Dopo la clamorosa decisione del fondo governativo di Singapore, Temasek, di lasciare sul tappeto 4,6 dei 7,6 miliardi di dollari investiti pur di uscire dal colosso creditizio Bank of America che aveva inglobato quella Merrill Lynch su cui avevano puntato in due riprese i gestori del fondo, veniamo ora a sapere che anche il fondo posseduto al 100 per cento dall’emirato di Abu Dhabi ha deciso di convertire le obbligazioni di Barclays che possedeva in gran quantità e di liquidare in tempo reale le azioni ordinarie appena ottenute, una mossa che ha mandato a picco l’azione della banca britannica che, proprio grazie all’aiuto del fondo di Abu Dhabi e ad altri provvidenziali apporti aveva evitato l’onta dei maxi aiuti pubblici e la nazionalizzazione di fatto subita da Royal Bank of Scotland, da Northern Rock e da altre importanti entità protagoniste del mercato finanziario britannico, forse il più colpito dalle sempre più alte ondate della tempesta perfetta che tra cinque giorni entrerà nel suo ventitreesimo mese di vita, mentre non vi sono più dubbi che il 9 agosto festeggerà, ancora in piena attività, il suo secondo compleanno.
Ma devo dire che vi è stata una notizia che mi ha colpito di più per la sua forza evocativa ed è quella della chiusura di due hedge fund che gestivano complessivamente 1,3 miliardi di dollari dei loro sottoscrittori, una notizia che mi ha ricordato il primo segnale della crisi finanziaria in arrivo nel giugno di due anni orsono, quando fallirono due hedge funds facenti capo all’orso di Stearns, il tutto mentre il potentissimo numero uno di Bear Stearns trascorreva, come è emerso da precise ricostruzioni giornalistiche, le sue giornate tra il campo di golf e accanite partite a poker, entrambe attività nelle quali Jimmy E. Cayne eccelleva davvero, mentre penso proprio che, come Chairman e Chief Executive Officer della investment bank finita in dote per un piatto di lenticchie alla banca dei nipotini di John Pierpoint Morgan e di Duke Rockefeller, verrà ricordato come uno dei tanti che hanno trasformato l’un tempo mitico mondo della finanza in un immenso casinò a cielo aperto.
L’uscita in perdita o con profitto dall’investimento nelle banche da parte dei fondi governativi arabi e cinesi, i nuovi e inquietanti scricchiolii provenienti dal mercato finanziario statunitense e l’ignominiosa e imprevista esclusione dell’azione di Citigroup da quel Dow Jones Industrials nel quale primeggiava da quando, dodici anni orsono, David Weill coronò il suo sogno di creare il primo vero supermarket del credito apportando Travellers in Citibank, che di suo aveva già acquisito Smith Barney, e creando quella Citicorp che qualche anno dopo, garantendosi un posto nel Board of Directors e una pensione milionaria, lasciò alle cure di quel Chuck Prince III allontanato quando il colosso creditizio statunitense con proiezione del tutto globale era di fato tecnicamente fallito, sono tutti segnali che mi confermano nella mia previsione di una nuova e più alta ondata delle tempesta perfetta che dovrebbe abbattersi sul mercato finanziario globale tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, un’ondata che farà definitivamente giustizia di quel davvero poco credibile rally dell’orso o di quel rimbalzo del coniglio morto che tanto inchiostro ha fatto scorrere nelle penne dei giornalisti e degli ‘esperti’ embedded agli interessi di Wall Street e dintorni!
Non appassionandomi particolarmente delle vicende borsistiche, mi tocca comunque notare che dei segnali sopra ricordati se ne devono essere accorti in molti, almeno a giudicare dall’andamento dei listini azionari di ieri, che, sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, hanno innescato una brusca retromarcia, con una pioggia di ordini di vendita che ha particolarmente colpito le diverse entità protagoniste del mercato finanziario, anche perché anche il più modesto degli investitori non vuole essere secondo nella fuga a questi organismi che sono deputati a far fruttare al meglio i soldi dei loro rispettivi governi, una mission che normalmente hanno svolto benissimo, almeno prima di avventurarsi, novelli capitani coraggiosi, tra i sempre più alti marosi della tempesta perfetta, convinti di fare ottimi affari con le banche e le compagnie di assicurazione dei paesi maggiormente industrializzati giunte, a loro avviso, a minimi dai quali non avrebbero potuto che allontanarsi in direzione positiva.
