venerdì 26 dicembre 2008

Eppure, è stata davvero una buona annata!


A dimostrazione della dimensione del tutto planetaria della tempesta perfetta in corso da poco meno di diciassette mesi, il Giappone ha conosciuto nel mese di novembre la maggiore flessione su base annua (-20,4 per cento) nelle vendite di automobili e camion mai registrata da quando il dato viene registrato nel paese del sol levante, una flessione che porta il numero totale di veicoli venduti ben al di sotto della soglia psicologica del milione (854 mila) e che proietta un volume di vendite per il 2009 di poco inferiore ai 5 milioni di veicoli, che va confrontato con il picco storico di 7,87 milioni toccato nel 1990, quando non si era ancora del tutto sgonfiata la bolla speculativa che ha toccato il suo culmine nel 1989.

Il primo rosso della sua lunga storia annunciato di recente dalla Toyota, che ha defenestrato l’attuale numero uno riportando alla guida del gruppo automobilistico un erede diretto del fondatore, rischia così di non essere un episodio isolato ed è molto probabile che, al pari della Honda e della Nissan, anche la società che è stata maggiormente studiata dai suoi concorrenti globali per comprendere meglio i segreti del suo successo, dovrà mettere in atto drastiche contromisure in termini di chiusure di impianti e riduzione del numero dei dipendenti.

Come è ampiamente noto ai miei lettori, non appartengo alla schiera dei cultori dello sviluppo perenne, in particolare ove questo modello sia, come purtroppo è, ampiamente basato sull’obsolescenza programmata dei prodotti, nonché ben inserito in quel processo di redistribuzione del reddito e della ricchezza in corso non solo all’interno dei paesi maggiormente industrializzati, ma anche, e forse in modo ancor più stridente, a livello planetario, ma ciò non toglie nulla alla drammaticità di quanto sta avvenendo in quello che resta il cuore dell’industria manifatturiera, una distruzione di capacità produttiva che promette, per l’anno che verrà, livelli di output che mancheranno dell’equivalente della produzione tedesca e francese messe insieme, ovviamente ammesso che ciò possa bastare.

Pur con tutto il suo carico di perdite cifrabili prudenzialmente in migliaia di miliardi di dollari, un fenomeno di credit crunch che distruggerà offerta di credito per decine di migliaia di miliardi, sempre di dollari, la radicale messa in discussione degli a volte già precari equilibri di bilancio pubblico, la sua ecatombe di posto di lavoro stabili e ben retribuiti nei settori maggiormente colpiti, la tempesta perfetta può anche essere l’occasione per un ripensamento collettivo su quei più che evidenti limiti dello sviluppo, almeno nella versione attuale che non si discosta poi troppo dalle linee fondanti della cosiddetta seconda rivoluzione industriale, l’opportunità, forse irripetibile, per aprire le porte a quella terza rivoluzione industriale basata su fonti energetiche alternative e maggiormente locali, su un connubio più intelligente tra la dimensione globale e quella locale, sul rispetto di quella biodiversità così pervicamente combattuta dai teorici dell’approccio monoculturale e via discorrendo.

Non serve a molto che tutto questo era stato indicato a chiare lettere dai premi Nobel raccolti nel cenacolo del Club di Roma animato da una persona come l’ingegner Aurelio Peccei ben venti anni prima di Rifkin, Gore e gli attuali epigoni di uno sforzo per evitare di superare, e stavolta definitivamente, il punto di non ritorno dell’equilibrio ecologico del pianeta, in quanto serviva ben altro che la saggezza e la forza delle argomentazioni di un piccolo gruppo di donne e uomini di buona volontà per combattere l’illusione della crescita illimitata basata su quel mix davvero micidiale rappresentato dai concomitanti fenomeni della finanziarizzazione, della globalizzazione e della deregolamentazione selvaggia, un’illusione che ha portato a quella crescita drogata e pressoché ininterrotta dell’economia, sia a livello finanziario che reale, negli ultimi ventidue anni.

Mi sembra strano che non siano ancora spuntati come funghi autori che vedano similitudini tra le patologie prodotte dagli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto delle Investment Banks (oggi in gran parte, e fortunatamente, ex) e delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche a carattere più o meno globale e quelle vissute dall’Europa ai tempi della peste e delle altre infezioni che spazzarono via una parte non marginale della popolazione europea dell’epoca, creando le premesse ante litteram della prima rivoluzione industriale, quella basata sui tristemente noti enclosure acts (tristemente assonanti agli odierni foreclosure), sul vapore e sul telaio meccanico!

Ho letto di recente un interessante articolo sulle professioni scelte da parte degli espulsi dal dorato mondo dell’investment banking, un foltissimo esercito di donne e di uomini che sono stati costretti ad abbandonare, talvolta in massa e con gli scatoloni in mano come nel caso di Lehman Brothers, la loro attività a ciclo continuo, basata su valori suoi propri e su ritmi difficilmente sostenibili da persone non ben addestrate e altrettanto, se non più, ben remunerate e motivate, molte delle quali, dopo il repentino, brusco e amaro risveglio, necessitanti di adeguato supporto psicologico, se non di un vero e proprio percorso di disintossicazione dopo anni, se non decenni, di blackberry, telefoni cellulari sempre accesi, monitor Reuters o Bloomberg accesi anche nell’initimità della camera da letto.

E’ stato con vero piacere che ho appreso che una parte almeno di queste persone è dato alle attività più disparate, da corsi di cucina per bambini alla meditazione più o meno trascendentale, dalla scrittura al sacerdozio, dal ritorno alla terra all’insegnamento, dal volontariato all’artigianato. Consiglio a chi non l’avesse ancora visto il film Una buona annata, opera quasi profetica di quanto stiamo vivendo.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.