Pur non disponendo di alcuna palla di vetro, devo dire che colgo un numero crescente di segnali a riprova che la mia previsione dell’approssimarsi di una nuova e più alta ondata della tempesta perfetta a cavallo del mese di luglio non era del tutto peregrina, una constatazione che mi conforta alquanto come revisore, mentre mi preoccupa, e non poco, come individuo disperso nel procelloso mare magnum della finanza più o meno strutturata.
Come è noto ai lettori più assidui e attenti del Diario della crisi finanziaria, uno dei segnali più inquietanti è giunto nel bel mezzo della corsa dell’orso, con l’uscita di due importanti fondi governativi, l’uno arabo, l’altro asiatico, da Bank of America e dalla britannica Barclays, ma ancor di più trovo segnaletico l’agitarsi alquanto scomposto delle due banche appena citate sul fronte delicatissimo delle cessioni di attività che un tempo erano universalmente considerate delle vere e proprie galline dalle uova d’oro, anche se va detto, a onor del vero, che mosse similari erano state fatte anzitempo da Citigroup e dalla UBS, You & Us.
Sorvolo del tutto, avendovi dedicato numerose puntate, non ultima quella di ieri, sull’impatto simbolico ed effettivo derivante dall’ingresso di due dei tre colossi automobilistici a stelle e strisce nelle spire delle procedure previste dal Chapter Eleven della legge fallimentare statunitense, per dire che solo nelle settimane in cui sembrava quasi inevitabile il collasso sistemico della finanza globale (tra la metà di settembre e quella di ottobre dell’anno scorso) ho registrato un’impennata dei lettori come quella verificatasi domenica scorsa, una giornata non solo festiva, ma nella quale è apparsa una puntata che offriva al lettore la possibilità di stampare in un’unica soluzione le tre puntate nelle quali lanciavo l’allarme su quanto temo stia per accadere.
Il bello è che l’operazione che veniva annunciata ieri con grande clamore mediatico riguarda sia Barclays che Bank of America che, attraverso BlackRock, parteciperebbero all’edificazione della maggiore entità operante nel settore della gestione della ricchezza altrui e che sarebbe deputata a gestire la bellezza di 2.800 miliardi di dollari, il doppio di quanto gestito dal secondo operatore del settore, la State Street, grazie al conferimento da parte della Barclays della BGI, con la sua dote di 1.500 miliardi di dollari di gestito, a BlackRock per un controvalore stimato in 12 miliardi di dollari, una somma che, ovviamente, non verrà percepita cash da Barclays, in quanto la stessa punterebbe a ottenere il 20 per cento della nuova entità e dovrà anche pagare una penale di 175 milioni di dollari per riprendersi iShare, parte integrante di BGI, precedentemente venduta a CVC.
Spero di non fare venire il mal di testa ai miei lettori, ma il bello della storia è rappresentato dal fatto che il 49 per cento di BlackRock e proprio di Bank of America (mentre il 33 per cento fa capo a PNC Financial Services Group), così come non è un caso che il Chief Executive Officer di BofA abbia sempre dichiarato, anche nei momenti peggiori, il carattere strategico di questa partecipazione e ora si capisce anche il perché di tanta ostinazione da parte del povero Lewis, ma ancor più interessante è che il fondo governativo del Qatar e quello di Abu Dhabi saranno della partita, acquisendo per svariati miliardi di dollari una congrua partecipazione in BlackRock, una mossa che ci permette di comprendere che, almeno per loro, non è più interessante l’investimento nelle banche, mentre lo è, e molto, essere azionisti insieme alle stesse banche della maggiore entità di gestione del risparmio al mondo
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