giovedì 7 luglio 2016

La politica britannica in pezzi dopo la Brexit


Sono di ritorno da un breve soggiorno in una città dell'Inghilterra che è stato un epicentro della rivoluzione industriale e una storica roccaforte del partito laburista ma dove, una settimana prima del mio arrivo aveva vinto il leave, seppur non in proporzioni drammatiche, lasciando intendere quanto sia stato profondo il sommovimento che ha portato, forse al di là delle stesse reali intenzioni dei promotori del fronte dell'abbandono dell'Unione europea, quasi un milione e mezzo di cittadini britannici a fare la differenza con quel 48 per cento di loro compatrioti che invece hanno votato per rimanere.

Ma è quello che è successo dopo il voto ad essere realmente surreale con le dimissioni a certo tempo data di David Cameron che ha dato due mesi e mezzo di tempo al suo partito, che gode alla Camera dei Comuni di una maggioranza solida, per individuare il nome del suo successore, aprendo di fatto una fase di estrema incertezza sul nome, anche se è quasi certa l'investitura al congresso dell'attuale ministro dell'interno, la non proprio carismatica May, ma quello che ha colpito davvero è stato il passo indietro del vincitore nell'ambito del partito conservatore, Boris Johnson, un uomo che tutti davano a Downing Street in sostituzione di Cameron e che è stato certamente vittima di una congiura di partito, ma che è sembrato sollevato all'ipotesi di non essere lui il primo ministro che dovrà trattare con la Commissione europea i termini della separazione.

Ma se Atene piange Sparta di certo non ride e, con una schiacciante maggioranza di eletti in Parlamento, è stato chiesto al leader laburista, Jeremy Corbyn, di farsi da parte e lasciare il passo ad un nuovo leader che eviti, in caso di nuove elezioni, che i laburisti patiscano una cocente sconfitta, richiesta alla quale il pressoché neoeletto Corbyn ha opposto un netto rifiuto, effettuando un rapido rimpasto del governo ombra con pochissimi esponenti che hanno dovuto accettare doppi incarichi per sopperire ai vuoti lasciati dai dimissionari.

Ma quello che ha fatto più clamore è stato l'abbandono della scena politica da parte del vero vincitore del referendum, quel Nigel Farage che non ha convinto nessuno sui veri motivi del suo gesto e che ha dato l'idea di non volere essere coinvolto in quella oscura fase del dopo rispetto alla quale nessun politico britannico sembra avere le idee chiare, con la sterlina che continua ad essere ai minimi storici e mentre non si sa nulla delle intenzioni di imprenditori e finanzieri che, prima del voto, avevano minacciato di trasferire sul continente europeo la sede delle loro attività, con un impatto che è stato stimato, se alle parole seguiranno i fatti,  come quantificabile nella perdita di qualche centinaio di migliaia di posti di lavoro!

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