Goldman Sachs colpisce ancora
Gli analisti di Goldman Sachs hanno operato un pesante downgrade del titolo di Citigroup, portando il giudizio a sell, anche sulla base di una stima di ulteriori svalutazioni per 15 miliardi di dollari che il gruppo sarà chiamato ad effettuare nei prossimi due trimestri.
La notizia è giunta all’apertura di Wall Street, un’apertura già appesantita dalle notizie che giungevano dall’Europa, con le forti perdite e svalutazioni segnalate da Swiss Re e un nuovo crollo di Northern Rock (e, appena in minor misura, dell’intero comparto bancario britannico), che si è portata decisamente al di sotto dei minimi segnati dopo l’assalto agli sportelli, nonostante la tanto attesa uscita di scena del suo amministratore delegato, Adam Applegarth, più noto come animatore, assieme alla moglie, della swinging London che per le sue qualità affaristiche.
D’altro canto, non ha certamente giovato al corso del titolo della disastrata banca britannica la voce che le valutazioni fatte della banca dai suoi residui pretendenti si collocherebbe al di sotto della capitalizzazione di borsa e che, nei loro piani, una volta ripianta parte della mega esposizione nei confronti della Bank of England, non rimarrebbero molti mezzi freschi per il rilancio della banca.
Mentre fa ancora discutere la stima di Jan Hatzius, capo economista di Goldman, sull’inevitabile credit crunch, ma soprattutto della sua dimensione oscillante tra i 2 mila e i 4 mila miliardi di dollari, un’altra tegola si è venuta ad abbattere sugli investitori ed è rappresentata dalle crescenti difficoltà in cui versano le sette compagnie che prestano garanzie per l’emissione dei bond.
Mbia, Ambac Financial e le loro più piccole cinque concorrenti sono infatti sotto esame da parte delle società di rating che potrebbero con molta probabilità togliere loro quella tripla A fondamentale per assicurare l’attuale livello del costo di finanziamento per gli emittenti da loro attualmente assicurati per 2.400 miliardi di dollari, circostanza che spingerebbe, tra l’altro, al fallimento entità rilevanti sia del settore pubblico che del settore privato USA.
Per dare un’idea dell’entità del problema, è sufficiente pensare che il colosso mondiale del settore Mbia presenta un rischio di default pari al 28 per cento e la sua capitalizzazione di borsa ha perso il 48 per cento dall’inizio dell’anno, mentre Ambac Financial, con un rischio di default addirittura del 40 per cento, sta vedendo la sua capitalizzazione praticamente evaporare, con un meno 68 per cento dall’inizio di gennaio ad oggi.
Tanto per fare il punto della situazione, al momento oltre al travaglio delle banche di quasi ogni paese (anche la Bank of China ha svalutato i propri crediti per un miliardo di dollari), strette tra l’appetito a volte insaziabile dei propri azionisti e la necessità di far emergere le proprie perdite, vi è il sostanziale blocco del turnover di quella montagna di carta che rappresenta debiti di ogni forma e natura, per non parlare di quegli almeno 150 miliardi di dollari di titoli facenti capo ai private equity che nessuno sembra volere, per finire poi con l’accanimento di legislatori, giudici e l’opinione pubblica che premono per l’adozione di regole più restrittive che mettano al guinzaglio gli operatori del mercato finanziario.
E’ destinata, inoltre, ad avere una certa risonanza l’accusa autorevolmente mossa da Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia che si dimise dalla banca Mondiale contro le misure imposte ai paesi dell’Asia dopo la crisi del 1997, che sostiene che FMI e Banca Mondiale adottano due pesi e due misure, a seconda che una crisi finanziaria colpisca paesi emergenti o gli Stati Uniti, anche perché la politica della Federal Reserve e del governo statunitense vanno in direzione esattamente opposta a quella applicata ai paesi asiatici.
