazioni per 100 miliardi di dollari, le prospettive della banca sono migliori rispetto a qualche mese fa.

Il salvataggio di Citigroup non è costato solo i 45 miliardi di dollari erogati in due riprese dal TARP, ma, in perfetta analogia con quanto è accaduto per altre grandi banche, il sistema della riserva federale ha provveduto a farsi carico di centinaia di miliardi di dollari di titoli più o meno tossici della finanza strutturata, un particolare tutt’altro che secondario e che certamente non sarà sottolineato negli articoli che la stampa statunitense e quella mondiale dedicheranno a questa importante svolta nella tempesta perfetta.

Le speranze di poter vendere un ammontare così rilevante di azioni vengono alimentate dalla recente buona accoglienza ricevuta da un offerta di vendita del 9 per cento del colosso svizzero UBS da parte di un fondo di investimento, un pacchetto azionario che è stato facilmente collocato, una maxi vendita che non ha impedito all’azione di apprezzarsi del 12 per cento dalla data dell’operazione.

Quello che è certo è che non era possibile procrastinare la presenza diretta dello Stato in Citi, una presenza che suona come una bestemmia per il sistema economico a stelle e strisce, un sistema basato, almeno quando le cose vanno bene, sul predominio del mercato nelle vicende economiche, vicende sulle quali è lasciato al potere politico e alle Authorities soltanto un ruolo di regolazione e di controllo che, come le vicende di questi ultimi due anni hanno dimostrato, non deve essere stato molto efficiente ed efficace.

Passi per la presenza dello Stato nel settore automobilistico, ma il possesso di rilevanti pacchetti azionari delle banche rappresentava davvero una contraddizione in termini e comportava rischi che la nuova amministrazione americana non ha davvero nessuna voglia di correre, così come ha scartato ogni ipotesi di nazionalizzazione anche temporanea delle principali banche, cosa che sarebbe stata del tutto logica alla luce degli ingenti interventi di sostegno fatti a spese dei contribuenti, considerazioni che, tuttavia, non state applicate nel caso di Fannie Mae e Freddie Mac, così come in quello di AIG

Dopo i fulmini e le saette di Obama su Wall Street, ieri è stata la volta di Bernspan che ha ripetuto per l’ennesima volta che il peggio della recessione è passato, anche se, secondo il neoconfermato numero uno della Fed, non vi sono molte speranze di riassorbire la disoccupazione e il credit crunch non promette nulla di buono.

martedì 15 settembre 2009

Obama fa la voce grossa con i banchieri!


Un passo dopo l’altro, il dollaro si sta portando a un cambio di 1,46 contro l’euro, mentre sembra testare verso il basso la soglia psicologica dei 90 yen, un percorso tutto sommato prevedibile e che sconta le brutte previsioni sul deficit e il debito pubblico a stelle e strisce, uno scivolamento progressivo che stavolta non manda verso l’alto il prezzo del petrolio, mentre quello del gas naturale, chissà perché, fa un balzo in avanti del 12 per cento.

Come avevo anticipato ieri, il presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, si è recato a Wall Street per dare un warning ai protagonisti della finanza statunitense, costola fondamentale di quella mondiale, e ha scelto di farlo a un anno esatto dal fallimento di Lehman Brothers, l’evento che verrà certamente ricordato anche in futuro e che ha condotto il mercato finanziario globale a un passo dal baratro.

Pur essendo un avvocato, Obama è uno che si informa e ha capito benissimo che è ripreso alla grande l’andazzo delle scommesse su tutto quello che è trattato sui mercati, non importa che siano azioni, obbligazioni, valute convertibili, commodities o quant’altro, un gioco pericoloso che ha già portato il mondo in una recessione come non si vedeva dagli anni Trenta e che non è ancora giunta al termine dopo venticinque mesi devastanti di tempesta perfetta.

Il presidente ha usato parole davvero dure contro i colossi del credito e della finanza, affermando non solo che “non torneremo indietro ai giorni dei comportamenti spregiudicati e agli eccessi non controllati che sono al centro di questa crisi, dove in troppi erano motivati soltantoi dai successi rapidi e dai bonus esagerati”, ma anche che “invece di imparare dalle lezioni di Lehman e della crisi dalla quale stiamo ancora cercando di uscire, essi stanno cercando di ignorarle”.

Rivolgendosi più che agli uomini di Wall Street che aveva davanti, Obama ha di fatto parlato al cuore delle donne e degli uomini delle tante Main Street presenti in ogni cittadina americana, facendo capire che le regole e le istituzioni che vuole creare per farle rispettare non sono propaganda, ma sono davvero necessarie per evitare che gli errori dettati dall’azzardo e dall’avidità ricadano sulla gente comune.

Non a caso il giovane presidente si è rivolto anche a quei congressisti che credono di poter insabbiare le misure mediante le quali lui e il suo coetaneo ministro del Tesoro, Timothy Geithner, stanno cercando di costringere le banche a seguire regole maggiormente prudenziali, un tema sul quale le resistenze rischiano di essere, se possibile, maggiori di quelle che la nuova amministrazione sta incontrando sulla riforma sanitaria.

Ma Obama non aveva ancora finito di parlare che un fuoco di sbarramento è venuto anche da esponenti del sistema delle riserva federale e della Securities & Exchange Commission, che ribadiscono con forza che qualsiasi innovazione deve essere coordinata a livello globale, anche perché già oggi esistono rilevanti differenze sul piano della rappresentazione in bilancio dei titoli da parte delle banche statunitensi rispetto a quello che è previsto per le banche europee, posizioni che rinviano la palla al prossimo vertice di Pittsburgh dei capi di Stato e di governo del G20 e che rendono molto poco probabile che si inizi finalmente a passare dalle parole ai fatti, il che fa pensare che aveva davvero ragione quel famoso avvocato di affari statunitense che ha preconizzato che il mercato finanziario del futuro sarà molto simile a quello che abbiamo conosciuto in passato!

lunedì 14 settembre 2009

Obama parla della tempesta perfetta!


