Non deve stupire il risalto che la stampa, e non solo quella finanziaria, dedica alla notizia del giorno e che è rappresentata dal fatto che, nel bel mezzo di una crisi finanziaria senza precedenti e mentre buona parte delle azioni delle banche statunitensi ed europee stanno testando, spesso con successo, a violare verso il basso i minimi dell’anno, top managers e dipendenti delle banche statunitensi si apprestano a dividersi allegramente 38 miliardi di dollari in super bonus.
Apparentemente incuranti del fatto che l’infezione dei guasti della finanza strutturata sta spandendosi nei cinque continenti, è solo di ieri la notizia del coinvolgimento della Bank of China per 1 miliardo di dollari, i sopravvissuti del vasto popolo di addetti alle varie entità che operano nel mercato statunitense aspettano ansiosamente i solitamente squallidi festini natalizi nei quali vengono distribuite le tanto attese buste contenenti gli assegni dei bonus che un sistema incentivante che ha pochi eguali al mondo prevede per loro.
Anche se le musiche che suoneranno in questa catena di party aziendali richiamano alla mente la melodia intonata dall’orchestra al momento dell’affondamento del Titanic, sono convinto che quel momentaneo brivido non basterà a sollevare gli umori dell’esercito di analisti, traders, venditori e dei loro capi, anche perché la caduta degli dei e la decimazione dei loro subordinati è ben lungi dall’essere giunta al termine, così che non saranno pochi a quelli che penseranno all’eventualità di ricevere, in genere di venerdì pomeriggio, ben altro e più temuto tipo di missiva, quella che annuncia, con accluso assegno, la fine del rapporto di lavoro.
D’altra parte, la vera e propria lotta per la sopravvivenza in corso tra le Big Five statunitensi, una lotta che vede anche i report di valutazione dei rivali utilizzati come vere e proprie armi, sta iniziando a disseminare i propri effetti, con Goldman Sachs che degrada in un sol giorno mezzo sistema bancario americano e si diverte a fare le pulci ad almeno due delle tre banche che hanno avuto la sventurata idea di seguire l’invito del precedente presidente di Goldman e attuale ministro del Tesoro, Henry Paulson, ad impegnarsi in un gioco cooperativo dal quale la sua ex banca si è apertamente dissociata, ammassando munizioni per poter raccogliere i resti di qualcuna delle sue rivali.
Né migliore fortuna la ha avuta Paulson in campo valutario, basti pensare che il suo annuncio di due giorni fa in Asia del permanere della politica del dollaro forte come interesse strategico degli Stati Uniti è stato salutato dal balzo dell’euro sopra la soglia di 1,48 contro dollaro e dal ritorno dello yen al di sotto della parità di 110 yen per dollaro, anche perché, tra le risa degli astanti, il suo omologo cinese ha affermato che anche uno yuan forte è nell’interesse strategico della Cina.
Dopo la vera e propria mattanza delle quotazioni di tutte le banche statunitensi e di quelle britanniche verificatasi lunedì, una mattanza che non ha risparmiato neppure la spiona Goldman, il mercato ha tentato ieri un timido rimbalzo in attesa di rinvenire una parola di conforto nelle minute dell’ultimo consiglio della Federal Reserve, incluso qualche segnale che Bernanke e soci si ripeteranno per la terza volta di seguito nella riunione dell’11 dicembre, dimostrando così che le affermazioni sulla loro neutralità rispetto alle pressioni del mercato hanno più o meno la solidità di quelle di Henry Paulson sulla necessità di avere un dollaro forte.
Non vi è stato il tempo ieri di apprezzare l’incremento delle costruzioni di nuove case in ottobre, in larga misura legato al volatile segmento degli appartamenti e che segna comunque una flessione annua di oltre il 16 per cento, che l’attenzione si è spostata sul correlativo dato sui nuovi permessi di costruzione, calato del 6,6 per cento su base mensile e del 24,5 per cento su base annuale, segnando così il livello minimo da 14 anni.
Mentre non si è ancora spenta l’eco delle polemiche sui nuovi e più permissivi criteri contabili adottati dal colosso semipubblico dei mutui, Fannie Mae, è venuta la perdita di 2 miliardi di dollari della più piccola entità semipubblica Freddie Mac nel terzo trimestre, una perdita in larga misura dovuta a svalutazioni su crediti per 1,2 miliardi di dollari, svalutazioni che rendono ancora meno credibili quelle annunciate da Fannie Mae che ha in portafoglio mutui per un ammontare di decine di volte quello di Freddie Mac. Il mercato, per non saper né leggere né scrivere, ha penalizzato ieri entrambe facendo scivolare le loro quotazioni di oltre un quarto del valore precedente, con l'aggravante, per Fannie Mae, di aver già perso, nelle due sedute precedenti, quasi il 30 per cento; la povera Freddie Mac ha ora bisogno immediato di un aumento di capitale e si è rivolta a Goldman Sachs per assisterla nella improba impresa.