Non è peraltro un caso, sostiene sempre Stiglitz se gli unici due paesi dell’area a non aver ceduto alle lusinghe delle sirene della globalizzazione e della piena libertà di movimento dei capitali, l’India e la Cina, non solo sono passati pressoché indenni attraverso quella tempesta, ma hanno anche registrato da allora tassi di sviluppo multipli rispetto a quelli dei paesi che avevano creduto al verbo dei profeti della globalizzazione spinta.
Stiglitz, peraltro, non è il solo a vedere la necessità di nuove e più stringenti regole che rendano l’operato delle banche globali, ma anche quello di tutti gli altri soggetti del mercato finanziario, più trasparente, soprattutto per quanto riguarda le pratiche di trasferimento del rischio da se stesse verso investitori più o meno professionali.
Segnalo che continua senza esiti la ricerca di Robert Rubin, presidente di Citigroup, che sembra non trovare né all’interno né all’esterno un degno erede di almeno una delle due cariche ricoperte da Chuck Prince III, quella di amministratore delegato della maggiore banca USA, ma anche la caccia fruttuosa di Merrill Lynch che si è assicurata i servizi dell’ex numero uno del NYSE non deve essere stata facile, alla luce delle condizioni favolose garantite al neo assunto, dal bonus di 15 milioni di dollari per aver accettato e ad una marea di stock options e di garanzie per l’eventuale, brusco allontanamento che si profila per lui se, come molti ritengono, la situazione reale dei conti è tale che si renderà necessaria, prima o poi, l’acquisizione della banca da parte di un’entità dalle spalle più grosse o, semplicemente, che ha mostrato maggiore prudenza negli anni ruggenti.
La giornata che apre la settima sui mercati si è mostrata subito pesante sin dal mattino in Asia, per proseguire poi con una raffica di segni meno individuali e collettivi in Europa, dando, infine, il meglio di sé sul mercato azionario statunitense, dove, in particolare per quanto riguarda il settore bancario e finanziario, è alquanto generalizzato lo sfondamento verso il basso dei minimi precedentemente toccati nell’anno.
Gli analisti di Goldman Sachs hanno operato un pesante downgrade del titolo di Citigroup, portando il giudizio a sell, anche sulla base di una stima di ulteriori svalutazioni per 15 miliardi di dollari che il gruppo sarà chiamato ad effettuare nei prossimi due trimestri.
La notizia è giunta all’apertura di Wall Street, un’apertura già appesantita dalle notizie che giungevano dall’Europa, con le forti perdite e svalutazioni segnalate da Swiss Re e un nuovo crollo di Northern Rock (e, appena in minor misura, dell’intero comparto bancario britannico), che si è portata decisamente al di sotto dei minimi segnati dopo l’assalto agli sportelli, nonostante la tanto attesa uscita di scena del suo amministratore delegato, Adam Applegarth, più noto come animatore, assieme alla moglie, della swinging London che per le sue qualità affaristiche.
D’altro canto, non ha certamente giovato al corso del titolo della disastrata banca britannica la voce che le valutazioni fatte della banca dai suoi residui pretendenti si collocherebbe al di sotto della capitalizzazione di borsa e che, nei loro piani, una volta ripianta parte della mega esposizione nei confronti della Bank of England, non rimarrebbero molti mezzi freschi per il rilancio della banca.
Mentre fa ancora discutere la stima di Jan Hatzius, capo economista di Goldman, sull’inevitabile credit crunch, ma soprattutto della sua dimensione oscillante tra i 2 mila e i 4 mila miliardi di dollari, un’altra tegola si è venuta ad abbattere sugli investitori ed è rappresentata dalle crescenti difficoltà in cui versano le sette compagnie che prestano garanzie per l’emissione dei bond.
Mbia, Ambac Financial e le loro più piccole cinque concorrenti sono infatti sotto esame da parte delle società di rating che potrebbero con molta probabilità togliere loro quella tripla A fondamentale per assicurare l’attuale livello del costo di finanziamento per gli emittenti da loro attualmente assicurati per 2.400 miliardi di dollari, circostanza che spingerebbe, tra l’altro, al fallimento entità rilevanti sia del settore pubblico che del settore privato USA.
