Ho dedicato più di una puntata consecutiva del Diario della crisi finanziaria allo scopo di mettere in guardia i miei lettori rispetto alla concreta possibilità di una nuova e ancor più devastante ondata della tempesta perfetta (vedi “Avviso ai naviganti nella tempesta perfetta”, parte prima, seconda e terza), collocando la maggior possibilità di realizzazione dell’evento tra le seconda metà di giugno e la prima metà di luglio non per doti medianiche che certamente non possiedo, ma semplicemente perché stavano evidentemente giungendo al pettine i nodi irrisolti che ho elencato nelle tre puntate citate.
Soltanto martedì scorso, mentre era in corso la seconda seduta consecutiva significativamente negativa a Wall Street e un po’ in tutti i mercati azionari del pianeta, è apparsa una lunga analisi della CNBC che ha fatto definitivamente giustizia di quel rally dell’orso (o rimbalzo del coniglio morto) durato meno di tre mesi e che, complici analisti e giornalisti embedded, era stato volutamente spacciato per quello che non era e, cioé, un movimento anticipatorio di quella ripresa che dall’autunno del 2007 viene vista dietro ogni angolo da ministri economici e banchieri centrali alquanto disperati.
Pur non volendo annoiare i miei lettori con le spiegazioni molto tecniche riportate nell’approfondimento della CNBC, mi permetto sommessamente di osservare che le stesse erano vere sia in aprile che in maggio, così come nella prima decade di giugno, in quanto basate su evidenze dell’analisi tecnica che chiarivano sin dall’inizio che quel recupero dai minimi toccati nell’orribile mese di marzo si inserivano pienamente in un trend che continuava a essere ribassista, non fosse altro che per il confronto con i massimi toccati nel lontano mese di ottobre dell’anno di disgrazia 2008!
Ma il vero pessimo segnale per le già fosche prospettive della seconda metà del 2009 è giunta dalla decisione del Tesoro britannico di affidare alle cure di un gruppo di banche, all’uopo tra loro sindacate, un’emissione di titoli di stato di ammontare non stratosferico, una mossa del tutto inedita e che la dice davvero lunga sulle preoccupazioni nutrite dal governo di Sua Maestà britannica e da quelli degli altri paesi maggiormente industrializzati per la disponibilità degli investitori ad assorbire gli enormi ammontari di titoli necessari a far fronte alla crescita rapidissima dei fabbisogni pubblici.
D’altra parte, lo sforamento mondiale di tutti i vincoli posti al rapporto deficit/PIL e a quello che dovrebbe esistere tra lo stock del debito pubblico e il flusso della ricchezza prodotta annualmente da ciascun paese, sia quelli stringenti previsti dalle regole del trattato di Maastricht in ambito europeo, sia quelli non codificati ma impliciti nelle scelte strategiche del Giappone e degli Stati Uniti d’America, non lasciano davvero prevedere nulla di buono sulla non certo marginale questione dell’equilibrio tra offerta di titoli rappresentativi del debito pubblico e relativa domanda da parte di investitori, una questione che è stata per ora sovrastata da sempre più forte richiesta di sicurezza da parte degli investitori e dei risparmiatori, ma che non potrà che portare, prima o poi, all’inevitabile aumento del prezzo del servizio del debito, per non parlare poi dei rischi inflazionistici connessi alla strada alternativa, particolarmente seguita dal sistema della riserva federale statunitense, e che consiste nello stampare moneta.