Quando in Italia sarà sera, il presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, terrà un discorso sulla crisi finanziaria a un anno esatto dal fallimento di Lehman Brothers, l’unica delle grandi banche statunitensi per le quali il trio Bush-Paulson-Bernspan non volle trovare una soluzione in termini di salvataggio, una decisione che vide un ruolo determinante dell’allora ministro del Tesoro e che non è mai stata spiegata realmente, pur non sfuggendo a nessuno dei protagonisti i rischi eccezionali cui andava incontro il mercato finanziario globale, rischi che sembrarono concretizzarsi nei primi giorni di ottobre sotto la forma di un imminente default sistemico che fu evitato solo grazie alle misure eccezionali adottate dal G20 di metà ottobre e dallo sforzo eccezionale congiunto delle principali banche centrali.

Obama avrà buon gioco nel dire che la situazione attuale, pur ancora difficilissima e gravida di incognite, si presenta ben diversa da quella vissuta nello stesso mese dell’anno precedente, anche se è ancora molto presto per capire quale saranno gli effetti nel medio periodo di quegli interventi eccezionali, mentre è certo che l’impegno a intervenire sulle cause della tempesta perfetta non ha prodotto, almeno sinora, risultati apprezzabili, né credo che qualcosa cambierà con il prossimo summit del G20 a Pittsburgh.

Dopo oltre 700 puntate del Diario della crisi finanziaria, il rischio di ripetere concetti già espressi è molto elevato, ma credo che sia bene riflettere sul fatto che l’incapacità di realizzare un nuovo sistema di regole e di controlli rappresenti di per sé un ostacolo rilevantissimo sulla strada di un ritorno di quella fiducia degli investitori che è l’elemento essenziale che potrebbe consentire un nuovo inizio per la finanza mondiale, ma di tutto questo non vi è traccia, anzi è possibile dire che, spinti dall’emergenza, si sono determinate condizioni di minore trasparenza sul vero stato di salute delle istituzioni finanziarie, in particolare di quelle maggiormente esposte sui titoli più o meno tossici della finanza strutturata.

Spostandosi dalla visuale dell’inquilino della Casa Bianca a quella del cittadino comune, le cose appaiono molto diverse e le difficoltà, invece di diminuire, appaiono considerevolmente aumentate, sia in termini di possibilità di accedere al credito, sia sotto il profilo della capacità di sostenere il servizio del debito, difficoltà che sono alla base della costante erosione mensile del credito al consumo, vero motore in passato della crescita statunitense e volano della stessa crescita a livello mondiale, una contrazione che è sia il frutto di un diverso e più responsabile comportamento dei consumatori americani che di una restrizione palese dell’offerta di credito da parte delle banche operanti negli USA.

I primi venticinque mesi della tempesta perfetta hanno, peraltro, indotto un fortissimo processo di concentrazione nel settore creditizio a stelle e strisce, basti pensare che, come sottolineava un servizio dell’Associated Press diffuso nel fine settimana le tre banche statunitensi che si sono fatte carico di Bear Stearns, Merrill Lynch, Countrywide, Wachovia Bank e Washington Mutual sono giunte a concentrare su sé stesse 2.300 miliardi di dollari di depositi, ovvero il 30 per cento dei depositi bancari americani, mentre ne rappresentavano soltanto il 20 per cento tre anni fa, una situazione che rappresenta per le soccorritrici J.P. Morgan-Chase, Bank of America e Wells Fargo una valida polizza di assicurazione, in quanto sono davvero diventate too big to fail, una condizione nella quale già si trovano, per motivi diversi, Citigroup, e la potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs.

sabato 12 settembre 2009

I grossisti USA non credono nella ripresa!


Dopo cinque sedute consecutive al rialzo, i mercati azionari statunitensi sembrano orientati a prendere respiro e l’ultima seduta della settimana è sempre un ottimo momento per prendere i profitti realizzati e rinviare tutto a lunedì, un momento di pausa che contagia anche i mercati valutari, con il dollaro fermo a poco meno di 1,46 contro l’euro, le commodities in generale e il petrolio in particolare, per finire con una flessione del prezzo dell’oro, apparentemente pago di aver superato la soglia psicologica dei mille dollari per oncia.

In questo scenario alquanto sonnolento, spicca l’ostinazione dei grossisti statunitensi che si producono nell’undicesimo calo consecutivo delle scorte nei loro depositi, una flessione dell’1,4 per cento in luglio, ma che viene dopo una revisione al rialzo di quella del mese precedente, passata dal -1,7 della prima lettura a -2,1 per cento, il tutto a dispetto del quarto rialzo consecutivo delle vendite ai dettaglianti, anche se in luglio si è registrato un modesto +0,5 per cento dopo il rotondo 2 per cento di giugno.

Insomma, questa importantissima categoria di intermediari - si calcola che presso di loro giacciano un quarto delle scorte complessive - non sembra proprio credere ai proclami quotidiani sulla ripresa sempre dietro l’angolo e vogliono vedere qualcosa di davvero concreto prima di riprendere i loro ordini alle industrie, uno scetticismo che li arruola di fatto tra i sostenitori della tesi che tra la prima e l’ultima asta della U vi possa essere un lungo tratto più o meno orizzontale, se non qualche sorpresa sgradita, anche questa dietro l’angolo!

Dovunque abbiano i loro depositi, è davvero per i grossisti non vedere l’infittirsi dei cartelli che indicano la vendita, più o meno coatta, delle case, né ignorare che l’esercito dei senza lavoro continua a ingrossarsi ogni mese che passa, tutte persone che in passato sembravano non essere mai sazi di visitare i mall o i negozi sparsi, sempre pronti a fare zip zip con le loro carte di credito revolving, mentre da almeno un anno a questa parte sembrano diventati attentissimi e risparmiasi al massimo, una mutazione genetica che sta avvenendo anche in chi non ha, per sua fortuna, perso né la casa né il lavoro, ma ha capito che le certezze di un tempo non abitano più nella grande nazione a stelle e strisce.