Per dare un’idea dell’entità del problema, è sufficiente pensare che il colosso mondiale del settore Mbia presenta un rischio di default pari al 28 per cento e la sua capitalizzazione di borsa ha perso il 48 per cento dall’inizio dell’anno, mentre Ambac Financial, con un rischio di default addirittura del 40 per cento, sta vedendo la sua capitalizzazione praticamente evaporare, con un meno 68 per cento dall’inizio di gennaio ad oggi.
Tanto per fare il punto della situazione, al momento oltre al travaglio delle banche di quasi ogni paese (anche la Bank of China ha svalutato i propri crediti per un miliardo di dollari), strette tra l’appetito a volte insaziabile dei propri azionisti e la necessità di far emergere le proprie perdite, vi è il sostanziale blocco del turnover di quella montagna di carta che rappresenta debiti di ogni forma e natura, per non parlare di quegli almeno 150 miliardi di dollari di titoli facenti capo ai private equity che nessuno sembra volere, per finire poi con l’accanimento di legislatori, giudici e l’opinione pubblica che premono per l’adozione di regole più restrittive che mettano al guinzaglio gli operatori del mercato finanziario.
E’ destinata, inoltre, ad avere una certa risonanza l’accusa autorevolmente mossa da Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia che si dimise dalla banca Mondiale contro le misure imposte ai paesi dell’Asia dopo la crisi del 1997, che sostiene che FMI e Banca Mondiale adottano due pesi e due misure, a seconda che una crisi finanziaria colpisca paesi emergenti o gli Stati Uniti, anche perché la politica della Federal Reserve e del governo statunitense vanno in direzione esattamente opposta a quella applicata ai paesi asiatici.
Non è peraltro un caso, sostiene sempre Stiglitz se gli unici due paesi dell’area a non aver ceduto alle lusinghe delle sirene della globalizzazione e della piena libertà di movimento dei capitali, l’India e la Cina, non solo sono passati pressoché indenni attraverso quella tempesta, ma hanno anche registrato da allora tassi di sviluppo multipli rispetto a quelli dei paesi che avevano creduto al verbo dei profeti della globalizzazione spinta.
Stiglitz, peraltro, non è il solo a vedere la necessità di nuove e più stringenti regole che rendano l’operato delle banche globali, ma anche quello di tutti gli altri soggetti del mercato finanziario, più trasparente, soprattutto per quanto riguarda le pratiche di trasferimento del rischio da se stesse verso investitori più o meno professionali.
Segnalo che continua senza esiti la ricerca di Robert Rubin, presidente di Citigroup, che sembra non trovare né all’interno né all’esterno un degno erede di almeno una delle due cariche ricoperte da Chuck Prince III, quella di amministratore delegato della maggiore banca USA, ma anche la caccia fruttuosa di Merrill Lynch che si è assicurata i servizi dell’ex numero uno del NYSE non deve essere stata facile, alla luce delle condizioni favolose garantite al neo assunto, dal bonus di 15 milioni di dollari per aver accettato e ad una marea di stock options e di garanzie per l’eventuale, brusco allontanamento che si profila per lui se, come molti ritengono, la situazione reale dei conti è tale che si renderà necessaria, prima o poi, l’acquisizione della banca da parte di un’entità dalle spalle più grosse o, semplicemente, che ha mostrato maggiore prudenza negli anni ruggenti.
La giornata che apre la settima sui mercati si è mostrata subito pesante sin dal mattino in Asia, per proseguire poi con una raffica di segni meno individuali e collettivi in Europa, dando, infine, il meglio di sé sul mercato azionario statunitense, dove, in particolare per quanto riguarda il settore bancario e finanziario, è alquanto generalizzato lo sfondamento verso il basso dei minimi precedentemente toccati nell’anno.
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