Non mi soffermo sull’ennesimo giochetto statistico che mostra gli ordini di beni durevoli statunitensi in rimbalzo dello 0,7 per cento nel mese di maggio, un rimbalzo stavolta esclusivamente dovuto a una drastica revisione del calo di aprile, passato dallo 0,9 all’1,9 per cento e che chiarisce perfettamente come il dato si situi largamente al di sotto di quello relativo al mese di marzo, giochetti sui quali avevo opportunamente messo in guardia i lettori del Diario della crisi finanziaria e che fanno il paio con le previsioni degli analisti che sono sempre più spesso improntate a una visione pessimistica del dato prossimo venturo e che finisce per valorizzare oltre misura anche il dato più negativo ed enfatizzare con la gran cassa quelli moderatamente positivi; non posso non sottolineare, inoltre, che, al netto degli ordini di velivoli (un dato che rappresenta, secondo gli esperti, una proxy più efficace del reale andamento degli ordini,), la domanda di nuovi beni durevoli è scesa in maggio del 2,4 per cento, un tonfo perfettamente in linea con quello verificatosi nel mese di aprile.
Non vi è dubbio, inoltre, che il prossimo Non Farm Payrolls, difficilmente si porrà al di sotto di un nuovo saldo negativo delle buste paga in maggio di mezzo milione, come anticipato da due attendibili sondaggi effettuati da istituti privati che rendono nota una perdita di posti di lavoro compresa tra i 525 e i 532 mila, anche se è evidente che questa ennesima emorragia di posti di lavoro nel settore privato potrebbe essere addolcita dalle assunzioni pubbliche previste dal mega piano di rilancio dell’economia proposto da Obama e approvato mesi orsono dal Congresso.
Appare davvero singolare, in una situazione chiaramente recessiva come l’attuale, l’appello rivolto da Bernspan alla nuova amministrazione e al Congresso perché inizino a predisporre un valido piano di rientro dal deficit stellare previsto per l’anno in corso e, presumibilmente, anche per quello prossimo venturo!
I governi dei paesi maggiormente industrializzati, i banchieri centrali e i regolatori di ogni ordine e grado continuano a chiedere agli investitori istituzionali e ai risparmiatori/investitori di dimenticare quanto è accaduto in questi ventidue mesi seguiti al blocco totale della liquidità sui mercati interbancari di tutto il mondo, quel fenomeno che era solo un effetto, seppur inedito e gravissimo, di quanto era avvenuto negli venticinque anni che avevano preceduto quel oramai famoso e fatidico 9 agosto del 2007, due decadi e mezzo dominate dai concomitanti fenomeni di finanziarizzazione globalizzazione e deregolamentazione selvaggia che hanno finito per produrre una montagna di titoli della finanza più o meno strutturata che è prudenzialmente stimata in un ammontare facciale di 50-70 mila miliardi di dollari e che si è accompagnata con una crescita esponenziale del mercato dei derivati, ma, in particolare negli ultimi anni di quel periodo ha visto uno sviluppo abnorme di quelle vere e proprie armi di distruzione di ricchezza rappresentati dai Credit Default Swaps, nati come pacifica arma di difesa rispetto alla possibilità di fallimento di una controparte più o meno indebitata e finiti per diventare un’arena infuocata di scommesse che vedeva davvero tutti contro tutti.
Questo pressing si è affatto ancora più determinato, assumendo a tratti toni anche minacciosi, da quando si è avviato il ritiro in ordine sparso dei fondi governativi, in particolare di quelli arabi e asiatici, dalle alquanto sconsiderate avventure a sostegno delle principali entità protagoniste del mercato finanziario globale, avventure dettate sì da considerazioni geopolitiche e dall’interesse dei governi proprietari dei sopra menzionati fondi di sostenere le nazioni che per decenni hanno rappresentato i mercati di sbocco di quote crescenti di export prima giapponesi, poi delle cosiddette tigri asiatiche e di Cindia (Cina e India), nonché di volumi sempre più rilevanti di petrolio, gas e altre materie prime provenienti dai paesi dell’Opec, dalla Russia, dall’Africa e dall’America Latina.
