E’ oramai il terzo giorno consecutivo che il mercato azionario statunitense registra ribassi, ma stavolta la causa non è tanto interna quanto proveniente dall’altro lato dell’Oceano Atlantico, più in particolare in quel di Francoforte, da dove il germanizzato Jean Claude Trichet, presidente della Banca Centrale Europea, ha detto che è giunto il momento di ritirare il supporto eccezionale alle banche europee.
Buona parte del recente rally delle borse era dovuto alle ripetute promesse dei ministri dell’economia del G20 sul mantenimento delle misure eccezionali varate nell’ottobre del 2008, quando, dopo il fallimento di Lehman Brothers e la seconda ondata di nazionalizzazioni e salvataggi, sembrava davvero che si dovesse registrare il default sistemico del mercato finanziario globale.
Come ricorderanno i lettori del Diario della crisi finanziaria, la tempesta perfetta ebbe inizio proprio in Europa il 9 agosto del 2007 con il blocco totale della liquidità sul mercato interbancario e il primo mega intervento da parte della BCE, ma è evidente che Trichet è convinto che oramai le banche possano fare da sole.
L’intervento di Trichet deve avere gelato i partecipanti al Congresso dell’associazione bancaria europea, molti dei quali avranno iniziato subito a fare i conti di quanto costerà alle rispettive banche il venir meno del sostegno generoso della BCE, anche se è sicuro che i rubinetti non verranno chiusi bruscamente, basterebbe pensare che una delle misure annunciate sempre oggi dall’istituto di Francoforte, quella che prevede il doppio rating per i titoli che possono essere forniti dalle banche come collaterali riguarderà solo i titoli emessi dal 1° marzo dell’anno prossimo.
Il presidente della BCE ha usato anche toni duri nei confronti del comportamento delle banche, ma questa non è una novità, né sembra che i presenti se la siano presa più di tanto per i riferimenti ai bonus e al restringimento dell’offerta di credito all’economia.
A proposito di bonus, è molto interessante quanto sta avvenendo in casa della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, dove, stando a un informatissimo servizio del Wall Street Journal, sarebbe in corso una rivolta dei grandi azionisti contro la attribuzione di qualcosa come venti miliardi di dollari di premi ai dipendenti, un multiplo degli utili distribuiti sotto forma di dividendi agli azionisti, una distribuzione della ricchezza prodotta che appare iniqua ai possessori di pacchetti azionari rilevanti di Goldman.
Molto piccato, il portavoce di Goldman, Lucas van Praag, ha replicato che le critiche sui bonus sono fuori luogo, in quanto, a suo dire, gli azionisti vogliono che la compensation sia tale mantenere i talenti interni e da essere attrattiva per i talenti che aspirano a entrare in Goldman, una precondizione indispensabile per garantire i profitti futuri.
Gli azionisti ribelli obietterebbero che, pur tenendo conto delle ferree, almeno in terra statunitense, regole della meritocrazia, 775 mila dollari a testa, una media che prende in considerazione anche gli addetti a mansioni esecutive, sembrano un po’ troppi anche per gli addetti alla banca più potente del pianeta!