Che non si tratti di un segnale da sottovalutare è più che evidente, anche perché vi è una profonda differenza tra un grossista e un produttore di beni, in quanto il secondo è quasi costretto a credere in un futuro migliore e ha come sua bandiera “chi si ferma è perduto”, un modo di vedere che è proprio anche dei dettaglianti, siano essi titolari di singoli negozi o di grandi catene, che non a caso si stanno esercitando nella perenne stagione dei saldi, ipersaldi, pubblicizzazione di orari impossibili nei quali si sconta ancora di più e via discorrendo, un modo di vedere che non contagia il grossista, una figura per la quale la peggiore sciagura consisterebbe proprio nel fare il passo più lungo della gamba e trovarsi i magazzini piene di merci che non escono alla stessa velocità in cui entrano.

Si è molto discusso in questi ultimi venticinque mesi su quale indicatore tenere sotto controllo per avere un segnale della ripresa, segnale che alcuni vedono nel mercato del lavoro, in particolare per l’indicatore che misura le nuove richieste di sussidi di disoccupazione, altri tengono sotto occhio il mercato immobiliare o le vendite al dettaglio, mentre io, pur non sottovalutando gli altri indicatori, preferisco tenere sotto stretta sorveglianza proprio il comportamento dei grossisti!

venerdì 11 settembre 2009

Finisce la garanzia ai fondi pensione USA!


Spinti da un calo dei jobless claims settimanali da 570 a ‘soli’ 550 mila e da un buon outlook di Procter & Gamble, i tre principali indici azionari hanno registrato una seduta positiva, con rialzi intorno al punto percentuale, mentre il dollaro continua a occhieggiare la soglia di 1,46 contro l’euro, ma la notizia del giorno è che l’amministrazione Obama farà scadere il prossimo 18 settembre la garanzia prestata in favore dei fondi pensione, organismi caratterizzati da assets per 3 mila miliardi di dollari, una garanzia necessaria dopo che uno di queste entità aveva segnalato che le quote erano andate sotto l’unità a causa di un perdita da poco meno di un miliardo di dollari legata al fallimento di Lehman Brothers, un evento che aveva fatto correre un brivido per la schiena dei tanti che basano buona parte della loro pensione a queste entità e che aveva costretto la precedente amministrazione a intervenire per non minare anche un altro pilastro del sistema, dopo i tracolli nel mercato immobiliare e in quelli finanziario, per non parlare del tema scottante della disoccupazione, sia di quella ufficiale oramai giunta al 9,7 per cento, sia di quella reale che tocca livelli non lontani dai 30 milioni di persone in carne e ossa.

Si tratta comunque della quinta seduta consecutiva a Wall Street, una serie positiva innescata proprio dal mantenimento del mix di misure eccezionali che hanno evitato il tracollo dei mercati finanziari deciso a Londra e che sarà certamente confermato dal prossimo vertice dei capi di Stato e di Governo che si terrà prossimamente negli Stati Uniti d’America in quel di Pittsburgh in Pennsylvania.

Ovviamente, tale intervento straordinario non rientrava tra quelli che i ministri economici e i governatori delle banche centrali del G20 si erano impegnati a mantenere almeno sino a che la ripresa non fosse divenuta autosufficiente, cosa che, almeno al momento, evidentemente non è, una eccezione al principio di non staccare la spina legata al fatto che si tratta di una situazione limitata agli Stati Uniti d’America.

Come ricorderanno i più attenti tra i lettori del Diario della crisi finanziaria, le previsioni di perdite formulate dal Fondo Monetario Internazionale collegate alla tempesta perfetta da ieri entrata nel suo ventiseiesimo mese di vita vedono negli investitori finanziari quali i fondi pensione e i fondi di investimento i soggetti maggiormente colpiti, ancor più delle stesse banche, perdite che, peraltro, non sono ancora emerse in pieno.

Oggi ricorre l’anniversario del primo attacco straniero portato sul suolo americano, un azione messa in atto da quattro gruppi di dirottatori aerei legati ad Al Qaeda, l’organizzazione integralista islamica guidata da Osama Bin Laden, un personaggio che un tempo era alleato degli Stati Uniti d’America nella guerra contro i russi in Afganisthan, ma poi è ne divenuto acerrimo nemico, un avvenimento tragico che ha provocato non solo migliaia di vittime, ma ha anche innescato una reazione statunitense che si è concretizzata in due conflitti ancora irrisolti prima in Afganisthan e poi in Iraq.

Anche se non si più ripetuta un’azione offensiva sul suolo americano, i fatti dell’11 settembre resteranno nell’immaginario collettivo con le immagini in diretta della distruzione delle Torri Gemelle di New York, in una delle quali aveva la sua sede quella Lehman Brothers che sopravvisse a quei tragici eventi, ma che è stata poi spazzata letteralmente via da uno dei più alti marosi della tempesta perfetta.

giovedì 10 settembre 2009

Il vice di Geithner prevede milioni di pignoramenti di case!


Sarà una favorevole congiunzione astrale o più semplicemente un ritorno al sano buon senso, ma fa comunque davvero piacere ascoltare dalla viva voce di un vice ministro del Tesoro a stelle e strisce che “la recente crisi del mercato immobiliare ha devastato famiglie e comunità in tutto il paese ed è al centro della nostra crisi finanziaria e della recessione economica”, parole che Michael Barr, il vice di Timothy Geithner con delega sulle istituzioni finanziarie ha pronunciato in un accorato intervento al sottocomitato sui servizi finanziari della Camera dei Rappresentanti nel quale ha fornito delucidazioni sul numero dei mutuatari che ha potuto usufruire della rinegoziazione del proprio debito nell’ambito del Home Affordable Modification Program, un’iniziativa governativa volta a scongiurare un’ulteriore alluvione di procedure di foreclosure con il loro triste corollario di vendite all’asta delle case pignorate.

Purtroppo i numeri non sono esaltanti, in quanto non più del 12 per cento degli aventi diritto al programma ha ottenuto di poter rinegoziare le clausole del proprio mutuo, una percentuale che corrisponde a 360.165 mutuatari che, entro la fine di agosto, hanno potuto tirare un sospiro di sollievo e non vivere più nell’incubo di dovere lasciare quella casa che spesso rappresentava il frutto del lavoro di una vita intera, un numero che dovrebbe raggiungere le 500 mila unità in novembre, mentre era poco al di sopra dei 200 mila a fine luglio.

