Come ripeto da tempo, la questione centrale dell’attuale fase continua a essere quello dell’occupazione, o meglio della disoccupazione, e quello a esso strettamente collegato dei consumi, due questioni delle quali sembrano essersi accorti oggi anche gli investitori che, dopo aver fatto conseguire ai tre principali indici statunitensi i massimi dell’anno, sembrano essere divenuti esitanti.
Il permanere delle richieste settimanali dei sussidi di disoccupazione al di sopra della soglia delle 500 mila richieste e il calo delle vendite dei negozi americani del gigante degli sconti Wal-Mart nel terzo trimestre hanno chiarito che l’uscita dalla crisi sarà molto lenta, mentre l’orizzonte è tutt’altro che scevro di incognite.
Sembra strano che queste due notizie abbiano sortito più effetto dell’allarme lanciato da due presidenti regionali della Fed che avevano avvertito che bisogna abituarsi all’idea di avere tassi elevati di disoccupazione per molti anni e che questo, ovviamente, inciderà sui consumi e renderà più debole la ripresa.
A onta del calo delle vendite nei negozi americani aperti da più di un anno, Wal-Mart ha registrato una crescita dei profitti del 3 per cento e un incremento delle vendite a livello mondiale da 98,3 a 99,4 miliardi di dollari, mentre gli analisti puntavano su un volume totale delle vendite di 99,9 miliardi di dollari, ma quello che ha davvero spaventato gli investitori è che è previsto un calo delle vendite dei negozi americani anche nel quarto trimestre, normalmente il trimestre nel quale le vendite di questa come delle altre catene americane sono più elevate a causa del Christmas Spending e delle politiche molto aggressive di offerte.
Per avere un’idea dell’importanza di Wal-Mart, basti pensare che l’anno scorso ha totalizzato vendite per 400 miliardi di dollari, al punto che è considerato dagli analisti un efficace barometro della spesa dei consumatori americani, così il fatto che le vendite nel terzo trimestre siano scese dello 0,3 per cento ha destato ancor più preoccupazione del fatto che il tasso di disoccupazione sia giunto in ottobre al 10,2 per cento.
Nonostante un calo del 2,5 per cento, il prezzo del petrolio continua a mantenersi nell’area dei 77 dollari al barile, un livello che è da molti considerato come una vera e propria minaccia per le speranze di ripresa, anche se difficilmente gli scommettitori molleranno la presa da questo segmento di attività che sta garantendo enormi livelli di profitti.
Parlando in marigne ai lavori dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC), il ministro del Tesoro, Timothy Geithner, ha provato a ripetere il mantra ripetuto per decenni da tutti i suoi predecessori e cioè che gli Stati Uniti d’America si adoperano e si adopereranno per un dollaro forte, un’affermazione che stride alquanto con il deficit federale che per lo scorso hanno fiscale è stato di 1,400 miliardi di dollari e che non dovrebbe essere di molto inferiore a tale livello anche per l’anno fiscale appena iniziato, il bello è che tra quelli che lo stavano ad ascoltare vi erano i maggiori detentori stranieri di dollari e di titoli di stato denominati in tale valuta, persone costrette, per evidenti ragioni, a credere alla veridicità di quanto affermato da Geithner.