Mentre siamo tutti in attesa di sapere cosa tirerà fuori dal cappello Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia e presidente del Financial Stability Forum ed i trentanove altri suoi commensali all’ennesimo vertice convocato al solo scopo di prepararne un altro, il prossimo fine settimana a Washington, pessime notizie giungono dal fronte caldissimo dell’economia reale, in virtù di un pessimo dato sui Non Farm Payrolls nel mese di ottobre, ma, soprattutto, di una pesantissima revisione dei dati relativi ai due mesi precedenti.
Perdere 248 mila buste paghe in un solo mese e vedere il tasso di disoccupazione balzare dal 6,1 al 6,5 per cento nello stesso lasso di tempo non è certo qualcosa che capita tutti i giorni, ma scoprire che era più che fondato il sospetto che si stesse un po’, anzi tanto, barando sui dati dei mesi immediatamente precedenti alle elezioni presidenziali più importanti della storia degli Stati Uniti d’America, ebbene questo è, o almeno dovrebbe essere, molto più grave, anche perché, alla fine della fiera, la perdita effettiva di posti di lavoro nei tre mesi è stata più o meno pari a quella registrata nei primi sei mesi dell’anno in corso.
L’ennesimo brutto risultato trimestrale della General Motors non è altrettanto allarmante quanto la notizia che tra pochi mesi potrebbe proprio non esservi più un dollaro bucato nelle case della corporation presieduta da Wagoner, accompagnata dalla rinuncia al merger con Chrysler per il quale, come si dice sempre dalle parti di Detroit, non è proprio aria!
Come accade sempre più di sovente nel magico mondo delle borse e della finanza, notizie ferali di questo tenore vengono accompagnate da rialzi che, seppur poco probabili, contribuiscono ad allungare il brodo in attesa che accada un qualche cosa che è molto difficile capire cosa possa essere, anche perché tutto il fattibile è stato già fatto ed è molto difficile che dalla riunione di oggi in Brasile e da quella della settimana prossima a Washington possano uscire misure concrete in grado di contrastare il dilagare dell’effetto domino, anche perché molto difficilmente i capi di stato e di governo dei venti paesi maggiormente industrializzati del pianeta riusciranno a fare in due giorni quello che si sta tentando invano di fare da sedici mesi.
Anche perché è molto difficile immaginare che accada l’unica cosa che potrebbe consentirci di uscire da questa situazione e, cioè, che qualcuno sia in grado di convincere i risparmiatori/investitori a tornare ad avere fiducia di quelle entità protagoniste del mercato finanziario globale, come, peraltro, hanno fatto senza fiatare per ventitre anni, ogni volta dimentichi della fregatura di turno, poco importa quale era la denominazione dell’entità o il tipo di prodotto che la stessa aveva loro propinato, spesso proprio quei titoli della finanza strutturata che nessuno vuole più neanche ora che il prezzo di alcuni di questi titoli tossici è sprofondato a 10 centesimi per dollaro, addirittura la metà di quanto ha incassato qualche mese fa John Thain di Merrill Lynch, quando accettò di scambiare titoli per nominali 30 miliardi di dollari con poco più di sei miliardi di dollari e dovendo, per soprammercato, finanziare l’alquanto azzardoso compratore e garantirgli il riacquisto in caso di ulteriori perdite di valore dei titoli.
Sarei molto curioso di assistere al primo incontro tra il neopresidente Barack Obama e quanti sono stati arruolati in una sorta di gabinetto di guerra che ha la mission impossibile di quadrare il cerchio di questa tempesta perfetta in corso incessantemente da sedici mesi, anche perché credo che pochi come i personaggi convocati siano, fin nel loro intimo, acerrimi nemici dei capi delle Investment Banks e delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, fatta eccezione per quel Robert Rubin che vanta un curriculum da banchiere di investimento di tutto rispetto, anche se pare che venga pagato decine e decine di milioni di dollari per non fare assolutamente, o quasi, nulla.
Pur essendo il precedente un classico periodo ipotetico dell’irrealtà, provo ad immaginare almeno quello che direbbe il Leone di Omaha, Warren Buffett, ove dovesse trovarsi al cospetto di quella dozzina di esponenti delle banche e delle compagnie di assicurazione destinatarie di finanziamenti pubblici per decine e decine di miliardi di dollari, senza avere in realtà pagato alcun prezzo per gli errori da loro commessi, né essere stati più o meno elegantemente accompagnati alla porta dagli addetti alla sicurezza, e sono certo che serpeggerebbe il terrore in quei board of directors, come è serpeggiato nei consigli di amministrazione delle tante società nelle quali Buffett ha deciso di investire, sempre garantendosi un posto di consigliere.
Per fortuna dei banchieri italiani, o perlomeno di quelli assisi al vertice dei primi tre o cinque gruppi, difficilmente capiterà mai loro un’avventura del genere, in quanto il loro nemico giurato, il per la terza volta ministro dell’economia, Giulio Tremonti, non ha ancora ottenuto il via libera, né per l’espropriazione per decreto dei poco meno di 80 miliardi di euro rappresentanti il patrimonio delle fondazioni di origine bancaria, né per mettere alla porta una parte o tutti gli amministratori delegati dei principali gruppi creditizi del nostro paese.
Ma tutto si può dire del professor Tremonti, tranne che non sia un uomo capace di aspettare pazientemente in riva al fiume non tanto il passaggio del cadavere di un suo nemico giurato, quanto il momento più opportuno per convincere con solidi argomenti chi non aspetta altro che essere convinto a fare quello che farebbe molto probabilmente anche gratis!
Avverto i lettori che, salvo il verificarsi di eventi eccezionali, d’ora in avanti apparirà una sola puntata del Diario nel fine settimana, mentre ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito www.uil.it nella sezione del dipartimento di politica economica.