Il problema è che, nel corso della stessa audizione, Barr ha dovuto ammettere che sono previste milioni di nuove procedure di foreclosure e questo anche nell’ipotesi che l’HAMP si riveli un grande successo, il che è poco probabile, alla luce del fatto che una parte delle 47 entità creditizie che hanno aderito al programma hanno soddisfatto solo il 5 per cento degli aventi diritto, mentre alcune non ne hanno rinegoziato nessuno, una scarsa reattività che si aggiunge al fatto che i potenziali beneficiari della procedura di rinegoziazione sono a loro volta solo una parte dei debitori in ritardo con i pagamenti delle rate del mutuo, in quanto sono esclusi tutti coloro che non godono di ben precisati requisiti di solvibilità e di un adeguato score creditizio.

Con un’ulteriore sforzo di trasparenza, Barr ha anche affermato che, secondo gli analisti specializzati nel settore immobiliare, i mutuatari a rischio di perdere la casa sarebbero 6 milioni nei prossimi tre anni e che la non soluzione del problema pone una seria ipoteca a qualsivoglia possibilità di ripresa sostenibile dell’economia statunitense, affermazioni che dovrebbero fare riflettere gli ottimisti a ogni costo, così come sarebbe giusto interrogarsi sui motivi per i quali sia l’amministrazione Bush che quella attualmente in carica non abbiano deciso di concentrare su questo programma così sentito una ben maggiore quantità di risorse, né abbiano sentito l’esigenza di collegare in modo stringente i 700 miliardi del TARP a un maggiore impegno delle banche nella rinegoziazione dei mutui!

In un simile scenario, non dovrebbe destare stupore il fortissimo calo del credito al consumo, che, secondo gli ultimi dati diffusi dal sistema della riserva federale, sarebbe diminuito in agosto di oltre 21,6 miliardi di dollari, dopo aver registrato un calo di 15,5 miliardi nel mese precedente, una flessione, quella di luglio, pari a un -10 per cento su base annualizzata, inferiore solo a quella registrata nel lontano 1975, anche se l’outstanding complessivo delle varie forme di finanziamento continua a sfiorare i 2.500 miliardi di dollari, ma è evidente l’impatto di questa oramai costante riduzione dell’indebitamento sulle possibilità di crescita di un’economia, quale quella statunitense, nella quale i consumi pesano per il 70 per cento.

mercoledì 9 settembre 2009

L'inesorabile declino del biglietto verde!


Era davvero tanto tempo che il dollaro non scivolava nei confronti dell’euro come è accaduto ieri, una flessione che ha reso necessari 1,45 dollari per ottenere un euro e che ha consentito all’oro di passare la barriera dei 1.000 dollari e al petrolio di riportarsi al di sopra dei 70 dollari al barile, tutte variazioni che è difficile non collegare alla recente dichiarazione dei ministri economici e dei banchieri centrali del G20 sulla assoluta inopportunità di invertire la rotta rispetto ai piani di stimolo delle economie dei rispettivi paesi, così come sembra molto di là da venire la politica dei tassi ai minimi storici e le maxi iniezioni di liquidità in favore del sistema bancario.

E’ del tutto evidente l’implicazione di tale decisione, che certamente verrà avallata dal prossimo summit dei capi di Stato e di governo del G20 che si svolgerà negli USA, sul valore esterno della valuta statunitense, un valore che non potrà non essere fortemente influenzato da un deficit pubblico per l’anno fiscale in corso pari o superiore ai 2 mila miliardi di dollari e da un debito pubblico che rischia di superare, in un breve volgere di tempo, lo stesso prodotto interno lordo a stelle e strisce, una spirale micidiale che non potrà non influenzare pesantemente anche il 2010 e il 2011, cosa della quale non possono non tenere conto i detentori esteri di dollari e di titoli denominati in tale valuta che continua a fare la parte del leone nelle riserve valutarie mondiali.
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Certo, siamo ancora lontani dai minimi toccati nella prima fase della tempesta perfetta, quando il per un euro occorrevano 160 dollari e bastavano appena 85 yen per ottenere un dollaro, ma la strada di un declino ulteriore della valuta statunitense appare chiaramente segnata e non è chiaro per quanto tempo continuerà quel sostegno internazionale da parte dei paesi che hanno tutto da perdere da un avvitamento del biglietto verde.

Nel frattempo, le quindici più importanti banche del pianeta hanno sottoscritto una missiva nella quale si impegnano a utilizzare in modo preponderante la Federal Reserve di New York quale clearing house per l’operatività in derivati, una misura, sostengono le banche, che potrebbe consentire di ridurre i rischi sistemici in un mercato che viene stimato intorno ai 600 mila miliardi di dollari, una parte dei quali è rappresentata da quella sorta di arma di distruzione di ricchezza denominata Credit Default Swap.

La mossa delle banche tende a evitare i rischi di una regolamentazione eccessivamente stringente cui stanno lavorando congiuntamente la Securities & Exchange Commission e la Commodity Futures Trading Commission, un’eventualità tutt’altro che remota in particolare con riferimento all’operatività sui derivati relativi alle materie prime in generale e al petrolio in particolare, un mercato che, come è noto, non è soggetto alla stessa regolamentazione esistente per quello nel quale si scommette sui prodotti agricoli.

Quello della riforma del mercato dei derivati rappresenta un importantissimo banco di prova della volontà dei governi e delle diverse Authorities dei paesi maggiormente industrializzati, Stability Forum Group ovviamente incluso, di stabilire regole che impediscano una ripetizione di fenomeni quali la tempesta perfetta oramai entrata nel ventiseiesimo mese di vita, un impegno solenne preso di fronte all’opinione pubblica mondiale e che sembrava cosa fatta nei discorsi che Bernspan, Paulson e l’italiano Draghi tennero nell’oramai celebre cena a porte rigorosamente chiuse cui vennero invitati, in margine delle assemblee del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale svoltesi nell’aprile del 2008, il gotha della finanza internazionale!

martedì 8 settembre 2009

I 'dottori' del G20 decidono di non staccare la spina!