Giornata al cardiopalma per i residui possessori di azioni della Northern Rock, in quanto, dopo l’abbandono di uno dei suoi pretendenti, il private equity Cerberus, e la vaghezza delle rassicurazioni ufficiali sulla prosecuzione delle garanzie statali sui depositi in scadenza a febbraio dell’anno prossimo, l’azione è precipitata al nuovo minimo storico di 0,60 sterline (contro un massimo di 12,5 sterline toccate quest’anno), per poi riportarsi intorno ai 90 centesimi dopo la notizia della presentazione dell’offerta di JC Flowers che, però, è disposta a pagare le azioni al loro valore nominale.
Se Northern Rock è paradigmatica della crisi finanziaria nel mercato britannico, Italease lo è certamente in quello italiano ed oggi il titolo ha rischiato seriamente di portarsi al di sotto della soglia psicologica dei 10 euro (il massimo dell’anno si colloca a 57 euro), determinando, peraltro, il downgrade del Banco Popolare, che ne è, per sua sfortuna, l’azionista di riferimento.
La guerra non dichiarata in corso tra le entità poste al vertice della graduatoria delle banche italiane si arricchisce ogni giorno di nuovi episodi, così come non è un mistero per nessuno che le frenetiche oscillazioni dei relativi titoli, ad esempio di quello di Unicredit Group, non sono da attribuire soltanto al crescente nervosismo del mercato, constatazione alla quale è d’ausilio l’analisi delle oscillazioni intraday e dei relativi volumi, ma un posto a parte in questo conflitto non sempre pacifico lo merita senz’altro l’intervista che Matteo Arpe ha rilasciato ad una colonna del settimanale L’Espresso, nel numero presente in edicola questa settimana.
Se qualcuno si aspettava un attacco frontale a Cesare Geronzi o ad Alessandro Profumo, resterà certamente deluso e dimostra di conoscere poco l’enfante prodige del mondo bancario italiano, il quale, parlando della sua fortunata esperienza in Capitalia, trova l’occasione di spiegare quello che è corretto e ciò che non lo è nel mestiere del banchiere, peccato che, scorrendo le cose a suo modo di vedere vietate, sembra di scorgere proprio il profilo di quelli che, secondo tutti, non sono proprio suoi amici.
Apparentemente incuranti del fatto che l’infezione dei guasti della finanza strutturata sta spandendosi nei cinque continenti, è solo di ieri la notizia del coinvolgimento della Bank of China per 1 miliardo di dollari, i sopravvissuti del vasto popolo di addetti alle varie entità che operano nel mercato statunitense aspettano ansiosamente i solitamente squallidi festini natalizi nei quali vengono distribuite le tanto attese buste contenenti gli assegni dei bonus che un sistema incentivante che ha pochi eguali al mondo prevede per loro.
Anche se le musiche che suoneranno in questa catena di party aziendali richiamano alla mente la melodia intonata dall’orchestra al momento dell’affondamento del Titanic, sono convinto che quel momentaneo brivido non basterà a sollevare gli umori dell’esercito di analisti, traders, venditori e dei loro capi, anche perché la caduta degli dei e la decimazione dei loro subordinati è ben lungi dall’essere giunta al termine, così che non saranno pochi a quelli che penseranno all’eventualità di ricevere, in genere di venerdì pomeriggio, ben altro e più temuto tipo di missiva, quella che annuncia, con accluso assegno, la fine del rapporto di lavoro.
D’altra parte, la vera e propria lotta per la sopravvivenza in corso tra le Big Five statunitensi, una lotta che vede anche i report di valutazione dei rivali utilizzati come vere e proprie armi, sta iniziando a disseminare i propri effetti, con Goldman Sachs che degrada in un sol giorno mezzo sistema bancario americano e si diverte a fare le pulci ad almeno due delle tre banche che hanno avuto la sventurata idea di seguire l’invito del precedente presidente di Goldman e attuale ministro del Tesoro, Henry Paulson, ad impegnarsi in un gioco cooperativo dal quale la sua ex banca si è apertamente dissociata, ammassando munizioni per poter raccogliere i resti di qualcuna delle sue rivali.
