lunedì 23 giugno 2008

Una gola profonda mette nei guai UBS


Mentre la crisi finanziaria sta sempre più nettamente imboccando la strada dell’accertamento delle responsabilità delle diverse entità operanti nel mercato finanziario globale o quelle dei singoli individui, è destinata a suscitare clamore la deposizione di Brandley Birkenfeld, cittadino americano ed ex manager del colosso creditizio extracomunitario UBS, in quanto, pur dichiarandosi colpevole di aver gestito trasferimenti di capitale di cittadini statunitensi verso paradisi fiscali allo scopo di eludere il fisco, ha aggiunto di averlo fatto, insieme ad un imprecisato numero di colleghi, in nome e per conto della stessa UBS.

L’outing di Birkenfeld aveva già provocato, l’11 giugno, la richiesta di assistenza alle autorità della Confederazione elvetica da parte delle autorità federali statunitensi, ma ora agli svizzeri viene chiesto di non opporre il segreto bancario alle indagini ed è stato dato mandato al Federal Bureau of Investigations di cercare di capire l’entità effettive del fenomeno e, soprattutto, di cercare di mettere le mani su quella lista di 20 mila clienti di UBS che si sono avvalsi di questo molto particolare servizio offerto dalla banca, un’attività che, a naso, potrebbe avere sottratto svariati miliardi di dollari al severo fisco USA.

Già nei giorni scorsi, i vertici di UBS si erano precipitati a garantire la massima collaborazione, anche se vi è, nell’ambito del quartier generale della banca, la piena consapevolezza che l’eventuale trasmissione delle informazioni richieste dagli inquirenti porterebbe un colpo mortale alla sua attività di compiacente gestore dei patrimoni provenienti da un numero di paesi che è di poco inferiore a quello delle nazioni rappresentate all’ONU, denaro dalle provenienze più disparate e non sempre alimentato da chi ha l’unico obiettivo di evadere le tasse nel proprio paese, ma che potrebbe anche trarre alimento da fenomeni quali il riciclaggio di denari sporco, il traffico internazionale di stupefacenti o piacevolezze del genere.

D’altro canto, pur di evitare l’altrettanto letale minaccia di vedersi revocata la licenza all’esercizio del credito negli Stati Uniti d’America, agli alquanto angosciati banchieri svizzeri non resta che cercare di minimizzare i danni derivanti da questa pressantemente richiesta collaborazione, anche perché la Confederazione ha durato non poca fatica per evitare il rischio di finire sulla black list che include i paesi che non forniscono sufficienti garanzie in termini di trasparenza e contrasto ai movimenti di capitale di dubbia provenienza, una lista che è stata particolarmente “attenzionata” dopo i tragici fatti dell’11 settembre 2001, anche grazie ai poteri significativi attribuiti alle entità che in ogni paese si sono viste attribuire l’onere di vigilare sul versante finanziario delle attività terroristiche.

La collaborazione dei banchieri svizzeri, attualmente alle prese con svalutazioni mostruose di parte del loro attivo e di una vivace contestazione da parte dei loro azionisti capitanati dall’ex amministratore delegato Luqman, è peraltro dovuta, in quanto proprio nel 2001 (una data non del tutto casuale) è stato stipulato un accordo tra il governo statunitense e quello svizzero, accordo che prevede l’obbligo per le banche svizzere di segnalare i clienti che hanno legami fiscali con gli Stati Unitid’America.

Non del tutto a caso, nell’ambito del più generale processo di riorganizzazione della Banca d’Italia, Mario Draghi ha voluto che l’Ufficio Italiano dei Cambi, l’entità che svolge questa attività di vigilanza e di contrasto per l’Italia, diventasse parte integrante della banca centrale e ne ha affidato la responsabilità all’ottimo De Cataldo, la persona che fece saltare i progetti di quei furbetti del quartierino che vedevano nell’allora Governatore, Antonio Fazio, il loro nume tutelare e nell’allora responsabile della Vigilanza una sorta di loro consulente.

Non vorrei apparire un dietrologo di professione, ma ritengo che l’inchiesta Alce Nero della procura di Forlì avente ad oggetto un traffico di capitali di dimensioni non meglio precisate tra l’Italia e le alquanto disinvolte banche e finanziarie che affollano la Repubblica di San Marino meriti grande attenzione da parte di De Cataldo e dei suoi preparati collaboratori, così come meriterebbe l’attenzione delle cronache nazionali dei quotidiani e degli altri media, cosa che, salvo qualche lodevole eccezione, non si è assolutamente verificata, pur essendo sotto indagine in qualità di controparti italiane un discreto numero di grandi banche con sede all’interno dei nostri confini nazionali.

Ricordavo ieri le drammatiche cifre fornite da John Paulson, gestore dell’omonimo hedge fund ed uno dei pochissimi che avevano lanciato per tempo l’allarme sulla possibilità che le cose nel mercato finanziario globale si mettessero proprio male (è sua la previsione di una perdita finale di 1.300 miliardi di dollari a carico di banche, compagnie di assicurazione, fondi pensione e fondi di investimento), ma credo opportuno ricordare che le dimensioni del mercato ascendono a 150 mila miliardi di dollari, 50 mila dei quali sono gestiti da un numero molto esiguo di soggetti, dieci per l’esattezza.

Se la tempesta perfetta non riesce a placarsi, una parte non secondaria della spiegazione sta proprio nell’elevatissima concentrazione degli assett gestiti a fronte di una più o meno equivalente raccolta, così come non va sottovalutato il fatto che alcune di queste entità presenti nella Top Ten, sono banche ordinarie che si trovano nella non piacevole situazione, almeno in questa difficile fase, di vedere un peso dell’attività creditizia tradizionale ampiamente sovrastata da quello abnorme assunto dalle attività finanziarie.

Si tratta di un fenomeno che, insieme al livello mostruoso assunto dal rapporto tra indebitamento e patrimonio che caratterizza da tempo le Investment Banks (un rapporto che, a livello lordo, oscillava sino a qualche mese orsono intorno al proibitivo valore di 30), spiega l’assoluta inutilità delle azioni compiute dai regolatori e dalle banche centrali, entità che, per loro stessa ammissione, conoscevano solo una piccola parte dei fenomeni sottostanti ed hanno agito a partire da questa loro non conoscenza, esaurendo, per di più, in un breve lasso di tempo, la quasi totalità delle munizioni a loro disposizione, o almeno questo è quanto è avvenuto negli Stati Uniti grazie alle dissennate mosse di Bernspan ed i numerosi colpi a vuoto esplosi dal ministro del Tesoro, Henry Paulson, che, a differenza del mire professore di Princeton, delle dimensioni del fenomeno una qualche idea ce l’aveva, anche alla luce del fatto che sino a metà del 2006 era un banchiere di investimento di lunghissimo corso presso la fortunata e molto preveggente Goldman Sachs.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/