A mercati statunitensi fermi, l’Asia e l’Europa hanno salutato con buoni rialzi la saggia decisione dei ministri economici e dei banchieri centrali del G20, riuniti a Londra in preparazione del summit dei capi di Stato e di governo del G20 che si terrà a Pittsburg, di dichiarare del tutto prematuro il ritiro dei piani di stimolo delle economie dei paesi più industrializzati del pianeta, una scelta che la dice lunga sul reale stato della congiuntura sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, non più in caduta rovinosa, ma, fatte poche eccezioni, ancora neppure in grado di porsi sul tratto orizzontale che unisce le due parti verticali di quella lettera U che, almeno secondo Nouriel Roubini e importantissimi gestori dei più grandi fondi globali, dovrebbe rappresentare al meglio l’evoluzione della tempesta perfetta, in luogo della V tanto cara agli ottimisti a ogni costo.

In realtà, i ministri e i banchieri centrali hanno detto, e neanche troppo tra le righe, che le economie dei rispettivi paesi assomigliano a un malato che non potrebbe sopravvivere senza le terapie cui viene sottoposto nella speranza di tenerlo in vita, il che vuol dire che, senza gli stimoli, i tassi di interesse a livelli minimi e le iniezioni di liquidità, le cose nel secondo trimestre dell’anno in corso sarebbero andate molto, ma molto peggio, ipotecando così anche i trimestri a venire, un’analisi molto condivisibile e che chiarisce fuori da ogni dubbio perché quello attuale viene definito il rally dell’orso, una corsa verso l’alto dei listini che ha anticipato molto di più di quello che le performance aziendali avrebbero giustificato.

Non a caso, i commenti a caldo alla decisione sono incentrati sul fatto che sarà molto difficile, d’ora in avanti, assistere a rialzi davvero significativi, almeno sino a che non saranno sotto gli occhi di tutti segnali davvero inequivocabili di ripresa, un’ipotesi che sembra molto difficile possa concretizzarsi a breve, almeno non sino a quando la domanda effettiva continuerà a languire e l’offerta di credito continuerà a restringersi.

Questo spiega anche la ripresa della polemica al calor bianco tra i responsabili dei dicasteri dell’economia nei confronti dei banchieri, rei di non fare la loro parte in questa situazione di assoluta emergenza, una polemica non solo limitata al per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, ma messa nero su bianco in una lettera sottoscritta da Giulio e un discreto numero di suoi colleghi, letteralmente infuriati per la titubanza dei banchieri a rischiare, ma, e forse soprattutto, a utilizzare a sostegno di famiglie e imprese quel mare di liquidità messa a loro disposizione dalle autorità monetarie!

Come ricorderanno i più attenti tra i lettori del Diario della crisi finanziaria, la questione non è tanto legata alla entità delle risorse in campo, certamente multiple di quelle utilizzate dopo la crisi del 1929, quanto al fatto che queste ingentissime risorse non sono state condizionate in termini stringenti, né vi è stato uno sforzo significativo volto a rinegoziare prestiti e mutui, mentre si è giunti all’assurdo di procedure esecutive nei confronti dei debitori morosi addirittura più costose di quanto si riesce a recuperare escutendo le garanzie.

Mentre è vero, come ricordavo nella puntata di ieri, che non vi è paragone tra l’attuale fase del la tempesta perfetta e quella vissuta dodici mesi orsono o nel marzo di quest’anno, ma il problema, come ben ha ricordato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è rappresentato dai contraccolpi derivanti dalle decine di milioni di disoccupati in più a livello mondiale e dallo stillicidio di chiusure di imprese di ogni settore.

lunedì 7 settembre 2009

Come fu sventato l'Armageddon della finanza!


Il lungo week end dedicato alla festa del lavoro negli Stati Uniti d’America, con la chiusura odierna dei mercati a stelle e strisce, cade esattamente a un anno di distanza dall’inizio delle cinque settimane che videro la seria possibilità di un default sistemico nel mercato finanziario globale, una eventualità sventata solo attraverso una sorta di mutazione genetica della filosofia neoliberista sopravvissuta, anche se alquanto ammaccata, al primo anno di vita della tempesta perfetta, una svolta di 180 gradi rispetto agli assiomi che vedevano sempre più mercato e sempre meno Stato, seguendo i quali avremmo assistito a quella sorta di Armageddon della finanza presente negli incubi del trio Bush-Paulson-Bernspan, uno scenario sventato solo dall’adozione di misure che non avevano precedenti nella storia del capitalismo finanziario.

Tutto ebbe inizio nel week end di inizio settembre 2008 che vide la nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac, le due istituzioni cui fa capo poco meno dell’immenso mercato del morgane immobiliare statunitense, qualcosa come 11 mila miliardi di dollari, una decisione che rendeva effettiva la responsabilità pubblica per l’enorme massa di titoli emessi dalle due entità, denominati GSE, portando lo stock effettivo del debito pubblico a stelle e strisce a superare il prodotto interno lordo, anche se, ovviamente, si tratta di un rischio potenziale che non è stato contabilizzato, ma che è ben presente a coloro che detengono, in patria e all’estero, titoli rappresentativi del debito statunitense.

Come ricorda efficacemente un lungo articolo dell’Associated Press apparso nel fine settimana e dedicato proprio a quelle cinque terribili settimane, il Dow Jones era allora a 11.200 punti e il mercato, inconsapevole di quanto sarebbe avvenuto successivamente, brindò alla decisione governativa riportandosi in poche sedute alla soglia degli 11.500 punti, un sollievo destinato a durare lo spazio di un mattino perché fu subito chiaro che ulteriori e più gravi decisioni sarebbero state necessarie, anche se era davvero difficile avere un’idea chiara che le stesse sarebbero state prese a distanza di un solo week end, con il fallimento di Lehman Brothers, la nazionalizzazione del colosso assicurativo AIG e l’accollamento dei guai di Merrill Lynch a Bank of America, un passaggio attraverso forti pressioni del sistema della riserva federale e del Tesoro sul numero uno di BofA e sulle quali ha indagato a lungo il Congresso, ma che non hanno impedito a Obama di rinnovare il mandato di Bernspan.

