Il dato di settembre sul Treasury International Capital era molto atteso dopo il forte deflusso di capitali dagli USA segnalato nel mese precedente (-150,7 miliardi di dollari), ma le attese di un forte rimbalzo sono state vanificate, perché, anche nel mese in esame, il deflusso di capitali, per l’aggregato più ampio, si è ripetuto, seppure “soltanto” nell’ordine dei 14,7 miliardi di dollari.
Nel suo aggregato più ampio, appunto, il TCI rappresenta il saldo dei movimenti di capitale da e verso gli Stati Uniti, fornendo, nella maggior parte dei casi, le risorse necessarie a bilanciare il cronico deficit commerciale USA e a fornire mezzi aggiuntivi per l’acquisto di Treasury bills, notes e bonds, necessari a far fronte a quel deficit gemello rappresentato dal disavanzo altrettanto cronico del bilancio federale.
Il forte indebolimento del dollaro e i ribassi aggressivi dei tassi di interesse operati da agosto dalla Federal Reserve, mentre stanno consentendo un sensibile miglioramento del deficit commerciale, che si mantiene comunque saldamente a 56,45 miliardi di dollari nel mese di settembre, sta, come è ovvio, spingendo gli investitori stranieri, privati o banche centrali che siano, ad operare un significativo riaggiustamento dei propri portafogli, mediante l’accrescimento delle quote denominate in euro, in yen e in sterline, anche se flussi importanti si stanno dirigendo verso attività denominate in dollari canadesi ed australiani.
Non stupisce, pertanto, che il ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, abbia approfittato della prima occasione disponibile per riaffermare che un dollaro forte continua a rientrare tra gli interessi strategici degli Stati Uniti, ben consapevole come è del fatto che, solo in Treasury di diversa specie e natura, lo stock di investimenti stranieri era pari, alla fine di settembre, a 2.247 miliardi di dollari, ai quali vanno aggiunti depositi per migliaia di miliardi di dollari, una montagna di passività estere con le quali è particolarmente pericoloso scherzare, soprattutto alla luce del fatto che sono in buona parte concentrati in Asia e nei paesi esportatori di petrolio ed altre materie prime.
Raramente si erano visti gli analisti scatenarsi contro un direttore finanziario come è accaduto nel caso dell’incontro che si è tenuto, alla fine della scorsa settimana, tra il malcapitato CFO di Fannie Mae ed un nugolo di esperti che contestavano apertamente il nuovo metodo di calcolo che porta alle svalutazioni sui crediti del colosso semipubblico dei mutui, in rosso nel terzo trimestre per “soli” 1,4 miliardi, grazie in particolare ad un metodo basato su una previsione di perdite del 4 per mille, mentre in precedenza si utilizzava una stima del 7,5 per mille, anche perché Fannie Mae è già incorsa (come la controllata Fannie Mac) in uno scandalo contabile nel 2004 per un “errore contabile” dell’ammontare di 6,3 miliardi.
Anche se è difficile stare dietro a tutte le stime sul costo finale di questa crisi finanziaria, merita attenzione lo studio effettuato dal capo economista per gli Stati Uniti di Goldman Sachs, Jan Hatzius, non tanto per il dato che fornisce sulle perdite delle banche, attorno ai 400 miliardi di dollari, quanto perché valuta la quantità di credito che dovrà essere necessariamente tagliato dalla stesse per mantenersi nei ratio previsti dalle norme attualmente in vigore, prevedendo che – sulla base di 10 dollari tagliati per ogni dollaro di perdite, il credit crunch sarà dai 2 mila ai 4 mila miliardi di dollari, a seconda che le perdite saranno di 200 miliardi o di 400 miliardi di dollari, cifra, quest’ultima, che coincide esattamente con la sua previsione.
Nel frattempo, le banche statunitensi, ma non solo loro, hanno dovuto iniettare, nella settimana che si è appena conclusa, altri 10 miliardi di dollari nei fondi monetari, portando così la somma complessiva di queste “iniezioni” di denaro fresco effettuate dall’inizio della crisi di liquidità nel mese di agosto a ben 100 miliardi di dollari, né va dimenticato che fu poche ore dopo l’annuncio del congelamento di tre fondi di questo tipo da parte di Bnp Paribas che la BCE effettuò, il 9 agosto scorso, la prima maxi immissione di liquidità.
