Mentre il petrolio registra una lieve flessione in gran parte spiegabile con il rafforzamento del dollaro, giunge la notizia che uno dei più grandi fondi di investimento statunitensi, Pimco, è andato corto in marzo di titoli del tesoro USA, sta cioè vendendo titoli che non ha per il 3 per cento del totale delle sue attività, mentre in febbraio la sua posizione in Treasury Bonds e Treasury Bills era pari a zero.
Non credo di dovere molte spiegazione ai miei smaliziati lettori sul significato di una posizione del genere, non a caso spiegata dal prossimo esaurirsi del Quantitative Easing II e dal fatto che la lotta tra repubblicani e democratici al Congresso sul budget ha visto un compromesso su tagli per 38 miliardi di dollari contro un rosso previsto di oltre 1.300 miliardi di dollari e un indebitamento totale oramai prossimo ai 14 trilioni di dollari.
Senza il supporto della Fed e la marea di titoli in mani straniere, in particolare cinesi, il prezzo dei titoli del Tesoro statunitensi colerebbero a picco e i rendimenti andrebbero alle stelle, ad una velocità non molto diversa da quella dei titoli dei paesi dell’area euro per i quali si è dovuti ricorrere agli interventi tripartiti tra FSFB, Unione europea e Fondo Monetario Internazionale o per quelli, come il Portogallo che è in attesa di ricevere gli aiuti richiesti.
Parlo ovviamente di velocità ma non di livelli assoluti, anche se una decisione di parziale alleggerimento dei grandi detentori stranieri potrebbe tradursi in cali dei prezzi ancora più sensibili, mentre è certo che gli investitori istituzionali statunitensi non potranno non tenere conto della mossa di Pimco.