Le forti flessioni delle borse di tutto il mondo vengono presentate come semplici prese di profitti dopo la crescita delle quotazioni che ha preceduto l’election day statunitense, ma, come cerco di ripetere da lungo tempo, non sono che il segnale della prosecuzione della tempesta perfetta che fra pochissimi giorni entrerà nel suo sedicesimo mese di vita, senza che le sue ondate abbiano perso di intensità dopo che i governi e le banche centrali di tutto il mondo industrializzato hanno deciso di mettere assieme un piano di salvataggio che, seppure articolato su base strettamente nazionale, dispone complessivamente di risorse nell’ordine dei 4 mila miliardi di dollari.
Perché la mossa coraggiosa ed una volta tanto determinata dei decision makers del mondo maggiormente industrializzato non riesce ad avere ragione del persistente umore negativo dei risparmiatori/investitori, né a restituire al mercato interbancario un clima più disteso? La risposta, purtroppo, è alquanto semplice ed ha a che vedere fondamentalmente con la persistente assenza di quell’ingrediente fondamentale rappresentato dalla fiducia nei e tra i principali protagonisti del mercato finanziario globale, una fiducia che certo non trae alimentato dalle notizie provenienti dalle banche e dagli altri soggetti beneficiati da miliardi di dollari, di euro o di sterline di aiuti pubblici e che sembrano ostinarsi a non modificare in alcun modo i loro comportamenti, né rinunciare a politiche di compensation veramente incredibili alla luce delle condizioni in cui versano i loro bilanci, peraltro meno trasparenti a causa dell’abbandono di fatto e di diritto di un principio contabile quale è il mark to market delle attività finanziarie presenti per decine e decine di migliaia di miliardi di dollari nei conti delle banche, delle compagnie di assicurazione, degli hedge funds, dei fondi pensione e dei fondi di investimento.
La sproporzione più che evidente tra le munizioni a disposizione della mano pubblica rispetto alla montagna colossale di titoli della finanza strutturata più o meno tossici rappresenta il secondo elemento di risposta all’interrogativo di cui sopra, una sproporzione che è oramai evidente ai più ed è perfettamente rappresentata dalle dimensioni assunte dal mercato di quelle armi di distruzione di massa denominati Credit Default Swaps, strumenti originariamente intesi come puramente difensivi degli investimenti nei titoli rappresentativi del debito emesso da entità pubbliche o private, stati sovrani purtroppo ampiamente inclusi, ma ben presto divenuti oggetto di investimenti speculativi che hanno favorito la moltiplicazione dei rischi di controparte nel caso tutt’altro che peregrino di default dell’emittente.
La “sorpresa” derivante dall’insufficienza della mega iniezione di liquidità nel colosso assicurativo statunitense AIG, per il quale gli 85 miliardi di dollari stanziati di recente dal Tesoro Usa, stanziati a tambur battente e pressoché in contemporanea con la nazionalizzazione dei due colossi Fannie Mae e Freddie Mac, non sono stati assolutamente sufficienti, soprattutto dopo il sisma a catena rappresentato dal fallimento di Lehman Brothers, ed è stato necessario rioperare d’urgenza il malandato paziente iniettando un’altra dose di denaro pubblico nell’ordine di poco meno di ulteriori 40 miliardi di dollari (38 per la precisione, ma, soprattutto, per il momento), mentre è di ieri la notizia che una compagnia monoliner particolarmente esposta nelle garanzie prestate a quei titoli tossici che il mercato oramai valuta a dieci centesimi per dollaro, Ambac, è non solo incorsa nell’ennesima perdita trimestrale ma è stata anche ulteriormente degradata da Moody’s che, quasi in articolo mortis, ha degradato il suo rating come emittente a quello normalmente attribuito alle emittenti di junk bonds, universalmente noti come titoli spazzatura!
Dalle ultime informazioni statistiche diffuse dall’organismo che segue il mercato dei Credit Default Swaps, abbiamo, peraltro, ricavato la spiacevolissima notizia che l’Italia fa la parte del leone nella torta complessiva dei CDS, notizia probabilmente già nota o semplicemente supposta da quanti hanno spinto in poche settimane il differenziale tra il BTP ed il Bund tedesco da poche decine di punti base a 132 punti base, notizia che ha provocato più di uno strapazzamento in quel di Via XX Settembre, sede del dicastero italiano dell’economia e delle finanze e che certo non depone bene per il futuro prossimo venturo del nostro servizio del debito che si ostina a rimanere stabilmente ai piani alti della classifica mondiale, ove espressa in percentuale di quel prodotto interno lordo che proprio oggi l’FMI prevede si deprima dello 0,6 per cento nel corso del 2009.
Continua, nel frattempo, l’inerzia del governo italiano che, in pressoché totale solitudine tra i maggiori partners europei, continua a non muovere foglia e ad essere del tutto renitente rispetto all’emanazione di quel famoso decreto che prevederebbe interventi in favore del sistema bancario italiano, ma che il per la terza volta ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, continua a rinviare, manifestando così la sua opposizione ad un provvedimento che non preveda, come è suo espresso desiderio, serie conseguenze per i banchieri, rei, a suo avviso, di aver coinvolto anche le banche italiane, in particolare quelle di maggiori dimensioni, nell’attuale meltdown finanziario, ad onta delle reiterate ed alquanto superstiziose attribuzioni di patenti di estraneità delle nostre banche ai comportamenti in voga negli ultimi decenni a Londra ed a New York.
Non vorrei, tuttavia, che dietro questo mostruoso, e temo non definitivo, ampliamento del differenziale di rendimento tra il nostro decennale e quello tedesco non vi fossero soltanto ragioni squisitamente tecniche, ma che lo stesso sia in realtà determinato anche dalla volontà di alcuni tra i maggiori partners europei di lanciare un segnale chiaro e forte all’Italia, un segnale che tenderebbe a favorire l’ingresso nell’euro della sterlina, della corona svedese e della valuta danese tramite una “lezione” a quello che sembrerebbe essere considerato un paese poco disciplinato agli occhi delle opinioni pubbliche degli eventuali new comers, anche perché una lettura di questo tipo renderebbe più comprensibile l’evidente divario tra il taglio dei tassi di interesse britannici (dal 4,5 al 3,0 per cento), rispetto a quella decisa, sempre in data odierna, dalla Banca Centrale Europea!
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.