In questo quadro, passa quasi in secondo piano il sensibile calo che ha colpito la produzione industriale statunitense (-0,5 per cento) e l’utilizzazione degli impianti (dall’82,2 all’81,7 per cento), anche se ciò che ha colpito di più è stato il calo dello 0,4 per cento dell’industria manifatturiera, in quanto meno spiegabile, come è stato nel caso dell’output delle utilities (sceso dell’1,6 per cento), con le condizioni metereologiche estremamente miti.
La stessa chiusura moderatamente al rialzo degli indici azionari statunitensi nell’ultima seduta della scorsa settimana, pur in presenza di un ulteriore sensibile calo nel comparto finanziario (Fannie Mae in testa), è un indizio interessante, in quanto mostra come il mercato valuti le notizie sempre più fosche provenienti dall’economia reale come una spinta per convincere, ove ve ne fosse bisogno, Ben Bernanke e soci, già nella prossima riunione del FOMC della Federal Reserve prevista per l’11 dicembre, a continuare sulla strada delle riduzioni del costo del denaro e delle ormai permanenti iniezioni di liquidità.
Sul fronte europeo, intanto, crescono a dismisura le pressioni dei governi dei paesi dell’area dell’euro, affinché la Banca Centrale Europea abbandoni, al pari di quanto sta ormai facendo esplicitamente la Fed, la sua “preistorica” ossessione per l’inflazione, retaggio della precedente esperienza della Bundesbank tedesca, e comprenda che la sua mission principale è quella di salvare le banche riducendo, anche ripetutamente, i tassi di interesse, nella speranza che quelli interbancari riprendano correlativamente e forse di più a scendere, cosa che al momento non accade.
Al di là delle chiacchiere più o meno interessate, il nodo della questione sta esattamente in questi termini: caduta negli Stati Uniti ogni barriera rispetto al premiare o meno l’azzardo morale delle banche in nome delle necessità di evitare il baratro, può l’Europa continuare ad insistere che non si può prescindere dal principio che chi sbaglia paga?
Non vi è, peraltro, chi non abbia capito che le orecchie del navigato banchiere francese Trichet sono molto più attente alle sirene della politica ed alla necessità di non fare la fine del suo collega britannico, messo alla berlina dal Parlamento di Sua Maestà per essersi opposto, per ordine peraltro del Governo, al salvataggio in tempo utile di quella Northern Rock che, a due mesi dall’assalto agli sportelli, assomiglia sempre di più alla Sora Camilla di romana memoria, quella che “tutti la vonno ma nessuno la piglia” e le cui quotazioni stanno inesorabilmente tornando verso il minimo toccato dopo le tristi vicende estive.
Nel suo aggregato più ampio, appunto, il TCI rappresenta il saldo dei movimenti di capitale da e verso gli Stati Uniti, fornendo, nella maggior parte dei casi, le risorse necessarie a bilanciare il cronico deficit commerciale USA e a fornire mezzi aggiuntivi per l’acquisto di Treasury bills, notes e bonds, necessari a far fronte a quel deficit gemello rappresentato dal disavanzo altrettanto cronico del bilancio federale.
Il forte indebolimento del dollaro e i ribassi aggressivi dei tassi di interesse operati da agosto dalla Federal Reserve, mentre stanno consentendo un sensibile miglioramento del deficit commerciale, che si mantiene comunque saldamente a 56,45 miliardi di dollari nel mese di settembre, sta, come è ovvio, spingendo gli investitori stranieri, privati o banche centrali che siano, ad operare un significativo riaggiustamento dei propri portafogli, mediante l’accrescimento delle quote denominate in euro, in yen e in sterline, anche se flussi importanti si stanno dirigendo verso attività denominate in dollari canadesi ed australiani.
Non stupisce, pertanto, che il ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, abbia approfittato della prima occasione disponibile per riaffermare che un dollaro forte continua a rientrare tra gli interessi strategici degli Stati Uniti, ben consapevole come è del fatto che, solo in Treasury di diversa specie e natura, lo stock di investimenti stranieri era pari, alla fine di settembre, a 2.247 miliardi di dollari, ai quali vanno aggiunti depositi per migliaia di miliardi di dollari, una montagna di passività estere con le quali è particolarmente pericoloso scherzare, soprattutto alla luce del fatto che sono in buona parte concentrati in Asia e nei paesi esportatori di petrolio ed altre materie prime.
