mercoledì 18 gennaio 2017

Ma il mondo rischia davvero di essere meno globale!


Quando ho scritto la puntata di ieri sul possibile e parziale tramonto della globalizzazione che, invisa ai sindacati dei paesi ricchi, ha comunque fatto uscire dalla povertà un miliardo di persone in quelli che un tempo erano chiamati paesi in via di sviluppo, non avevano ancora parlato da Davos il presidente cinese, new entry in questo prestigioso consesso, né uno dei consiglieri economici di quel Donald Trump che, a tre giorni dall'insediamento, è in caduta libera nei sondaggi, né, dalla Lancaster House, si era pronunciata Theresa Maybe, come è appellata la premier britannica per i suoi continui tentennamenti sul percorso, e soprattutto sui tempi, della Brexit e che ieri ha dettagliato in maniera chiara la posizione inglese sulle principali materie del contendere, iniziando con il chiarire che la Gran Bretagna non aspira a continuare a far parte del mercato comune europeo, ma vuole un patto tra pari, in assenza del quale il suo Paese si candida a diventare il più grande, almeno per dimensione, paradiso fiscale per aziende e possessori di capitali, un'ipotesi che Trump sta vagheggiando anche per gli Stati Uniti d'America con la flat tax per le imprese fissata ad un 15 per cento, un livello del tutto proibitivo per i maggiori paesi membri dell'Unione europea.

Accantonando, almeno per ora, i 12 punti del discorso della May che vede con estrema preoccupazione l'infoltirsi della delegazione comunitaria alle trattative sulla Brexit, composta da personaggi che sono universalmente definiti dei "mastini", torniamo a Davos dove il presidente cinese Xi Liping ha tenuto un discorso che molti osservatori hanno definito in stile Obama, un discorso tutto centrato sulla necessità di mantenere l'attuale livello di globalizzazione e paventando, seppure in sordina ma ben udite dai partecipanti occidentali, in primis da quelli statunitensi, minacce di ritorsione rispetto a chi volesse tornare ai dazi commerciali, forte del trilione di TBonds nelle mani delle banche statali cinesi.

Mi ha colpito, ma non stupito, l'elezione di Donald J Trump a quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d'America, ma mi colpisce molto di più che, in una fase che viene da tutti definita di luna di miele tra il nuovo eletto e l'opinione pubblica, il suo livello di popolarità nei sondaggi sia precipitato al 40 per cento, livello in parte giustificato dal fatto che in numerose uscite pubbliche non ha smorzato i toni da campagna elettorale e che, invece di assumere un profilo maggiormente presidenziale e spesso nello sconcerto degli stessi individui da lui designati a ricoprire posizioni chiave nel suo Governo, ha ribadito le posizioni maggiormente controverse assunte nel corso della lunghissima e infuocata campagna elettorale, tra cui quella sui dazi commerciali e sul muro con il Messico.

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