Né migliore fortuna la ha avuta Paulson in campo valutario, basti pensare che il suo annuncio di due giorni fa in Asia del permanere della politica del dollaro forte come interesse strategico degli Stati Uniti è stato salutato dal balzo dell’euro sopra la soglia di 1,48 contro dollaro e dal ritorno dello yen al di sotto della parità di 110 yen per dollaro, anche perché, tra le risa degli astanti, il suo omologo cinese ha affermato che anche uno yuan forte è nell’interesse strategico della Cina.
Dopo la vera e propria mattanza delle quotazioni di tutte le banche statunitensi e di quelle britanniche verificatasi lunedì, una mattanza che non ha risparmiato neppure la spiona Goldman, il mercato ha tentato ieri un timido rimbalzo in attesa di rinvenire una parola di conforto nelle minute dell’ultimo consiglio della Federal Reserve, incluso qualche segnale che Bernanke e soci si ripeteranno per la terza volta di seguito nella riunione dell’11 dicembre, dimostrando così che le affermazioni sulla loro neutralità rispetto alle pressioni del mercato hanno più o meno la solidità di quelle di Henry Paulson sulla necessità di avere un dollaro forte.
Non vi è stato il tempo ieri di apprezzare l’incremento delle costruzioni di nuove case in ottobre, in larga misura legato al volatile segmento degli appartamenti e che segna comunque una flessione annua di oltre il 16 per cento, che l’attenzione si è spostata sul correlativo dato sui nuovi permessi di costruzione, calato del 6,6 per cento su base mensile e del 24,5 per cento su base annuale, segnando così il livello minimo da 14 anni.
Mentre non si è ancora spenta l’eco delle polemiche sui nuovi e più permissivi criteri contabili adottati dal colosso semipubblico dei mutui, Fannie Mae, è venuta la perdita di 2 miliardi di dollari della più piccola entità semipubblica Freddie Mac nel terzo trimestre, una perdita in larga misura dovuta a svalutazioni su crediti per 1,2 miliardi di dollari, svalutazioni che rendono ancora meno credibili quelle annunciate da Fannie Mae che ha in portafoglio mutui per un ammontare di decine di volte quello di Freddie Mac. Il mercato, per non saper né leggere né scrivere, ha penalizzato ieri entrambe facendo scivolare le loro quotazioni di oltre un quarto del valore precedente, con l'aggravante, per Fannie Mae, di aver già perso, nelle due sedute precedenti, quasi il 30 per cento; la povera Freddie Mac ha ora bisogno immediato di un aumento di capitale e si è rivolta a Goldman Sachs per assisterla nella improba impresa.
Giornata al cardiopalma per i residui possessori di azioni della Northern Rock, in quanto, dopo l’abbandono di uno dei suoi pretendenti, il private equity Cerberus, e la vaghezza delle rassicurazioni ufficiali sulla prosecuzione delle garanzie statali sui depositi in scadenza a febbraio dell’anno prossimo, l’azione è precipitata al nuovo minimo storico di 0,60 sterline (contro un massimo di 12,5 sterline toccate quest’anno), per poi riportarsi intorno ai 90 centesimi dopo la notizia della presentazione dell’offerta di JC Flowers che, però, è disposta a pagare le azioni al loro valore nominale.
Se Northern Rock è paradigmatica della crisi finanziaria nel mercato britannico, Italease lo è certamente in quello italiano ed oggi il titolo ha rischiato seriamente di portarsi al di sotto della soglia psicologica dei 10 euro (il massimo dell’anno si colloca a 57 euro), determinando, peraltro, il downgrade del Banco Popolare, che ne è, per sua sfortuna, l’azionista di riferimento.
La guerra non dichiarata in corso tra le entità poste al vertice della graduatoria delle banche italiane si arricchisce ogni giorno di nuovi episodi, così come non è un mistero per nessuno che le frenetiche oscillazioni dei relativi titoli, ad esempio di quello di Unicredit Group, non sono da attribuire soltanto al crescente nervosismo del mercato, constatazione alla quale è d’ausilio l’analisi delle oscillazioni intraday e dei relativi volumi, ma un posto a parte in questo conflitto non sempre pacifico lo merita senz’altro l’intervista che Matteo Arpe ha rilasciato ad una colonna del settimanale L’Espresso, nel numero presente in edicola questa settimana.
Se qualcuno si aspettava un attacco frontale a Cesare Geronzi o ad Alessandro Profumo, resterà certamente deluso e dimostra di conoscere poco l’enfante prodige del mondo bancario italiano, il quale, parlando della sua fortunata esperienza in Capitalia, trova l’occasione di spiegare quello che è corretto e ciò che non lo è nel mestiere del banchiere, peccato che, scorrendo le cose a suo modo di vedere vietate, sembra di scorgere proprio il profilo di quelli che, secondo tutti, non sono proprio suoi amici.
Nessun commento:
Posta un commento