Con il ricorso di Lehman Brothers alla protezione offerta dalle legge fallimentare statunitense, un trauma amplificato dalle immagini televisive dei dipendenti della investment bank che lasciano la sede con i propri scatoloni, si apre davvero quella fase nella quale nessuno poteva essere sicuro della solidità dei propri investimenti, una situazione ben rappresentata dalla riduzione a sole due delle Big Five dell’investment banking, oramai ridotte alla potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs e a Morgan Stanley, mentre due delle grandi banche universali, Bank of America e J.P. Morgan-Chase erano state già chiamate a occuparsi di altre entità finanziarie, la prima di Countrywide e Washington Mutual, mentre la seconda si era fatta carico della prima vittima della tempesta perfetta, Bears Stearns,.

Wells Fargo e Citigroup, invece, sarebbero giunte pochi giorni dopo a un passo dalle vie legali per disputarsi l’onere o l’onore di occuparsi, oltre che dei propri, anche dei guai della quarta banca statunitense, Wachovia Bank, che sarebbe poi stata assegnata a Wells Fargo, una banca molto meno coinvolta di Citi nel marasma della finanza strutturata.

sabato 5 settembre 2009

Le cautele di Trichet e Roubini!


Il Non Farm Payrolls di agosto segnala un rallentamento della emorragia di posti di lavoro negli Stati Uniti d’America, con una perdita di ‘solo’ 216 mila buste paga, mentre il tasso di disoccupazione, dopo l’alquanto illusoria mini flessione di luglio, si porta al massimo degli ultimi 26 anni, toccando il 9,7 per cento, anche per il ritorno sul mercato del lavoro di alcuni di coloro che se ne erano allontanati per scoraggiamento, mentre colpisce che, con quelli di agosto, il numero degli occupati dell’industria a stelle e strisce ad avere perso il lavoro da gennaio ha toccato la soglia di 2 milioni.

Trattandosi della terza puntata consecutiva del Diario della crisi finanziaria avente a oggetto la questione dell’occupazione, eviterò di ripetere i ragionamenti fatti nelle due puntate precedenti, ma mi preme sottolineare come anche questa coppia di dati rilasciati ieri confermi la prosecuzione della distruzione di ricchezza e l’erosione dei fattori della produzione in corso dalla fine del 2007, un fenomeno che si accompagna al meltdown immobiliare e a quello dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata.

Il ragionamento più corretto sui dati relativi all’occupazione sembrano averlo fatto gli operatori del mercato del petrolio, che continua a oscillare di poco intorno alla soglia dei 68 dollari al barile, non fosse altro che continua a aumentare il numero di cittadini americani che utilizzeranno meno l’automobile per recarsi al lavoro!

Sempre ieri vi sono stati due interventi che meritano di essere segnalati, anche se, con riferimento ai dichiaranti, è davvero difficile immaginare due persone più diverse tra loro come il presidente della Banca Centrale Europea, Jean Claude Trichet, e il Dr. Doom, alias Nouriel Roubini, eppure, almeno ieri, le cose che hanno detto non sono poi così diverse, in quanto entrambi hanno segnalato il possibile raggiungimento di un punto di minimo nella flessione dell’economia dei paesi maggiormente industrializzati, ma entrambi hanno anche segnalato una serie di problemi per l’immediato avvenire.

Per quanto riguarda il germanizzato Trichet, non stupisce che, a differenza di Bernspan e altri banchieri centrali, ponga molta attenzione ai rischi che ancora sono presenti dopo il rallentamento della caduta verticale del prodotto interno lordo intervenuta a cavallo della fine dello scorso anno, questioni che attengono sia alla tenuta degli intermediari creditizi, sia al problema della disoccupazione, preoccupazioni che gli fanno ritenere del tutto prematuro parlare delle misure necessarie a riassorbire la liquidità in eccesso iniettata dalla stessa BCE in questi due anni, ovviamente aggiungendo che, quando sarà giunto il momento, tutto verrà fatto prontamente e, aggiungo io, con la teutonica efficienza dell’istituzione che si pone come l’erede della Buba.

Più interessanti i ragionamenti di Roubini, non fosse altro perché si tratta dell’unico economista accreditato di avere previsto la crisi finanziaria e che la stessa era in realtà una tempesta perfetta, in quanto, oltre a prevedere due-tre anni di percorso sostanzialmente flat dell’economia sia statunitense che globale prima che sia possibile percorrere la seconda gamba della U, il che già di per sé è un’ipotesi da far venire i brividi ai governi e alle autorità monetarie, teme anche che un’eventuale errata gestione delle manovre di rientro dalla gestione emergenziale potrebbe aprire la strada a una nuova fase recessiva, anche perché sarà molto difficile sostituire i consumi americani con quelli di altre aree del pianeta.

venerdì 4 settembre 2009

Sussidi di disoccupazione ancora alle stelle!


La sostanziale invarianza del numero dei nuovi sussidi settimanali di disoccupazione intorno alle 570 mila unità e i deludenti risultati delle vendite al dettaglio nelle maggiori catene dimostrano che il de profundis della recessione pronunciato l’altro ieri nel Beige Book della Federal Reserve è perlomeno prematuro, anche perché lo stock di quanti ricevono sussidi si è accresciuto di 92 mila unità a 6,23 milioni, due brutte notizie che non sembrano aver impensierito i listini azionari al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, desiderosi di prendersi una rivincita dopo diverse sedute negative consecutive.

Nel frattempo, l’indice nazionale dei servizi non è riuscito, come è invece accaduto nel settore manifatturiero, la soglia posta a 50 e che indica espansione, fermandosi appena al di sopra di 48, mentre appare significativo che una delle componenti più importanti, quella legata al credito al consumo risulti ancora in flessione.

In attesa di scoprire stasera i dati sul Non Farm Payrolls e sul tasso di disoccupazione a stelle e strisce nel mese di agosto che verrà diffuso nel primo pomeriggio di oggi, operatori e investitori sembrano limitarsi a piccoli ondeggiamenti su livelli ancora ben distanti dai massimi raggiunti prima che intervenisse la pausa di riflessione sulla fondatezza o meno della lunga corsa compiuta dai listini azionari statunitensi negli ultimi cinque mesi, una corsa interrottasi soltanto per quattro settimane a partire dalla metà di giugno, una correzione prevista con un certo anticipo in una puntata di inizio giugno del Diario della crisi finanziaria.

