Sembra proprio che la riunione dei ministri economici e dei governatori delle banche centrali del gruppo dei sette paesi maggiormente industrializzati riunito nel week end in Giappone non avesse altra preoccupazione che quella della scelta che i sudditi della novantenne Elisabetta seconda faranno il prossimo 23 giugno tra l'opzione di restare, remain, nell'Unione europea e quella di uscire, leave, dall'augusto consesso che riunisce 28 paesi in molti casi molto diversi tra di loro per struttura economica, cultura, assetto politico e chi più ne ha ne metta.
Dalla riunione giapponese è venuto uno scenario di sciagure per il Regno Unito, che poi tanto non lo sarebbe visto che la Scozia già prevede nel caso un secondo referendum per lasciare l'unione e chiedere l'ammissione all'Unione europea, con conseguenze ferali sul prodotto interno lordo e una svalutazione della sterlina stimabile tra il 15 e il 20 per cento, un aumento del tasso di disoccupazione e un forte impatto sulla già strutturalmente deficitaria bilancia commerciale, tutte eventualità che avevo segnalato nella puntata del Diario della crisi finanziaria dedicata all'argomento, esclusa una svalutazione così massiccia della sterlina.
Ma questo intervento a gamba tesa dei potenti della terra sulla libera scelta di una grande nazione, intervento ovviamente fortemente caldeggiato dalle autorità monetarie britanniche presenti all'incontro e dai rappresentanti della Unione europea per non parlare del presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ben presente al centro della foto di gruppo dell'incontro e pressione gradita da tutti gli altri partner presenti rischia di arrivare tardi, perché la partita sembra già decisa in favore della permanenza e ben lo testimonia il forte recupero della sterlina nei giorni scorsi (con un euro si acquistavano 81 centesimi di sterlina poche settimane fa e ora se ne ricevono poco più di 77 centesimi).
Infatti, tutti i sondaggi danno una percentuale dei no all'uscita del Regno Unito dall'Unione europea di sette punti percentuali superiore a quella di quanti vorrebbero invece lasciarla, con gli indecisi ridotti all'infima quota del dieci per cento, sondaggi corroborati dalle quote degli allibratori che pagano pochissimo sopra la pari la possibilità della vittoria del si.
Dando ai sondaggi il credito che meritano, va detto che la partita non è del tutto chiusa e le prossime settimane di campagna possono ancora modificare l'esito che si inserisce in un quadro europeo che vede le presidenziali in Austria che comunque assegnano all'estrema destra circa la metà dei consensi e la partita della Grecia che vede l'Unione europea molto meglio intenzionata verso un accordo, facilitato dal passaggio del secondo pacchetto proposto dal governo Txipras, ma anche qui voglio vedere l'accordo firmato!
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