Quando ho scritto una puntata del Diario della crisi finanziaria sullo stesso argomento era qualche mese prima di quel giugno di quest'anno di disgrazia 2016 che era visto da quasi tutti gli analisti e i fedwatchers come la data limite per il secondo aumento dei tassi di interesse da parte di Janet Yellen e compagni e ricordo bene che allora scrivevo che il rialzo non ci sarebbe stato né allora, né comunque prima delle elezioni presidenziali, ma anche di rinnovo del Congresso, di vari Governatori, giù giù fino alle contee e agli sceriffi locali, ma anche che, senza accelerazioni improvvise dell'occupazione o della produzione industriale, molto probabilmente questo fantomatico secondo rialzo sarebbe stato rinviato al primo trimestre del 2017, a dopo l'insediamento del prossimo presidente degli Stati Uniti d'America.
Siamo arrivati a fine agosto e il rialzo non c'è ancora stato e, anche questa volta, analisti, osservatori e fedwatchers colgono ogni segnale proveniente dai membri del Federal Open Market Committee, il massimo organismo decisionale della Fed, o dalla stessa Yellen per scommettere su un rialzo che dovrebbe avvenire, a loro dire, quasi sicuramente tra settembre e ottobre e nel dire questo dimenticano, a mio avviso, un paio di cosette di una certa importanza sulle quali cercherò di soffermarmi in questa puntata.
La prima è rappresentata dal forte surriscaldamento del mercato azionario statunitense, con i tre indici che macinano record storici a livelli altissimi un giorno sì e l'altro pure, una situazione estremamente tesa come dimostrano le flessioni che gli stessi tre indici stanno registrando da alcune sedute, flessioni certamente modeste, ma che fanno pensare a una situazione non troppo diversa da quella del Nasdaq del 2001, quando in poco tempo l'indice tracollò dai 5 mila punti (la stessa soglia sulla quale si trova ora) a meno della metà, costringendo Alan Greenspan, allora presidente della Fed, a inondare letteralmente il mercato di liquidità per impedire fallimenti a catena degli operatori finanziari, per non parlare di quanto è accaduto nel 2007, quando il Dow Jones toccò i 16 mila punti in piena tempesta perfetta per poi tracollare miseramente nelle settimane e nei mesi successivi, seguito a ruota dal Nasdaq e dallo Standard & Poor's 500 (è del resto quello che sta aspettando George Soros che proprio contro il più solido degli indici a stelle e strisce, lo S&P 500) si sta scommettendo la camicia e i proventi delle speculazioni vincenti contro la sterlina britannica.
Chi sottovaluta l'impatto di un rialzo dei tassi su un mercato azionario surriscaldato e che ha perso quasi del tutto il rapporto con i fondamentali ignora bellamente che un calo del 10-15 per cento degli indici, unito all'impatto sui mutui di un secondo rialzo del costo del denaro e quindi dei mutui, spedirebbe dritto dritto alla Casa Bianca anche un uomo palesemente incapace come Donald Trump e questo, quell'onesto gruppo di benpensanti un po' liberal che affolla le riunioni del FOMC certamente non lo vuole, al punto di far scattare il rialzo un minuto dopo (si fa per dire) l'esito delle elezioni presidenziali.
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