Al di là delle convinzioni personali e delle scuole di appartenenza, gli economisti non possono non tenere conto del fatto che prosegue la distruzione di ricchezza, sia finanziaria che reale, mentre la cosiddetta domanda effettiva continua a languire molto al di sotto del livello di piena occupazione dei fattori, tutti elementi che lasciano intuire il formarsi di nuove ondate della tempesta perfetta oramai in corso da poco meno di 25 mesi.

Non ho mai sottovalutato l’impegno eccezionale dei governi dei maggiori paesi industrializzati, impegno realizzatosi sia mediante l’adozione di manovre di stimolo dell’economia, sia attraverso il salvataggio o la ricapitalizzazione delle banche più o meno globali, sia attraverso l’assunzione di impegni di garanzia sia dei depositi bancari che, ed è un assoluta novità, degli impegni presenti nel mercato interbancario, ma il problema è rappresentato dal fatto che l’enorme mole di impegni ha più una funzione di moral suasion che la possibilità di concretizzarsi nell’ipotesi di un’ondata di default a livello sistemico e questo per la semplicissima ragione che lo stato delle finanze pubbliche, sia in termini di deficit che di stock del debito, non consentirebbe neanche di coprire un decimo dell’outstanding complessivo.

D’altra parte, la decisione di eliminare la valutazione al mark to market dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata, ma più in generale di tutti i titoli, fa parte a pieno titolo di questo gioco al facciamo finta che il problema non esista, un approccio non solo pericoloso, ma che rischia seriamente di duplicare i problemi quando alle perdite non contabilizzate legate ai prodotti finanziari si sommeranno, come sta già in gran parte avvenendo, quelle legate all’attività caratteristica delle banche, che, nonostante le deviazioni degli ultimi venticinque anni, rimane pur sempre quella di prestare denaro a famiglie e imprese che sono sempre più in difficoltà nel far fronte al servizio del debito.

giovedì 3 settembre 2009

Mercati sempre più preoccupati!


La notizia dell’ulteriore falcidia di poco meno di 300 mila posti di lavoro nel settore privato nel mese di agosto negli Stati Uniti d’America è proprio una di quelle informazioni che possono essere lette come il classico bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, a seconda che si appartenga alla vasta schiera degli ottimisti a ogni costo o a quella di chi vuole vedere fatti concreti prima di vedere una svolta nella più grave e più globale crisi finanziaria.

Ovviamente, gli ottimisti enfatizzano il fatto che 298 mila posti di lavoro persi in agosto sono sempre meglio dei 360 mila svaniti nel mese di luglio, ma non omettono certamente di sottolineare il fatto che si tratta del dato più basso dall’orribile mese di settembre del 2008, anche se la fonte di questo dato, l’ADP, si è premurata di comunicare che prevede che verranno persi posti nel settore privato ancora per parecchi mesi.

Quello che dovrebbero essere chiaro sia agli ottimisti che ai pessimisti, molti dei quali preferiscono essere definiti realisti, è che un’economia che perde centinaia di migliaia di posti di lavoro al mese difficilmente potrà registrare un incremento dei consumi e della produzione di beni e servizi, così come dovrebbe essere condivisa la sensazione che l’apporto senza precedenti del governo e delle autorità monetarie non potrà proseguire all’infinito, pena il completo dissesto della finanza pubblica!

L’altro dato importante e atteso di ieri era quello riferito agli ordini all’industria nel mese di luglio, ma, anche in questo caso, si è trattato di un’informazione che non ha fornito un’indicazione chiara, in quanto la crescita dell’1,3 per cento si trasforma in una flessione dello 0,7 per cento al netto del settore dei trasporti, spinti per il secondo mese consecutivo dagli ordini di velivoli, mentre incontestabile è stato il forte aumento della produttività, cresciuta nel secondo trimestre del 6,6 per cento.

Anche ieri, a fronte di tre notizie che, al netto dei dovuti distinguo, avrebbero messo le ali ai listini azionari, i tre indici statunitensi hanno aperto in rosso per poi tentare una timidissima risalita in territori positivo, una reazione che dimostra come gli investitori, in particolare quelli individuali, continuano a nutrire dubbi sui livelli raggiunti dopo il crollo di metà marzo, una performance che continua ad apparire eccessivamente anticipatoria rispetto al reale andamento dell’economia statunitense.

Certo, ieri sono circolate voci, riprese da siti tutt’altro che tendenti a indulgere al gossip, sul possibile fallimento di quella che veniva definita una major bank, voci assolutamente non confermate ma che ben testimoniano dei rinnovati timori nei confronti del settore finanziario a stelle e strisce.

Un discorso a parte lo merita l’andamento cedente del prezzo del petrolio, tornato ieri nell’area dei 67 dollari al barile, dopo aver toccato i massimi dell’anno solo pochi giorni fa, una flessione che è proseguita anche in presenza di un calo delle scorte statunitensi, ma che mantiene comunque i prezzi di un 40 per cento abbondante al di sopra di quelli che dovrebbero essere in base alla domanda e l’offerta, con la seconda che ancora supera la prima di 2 milioni di barili al giorno, un gap difficilmente colmabile nei tempi brevi e che dimostra una volta di più quanto sia necessaria una regolamentazione dei mercati futuri di questa come di altre materie prime!

mercoledì 2 settembre 2009

I mercati snobbano le buone notizie!


Ci sono dei giorni nel corso di questa tempesta perfetta che sembrano la fotocopia di quello precedente ed è un po’ quello che è accaduto ieri, un giorno che sarebbe interpretabile quasi con le stesse, identiche parole che ho utilizzato nella puntata di martedì del Diario della crisi finanziaria, eppure una differenza tra le due giornate esiste e non è da poco, in quanto ieri vi erano davvero tutte le premesse per un forte recupero degli indici azionari, un rialzo che poteva trarre alimento da due notizie entrambe positive, una legata al fatto che le vendite di case esistenti hanno raggiunto il punto più elevato degli ultimi due anni, mentre l’altra è legata al superamento della soglia di 50 da parte dell’indice manifatturiero nazionale, una conferma di quanto era già avvenuto, sempre con riferimento al mese di agosto, da parte di similari indici locali.