Raramente si erano visti gli analisti scatenarsi contro un direttore finanziario come è accaduto nel caso dell’incontro che si è tenuto, alla fine della scorsa settimana, tra il malcapitato CFO di Fannie Mae ed un nugolo di esperti che contestavano apertamente il nuovo metodo di calcolo che porta alle svalutazioni sui crediti del colosso semipubblico dei mutui, in rosso nel terzo trimestre per “soli” 1,4 miliardi, grazie in particolare ad un metodo basato su una previsione di perdite del 4 per mille, mentre in precedenza si utilizzava una stima del 7,5 per mille, anche perché Fannie Mae è già incorsa (come la controllata Fannie Mac) in uno scandalo contabile nel 2004 per un “errore contabile” dell’ammontare di 6,3 miliardi.
Anche se è difficile stare dietro a tutte le stime sul costo finale di questa crisi finanziaria, merita attenzione lo studio effettuato dal capo economista per gli Stati Uniti di Goldman Sachs, Jan Hatzius, non tanto per il dato che fornisce sulle perdite delle banche, attorno ai 400 miliardi di dollari, quanto perché valuta la quantità di credito che dovrà essere necessariamente tagliato dalla stesse per mantenersi nei ratio previsti dalle norme attualmente in vigore, prevedendo che – sulla base di 10 dollari tagliati per ogni dollaro di perdite, il credit crunch sarà dai 2 mila ai 4 mila miliardi di dollari, a seconda che le perdite saranno di 200 miliardi o di 400 miliardi di dollari, cifra, quest’ultima, che coincide esattamente con la sua previsione.
Nel frattempo, le banche statunitensi, ma non solo loro, hanno dovuto iniettare, nella settimana che si è appena conclusa, altri 10 miliardi di dollari nei fondi monetari, portando così la somma complessiva di queste “iniezioni” di denaro fresco effettuate dall’inizio della crisi di liquidità nel mese di agosto a ben 100 miliardi di dollari, né va dimenticato che fu poche ore dopo l’annuncio del congelamento di tre fondi di questo tipo da parte di Bnp Paribas che la BCE effettuò, il 9 agosto scorso, la prima maxi immissione di liquidità.
In questo quadro, passa quasi in secondo piano il sensibile calo che ha colpito la produzione industriale statunitense (-0,5 per cento) e l’utilizzazione degli impianti (dall’82,2 all’81,7 per cento), anche se ciò che ha colpito di più è stato il calo dello 0,4 per cento dell’industria manifatturiera, in quanto meno spiegabile, come è stato nel caso dell’output delle utilities (sceso dell’1,6 per cento), con le condizioni metereologiche estremamente miti.
La stessa chiusura moderatamente al rialzo degli indici azionari statunitensi nell’ultima seduta della scorsa settimana, pur in presenza di un ulteriore sensibile calo nel comparto finanziario (Fannie Mae in testa), è un indizio interessante, in quanto mostra come il mercato valuti le notizie sempre più fosche provenienti dall’economia reale come una spinta per convincere, ove ve ne fosse bisogno, Ben Bernanke e soci, già nella prossima riunione del FOMC della Federal Reserve prevista per l’11 dicembre, a continuare sulla strada delle riduzioni del costo del denaro e delle ormai permanenti iniezioni di liquidità.
Sul fronte europeo, intanto, crescono a dismisura le pressioni dei governi dei paesi dell’area dell’euro, affinché la Banca Centrale Europea abbandoni, al pari di quanto sta ormai facendo esplicitamente la Fed, la sua “preistorica” ossessione per l’inflazione, retaggio della precedente esperienza della Bundesbank tedesca, e comprenda che la sua mission principale è quella di salvare le banche riducendo, anche ripetutamente, i tassi di interesse, nella speranza che quelli interbancari riprendano correlativamente e forse di più a scendere, cosa che al momento non accade.
Al di là delle chiacchiere più o meno interessate, il nodo della questione sta esattamente in questi termini: caduta negli Stati Uniti ogni barriera rispetto al premiare o meno l’azzardo morale delle banche in nome delle necessità di evitare il baratro, può l’Europa continuare ad insistere che non si può prescindere dal principio che chi sbaglia paga?
Non vi è, peraltro, chi non abbia capito che le orecchie del navigato banchiere francese Trichet sono molto più attente alle sirene della politica ed alla necessità di non fare la fine del suo collega britannico, messo alla berlina dal Parlamento di Sua Maestà per essersi opposto, per ordine peraltro del Governo, al salvataggio in tempo utile di quella Northern Rock che, a due mesi dall’assalto agli sportelli, assomiglia sempre di più alla Sora Camilla di romana memoria, quella che “tutti la vonno ma nessuno la piglia” e le cui quotazioni stanno inesorabilmente tornando verso il minimo toccato dopo le tristi vicende estive.
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