domenica 22 giugno 2008

John Paulson versus Henry Paulson


L’insolitamente dura requisitoria pronunciata dal ministro del Tesoro statunitense, Henry Paulson, nel corso di un incontro con esponenti finanziari della Repubblica Popolare Cinese, un’allocuzione condita di non velate minacce nei confronti dell’ambiente dal quale Paulson proviene, quello dell’investment banking nel quale ha militato per una vita sino a diventare l’indiscusso numero uno della sempre fortunata e molto preveggente Goldman Sachs, per poi passare, proprio alla vigilia del clamoroso dietrofront della sua banca nei confronti di quella finanza strutturata della quale è stata maestra per generazioni di investment bankers, una fuorisciuta guidata dal suo successore Larry Blanfein (100 milioni di dollari di compensi nel 2007), suggerita dall’”anziano” Chief Financial Officer David Viniar (59 milioni di dollari) e coordinata dai “due” Chief Operating Officer di Goldman (70 milioni di dollari cadauno) di dimensioni veramente mostruose, ma che, se ha salvato la storica banca di investimenti da un certo default, non è stata sufficiente a porla del tutto al riparo dagli alti marosi della tempesta perfetta iniziata 10 mesi dopo il brusco girare delle posizioni avviato nel lontano settembre del 2006.

In un bellissimo articolo apparso ieri sul quotidiano La Repubblica, il bravissimo Federico Rampini, ottimo conoscitore degli Stati Uniti d’America e della Cina (entrambi paesi dai quali è stato ed è corrispondente), ha voluto sottolineare un particolare significativo dello speech di Paulson, quando, invitando i banchieri cinesi ed il loro governo a darsi una mossa, lodava i benefici della deregulation e della finanziarizzazione, via cartolarizzazione di tutto il cartolarizzabile, suscitando l’ilarità dei solitamente compassati cinesi che, prima di entrare nella sala, avevano avuto modo di seguire gli arresti ripresi in diretta dei due ex manager di Bear Stearns inchiodati alle loro responsabilità da intercettazioni che rivelavano aspetti realmente raccapriccianti dei loro comportamenti non certo esemplari, anche se alquanto diffusi in quel casinò a cielo aperto che è diventata la finanza globale.

Ho avuto modo di conoscere per qualche mese una delegazione di futuri banchieri cinesi in stage presso l’ufficio studi nel quale ho lavorata nella prima metà degli anni Ottanta, persone molto gentili e di grande spessore culturale che ricordo con affetto e che, con ogni probabilità, oggi siedono ai piani alti del sistema bancario cinese e che forse erano seduti in platea ad ascoltare l’ineffabile Paulson, facendo i debiti scongiuri rispetto agli inviti che il nostro rivolgeva loro ad aprirsi di più ai rischi e ad abbandonare le loro alquanto rigide regolamentazioni che proteggono abbastanza efficacemente il loro paese dai guai in cui è immerso il capitalismo finanziario multinazionale.

Ripeto da dieci mesi nel Diario della crisi finanziaria, ma da decenni nella mia attività di economista prima la servizio di una sala operativa e poi del mio sindacato di categoria, segnalo che, se a nessuno sfuggono i guasti prodotti dai regimi vincolistici o iper vincolistici quali quello che ha sperimentato l’Italia dal 1936 alla fine degli anni Ottanta, regimi nei quali è consentito a pochi quello che è severamente vietato ai più, altrettanto palese è che non è stato molto saggio seguire pedissequamente i desiderata dei banchieri di investimento e non, finendo, come è purtroppo tragicamente avvenuto, con il buttare via il bambino con l’acqua sporca ed accettare se non favorire un processo degenerativo del quale ora stiamo iniziando a cogliere i frutti avvelenati, letali assaggi di un più ampio raccolto sulle dimensioni del quale le valutazioni divergono molto, ma certamente in grado di determinare uno scenario rispetto al quale è molto facile prevedere che, alla fine dei giochi, nulla sarà come prima, con buona pace di Henry e degli apprendisti stregoni che la sua banca ha allevato, vezzeggiato ed ampiamente gratificato per un tempo veramente infinito.

Ma, come spesso accade, il diavolo fa le pentole ma raramente è in grado di fare i coperchi, e se questo, ragionando in lassi di tempo opportuni, è sempre vero, ancor più lo è quando l’avidità, la spregiudicatezza ed una mentalità che non è esagerato definire criminale divengono i valori di riferimento di una intera classe di finanzieri rampanti del tutto incuranti degli ampi e devastanti effetti collaterali delle loro azioni, comportamenti che hanno mandato letteralmente in frantumi quell’American Dream che vedeva nella casa, intesa come un’unità autonoma in luogo dell’alquanto anonimo e spersonalizzante flat molto diffuso in Europa, nella mobilità a basso costo ed in una relativa fiducia nella correttezze lealtà dei comportamenti i suoi pilastri, un sogno che rischia sempre più seriamente di trasformarsi in un incubo, aprendo, in piena campagna elettorale, uno scenario di tutti contro tutti che presenta profili di rischio di dimensioni assolutamente mostruose.

Concordo pienamente con quanti sottolineano il carattere molto strumentale dell’indagine mutui malevoli in corso, per il semplice motivo che ritengo molto più esemplare quanto è avvenuto intorno alla defunta Bear Stearns e alle altre Investment Banks, così come comprendo pienamente i sentimenti della dirigente della Securities and Exchange Commission, Linda Chatman Thomson, capo della vigilanza della Sec, che non riesce a credere che quanto sta emergendo dal vero e proprio sistema di insider trading generalizzato possa, come purtroppo sta emergendo con dovizia di particolari dalle indagini, avere avuto tali dimensioni e riguardato buona parte dei miliardari posti al vertice delle entità di ogni ordine e specie operanti nel mercato finanziario globale, ed invoca, temo invano, l’istituzione di una potente vigilanza mondiale, quella che il povero Padoa Schioppa non è riuscito ad ottenere a livello europeo dai suoi riottosi omologhi posti al vertice dei dicasteri economici dei paesi dell’Unione europea.

Quanto sopra, non vuole assolutamente sottovalutare la gravità dei comportamenti di quei veri e propri procacciatori di mutui che hanno infestato per anni gli USA, né il ruolo delle spregiudicate finanziarie cui gli stessi facevano, a vario titolo, capo, ma soltanto evidenziare come sia gli uni che le altre non fossero altro che gli ultimi terminali di un sistema finanziario che, secondo Sarkozy e Koheler (presidente della Germania, ma in precedenza direttore generale del Fondo Monetario Internazionale), è letteralmente impazzito e, sempre a loro avviso, va regolato da un sistema di regole più rigide e sorvegliato da organismi meno distratti.

Se qualcuno pensa che queste siano considerazioni moralistiche lo invito ad esaminare le stime che sta offrendo al mercato un omonimo di Henry Paulson non avente con lui alcun rapporto di parentela ed assiso al vertice di uno dei più grandi hedge fund del pianeta, a quanto afferma John Paulson in una intervista al Financial Times ricordata da Federico Rampini nell’articolo citato di sopra.

Ebbene, l’altro Paulson, uno dei pochi a lanciare per tempo l’allarme su quanto stava purtroppo per accadere, smentisce le già drammatiche stime relative alle perdite in circolazione, stime che, nella loro versione più cupa (FMI) si fermavano a 945 miliardi di dollari, parlando di una perdita potenziale che, almeno al momento, non dovrebbe essere inferiore ai 1.300 miliardi di dollari.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/