A dire la verità, la diffusione delle due notizie ha prodotto una temporanea e alquanto illusoria spinta ai tre principali indici azionari statunitensi, tornati per poco tempo in territorio positivo, così come ha consentito al prezzo del petrolio di rifare capolino al di sopra della soglia dei 70 dollari al barile, ma, come dicevo, si è trattato di un momento che non ha occupato nemmeno lo spazio di un mattino, a dimostrazione che le preoccupazioni degli investitori, soprattutto di quelli individuali sono legate proprio ai livelli raggiunti di recente dall’azionario a stelle e strisce, con particolare riferimento alle quotazioni delle azioni delle maggiori banche.

Certo, non sono mancate del tutto notizie negative, quali la perdita miliardaria delle compagnie aeree nel primo semestre e la contrazione della spesa per costruzioni, un dato aggregato che vede una sensibile crescita delle spese per l’edilizia residenziale sovrastata dal netto calo delle costruzioni non residenziali e una battuta d’arresto nei programmi relativi ai lavori pubblici, notizie che fanno capire come, nonostante lo sforzo eccezionale dell’amministrazione e delle autorità monetarie, la recessione e la deflazione abitano ancora tra di noi sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, non che le cose in Asia vadano davvero meglio, in particolare in un paese ancora importante come il Giappone.

Come ho scritto più volte in questi mesi, il rally dell’orso e il rialzo del prezzo del petrolio non sono state il frutto di un improvviso ripensamento da parte degli investitori individuali, pentiti di aver affondato titoli storici a livelli mai visti in precedenza, quanto, invece, sono stati il frutto di scommesse rilevantissime e in buona parte alimentate dai fondi pubblici provvisti dal TARP e dalla liquidità abbondante e a tasso prossimo allo zero fornita dal sistema della riserva federale alle banche statunitensi e dalla Banca Centrale Europea e dalla Bank of England a quelle poste al di qua e al di là del canale della Manica, un’azione coordinata e continua che è riuscita, almeno sino alla settimana scorsa, a far salire sul carro anche un esercito di investitori individuali, timorosi di perdersi il bello della festa.

Alla base di questa pausa di riflessione vi sono ragionamenti in fondo elementari ma di estrema evidenza, quali la persistente ed elevatissima disoccupazione, ieri salita in Europa al 9,5 per cento, i livelli della produzione industriale ostinatamente inferiori di decine di punti percentuali a quelli toccati prima dell’avvio della tempesta perfetta, la prosecuzione dello sciopero degli investimenti in titoli più o meno tossici della finanza strutturata e, the last but not the least, la vera e propria ondata dei default di famiglie e imprese che minacciano sempre di più i conti economici delle banche, tutti elementi che rischiano seriamente di sovrastare i pur rilevanti flussi di ricavi provenienti dall’attività di corporate & investment banking!

martedì 1 settembre 2009

Inizia la correzione dei mercati?


Non è del tutto strano che, giunti in prossimità dei massimi dell’anno, il mercato azionario statunitense si prenda una pausa, anche perché non sono ancora del tutto chiari i motivi di questa prosecuzione del rally dell’orso che ha, almeno al momento, come unico supporto il rallentamento della caduta del prodotto interno lordo a stelle e strisce nel secondo trimestre dopo i tonfi dell’ultimo quarto del 2008 e del primo del corrente anno.

Come scrivevo nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria, a peggiorare le cose è lo stillicidio di fallimenti di banche di piccole e medie dimensioni che stanno risentendo molto più dei default di famiglie e imprese di quanto fossero state colpite dalla evaporazione del valore dei titoli della finanza strutturata, o che, per dirla in altri termini, non sono sopravvissute a questo uno due verificatosi nel breve volgere di due anni.

A meno che non vengano modificate anche le regole contabili sui crediti non performing, regole che per ora prevedono la cancellazione dei crediti dopo pochi mesi di morosità, non vi è dubbio che molte delle 416 banche in difficoltà presenti nella lista della Federal Deposit Insurance Corporation potrebbero andare incontro alla stessa sorte già toccata alle 84 banche chiuse d’autorità dall’inizio di quest’anno, un numero che è secondo solo a quello del 1992, quando la crisi sistemica delle Saving & Loans toccò il suo apogeo.

Dopo avere fatto probabilmente due conti a tavolino, operatori e investitori hanno iniziato a vendere anche le azioni delle banche statunitensi di maggiori dimensioni, tuttora quotate a multipli degli alquanto ignominiosi minimi toccati nel marzo di quest’anno, flessioni ancora contenute e che non sembrano intaccare più di tanto la fede nel principio del too big to fail che le rende dei relativi porti sicuri nella tempesta perfetta.

Un indicatore che viene seguito con una certa attenzione, quello dell’American Association Individual Investors Survey ha visto la sua componente bullish crollare la settimana scorsa a 34, mentre la stessa era riuscita a superare la soglia posta a 50 due settimane orsono, mentre la componente bearish è balzata da 30 a 48,5, movimenti che stanno a significare che gli investitori individuali vogliono ora vedere l’arrosto dopo aver inalato fumo in quantità nei mesi scorsi, un atteggiamento che finisce per influenzare anche gli investitori istituzionali che, nonostante la notevole mole di fuoco di cui indubbiamente dispongono, sanno benissimo che non è del tutto igienico andare in controtendenza rispetto al parco buoi.

Il fatto che la flessione sia iniziata ieri mattina in Asia, in special modo in Cina, sia a Shanghai che a Hong Kong, così come la sensibile correzione al ribasso del prezzo del petrolio, rafforzano la convinzione che quello registrato nell’ultima seduta della settimana scorsa e in quella di ieri è qualcosa di più di una semplice correzione o di un profit taking legato al superamento da parte di alcune azioni di soglie non viste da lungo tempo.

Nel frattempo, l’andamento cedente del dollaro nei confronti sia dell’euro che dello yen giapponese sta a indicare che le nuove stime sul deficit pubblico statunitense, così come quelle sul debito, legate allo sforzo davvero eccezionale della nuova amministrazione e delle autorità monetarie destano preoccupazioni negli investitori che non riescono più a essere contrastate dalle pur attivissime banche centrali.