La tempistica dell'uscita di Fabrizio Viola dal Monte dei Paschi di Siena è davvero molto, ma molto strana, per il semplice motivo che la banca senese è nel bel mezzo di una maxi operazione di aumento di capitale e in piena trattativa con il Fondo Atlante per una operazione di pulizia del bilancio da 9,2 miliardi di euro di sofferenze che corrispondono a qualcosa di più di 27 miliardi di euro di sofferenze lorde, un'operazione che nel giro di pochi mesi dovrebbe azzerare le sofferenze della terza banca italiana che resterebbe "solo" con venti miliardi di euro di crediti deteriorati, nei quali ritroviamo le partite incagliate, i ritardi nei rientri oltre un certo tempo del ritardo stesso e via discorrendo.
E' come cambiare il pilota di un'auto da corsa mentre sta andando a 250 chilometri all'ora o sostituire un chirurgo nella fase più delicata di un'operazione a cuore aperto, comunque un qualcosa che non ho mai visto accadere nel sistema bancario italiano, un sistema che seguo da oltre 35 anni, ma non mi risultano fattispecie analoghe neppure in altri paesi confrontabili con il nostro e allora credo proprio necessario fare un passo indietro e tornare al momento in cui dagli uffici della vigilanza della Banca Centrale Europea è partita la lettera che intimava al Monte dei Paschi di Siena di azzerare, entro il 2018, le sofferenze nette in essere, una richiesta tassativa della Nouy che implicava oneri per la banca nell'ordine di tre miliardi di euro circa e che avrebbe quindi richiesto un aumento di capitale almeno pari a quella cifra.
La risposta di Viola a questa richiesta della vigilanza europea ha lasciato tutti di stucco, in quanto non solo non ha approfittato dell'arco temporale offertogli dalle due arcigne signore alla guida dell'organismo con sede a Francoforte e che permetteva di spalmare la cessione delle sofferenze dal 2016 al 2018 e ha annunciato la cessione pressoché istantanea delle sofferenze ad un Fondo Atlante che faticava a reperire le somme necessarie, ma annunciando al contempo un aumento di capitale non di tre bensì di cinque miliardi di euro, coinvolgendo nella azzardata richiesta Mediobanca e J.P. Morgan Chase.
Nel corso dell'estate, la banca d'affari milanese e il colosso creditizio statunitense hanno messo al lavoro uno stuolo di professionisti alle loro dipendenze che hanno contattato centinaia di entità finanziarie raccogliendo risposte più o meno evasive e ben poche adesioni, in quanto il mercato era in attesa di capire dove avrebbe portato l'azzardo dei vertici della banca senese, altrettanto è accaduto alla Cassa Depositi e Prestiti che ha cercato di convincere gli emiri del Qatar a impegnare una parte del loro fondo sovrano nell'operazione; tutte difficoltà che i soggetti impegnati nell'operazione hanno rappresentato sia ai vertici del Monte dei Paschi che al ministro dell'Economia, nonché, probabilmente, allo stesso presidente del consiglio.
L'amministratore delegato di MPS cerca allora di correre ai ripari e parla della possibilità di ridurre l'aumento di capitale a tre miliardi, offrendo ai soggetti istituzionali che detengono obbligazioni subordinate della banca di convertirle, su base volontaria, in azioni della stessa, ma non prendendo in considerazione la possibilità di rateizzare la cessione degli oltre nove miliardi di euro di sofferenze in due o tre tranche, opzione che avrebbe consentito di spalmare nell'arco di tempo considerato anche la richiesta al mercato per quanto riguarda l'aumento di capitale.
A questo punto, sia il Governo che i presidenti di MPS e CDP, Tononi e Costamagna, peraltro accomunati dalla comune esperienza in Goldman Sachs, si rendono conto che, nonostante i rischi che questo comporta, è necessario dare un segnale forte di discontinuità al mercato sostituendo l'amministratore delegato e facendo slittare di qualche mese l'aumento di capitale che così non si incrocia più con la delicata scadenza del referendum e, così, dopo un burrascoso colloquio tra Tononi e Viola, si giunge al comunicato in cui si parla dell'uscita di Fabrizio Viola.
D'altra parte, la prospettiva era quella di un fallimento dell'operazione di aumento di capitale che apriva a due scenari: l'intervento statale o l'apertura della procedura di risoluzione della banca più antica d'Italia con annesso bail in.
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