Ma poiché nessuno è fesso, in particolare nel sempre più cruento mondo degli affari, i gestori di questi fondi avevano valutato che i valori toccati dalle azioni delle banche e delle compagnie di assicurazione statunitensi ed europee nel davvero orribile mese di ottobre del 2008, a un mese di distanza dal fallimento di Lehman Brothers, dalla nazionalizzazione di AIG e dal salvataggio in extremis di Merrill Lynch e a soli tre mesi dalla decisione del famigerato trio Bush-Paulson-Bernspan di nazionalizzare le diverse entità semi pubbliche che svolgevano e svolgono un ruolo determinante nell’immenso mercato dei mutui immobiliari, un mercato nel quale le varie Fannie Mae e Freddie Mac garantivano quasi la metà degli 11 mila miliardi di dollari totali, ebbene i solitamente accorti gestori dei fondi governativi arabi e asiatici ritenevano che tali valori rappresentassero dei minimi assoluti e in larga misura determinati dal timore di un default sistemico che le decisioni del G20/G21 di garantire pressoché integralmente i depositi bancari e varare altre misure a carattere eccezionale avevano in qualche modo sventato, una visione che rendeva un proficuo business gli investimenti in Citigroup, Merrill Lynch, Barclays, Hong Kong Shanghai Banking Corporation e nella miriade di altre entità protagoniste del mercato finanziario globale!
Purtroppo per loro, e per tutti noi, la messa sul tappeto di risorse per complessivi dieci-quindicimila miliardi di dollari da parte dei governi rappresentati nel summit ottobrino di Washington non è servita a fermare i sempre più alti marosi della tempesta perfetta che, anzi, ha spazzato con un’altra e più alta ondata i mercati azionari dell’intero pianeta nel ancor più terribile mese di marzo, il mese nel corso del quale le due banche maggiormente beneficate dai fondi del TARP per 90 miliardi di dollari complessivi e di aiuti del sistema della riserva federale per centinaia di miliardi di dollari subirono l’onta di andare sotto la soglia di un dollaro nel caso di Citigroup e di quello dei due dollari nel caso di quella Bank of America che si era fatta carico dei disastri aziendali di Countrywide, Washington Mutual e Merrill Lynch, mentre la AIG faceva da bancomat miliardario per la miriade di banche statunitensi ed europee che portarono all’incasso quei CDS nei quali la sventurata compagnia di assicurazione a stelle e strisce aveva deciso di fare da controparte, una decisione che, secondo il nuovo inquilino della Casa Bianca, l’aveva di fatto trasformata in un immenso hedge fund.
Scottati duramente, e in qualche caso più volte, i gestori dei fondi governativi arabi e asiatici sono stati duramente richiamati all’ordine dai loro mandatari, i governi appunto dei rispettivi paesi, e hanno dovuto elaborare in fretta e furia exit strategies solo in parte favorite dalla successiva corsa dell’orso che sembra evaporare in questi giorni anche a causa delle massicce vendite effettuate da Temasek e dal fondo governativo di Abu Dhabi, vendite a volte in pesante perdita, a volte in attivo, ma che rappresentano, secondo i soliti bene o benissimo informati, soltanto la punta di un iceberg di dimensioni difficilmente calcolabili, anche perché le nuove strategie dei gestori non avrebbero soltanto a oggetto le azioni o le obbligazioni delle principali entità protagoniste del mercato finanziario globale, ma anche una gestione maggiormente diversificata di quelle migliaia di miliardi in Treasury Bonds e Treasury Bills di proprietà dei fondi o facenti la parte del leone nelle riserve valutarie dei rispettivi paesi di appartenenza (per avere un’idea, si pensi che la sola Cina ha in portafoglio titoli di stato statunitensi per poco meno di 800 miliardi di dollari).
Un segnale inequivocabile di questo sommovimento appena agli inizi è rappresentato dal nuovo vigore mostrato dall’euro e dallo yen che, nonostante gli strenui sforzi della Banca Centrale Europea e dalla Bank of Japan, hanno recuperato due terzi circa del terreno perduto nel corso di quel bimestre aprile-maggio dell’anno in corso, un periodo che verrà certamente ricordato dagli storici della tempesta perfetta come la fase di un vero e proprio inganno orchestrato da commentatori, giornalisti ed esperti del tutto embedded alle logiche del capitalismo finanziario, un coro davvero assordante e contro il quale poco o nulla hanno potuto i pochi Dr Doom e le Cassandre!
Come scrivevo nelle due puntate precedenti di questo mio avviso ai naviganti nella tempesta perfetta, di fronte ai minacciosi segnali provenienti dai ritiri di importanti investimenti effettuati dai fondi governativi arabi ed asiatici nel primo anno e mezzo della tempesta perfetta, i governi dei paesi maggiormente industrializzati, i banchieri centrali e i regolatori di ogni ordine e grado continuano a chiedere agli investitori istituzionali e ai risparmiatori/investitori di tornare a fare il proprio dovere, cosa che ostinatamente si sono rifiutati di far sin da due mesi prima dell’avvio della crisi finanziaria ancora altrettanto ostinatamente in corso da ventidue mesi, il che ci dice che lo sciopero degli investimenti sarebbe iniziato, in effetti, addirittura nel giugno del 2007, lo stesso mese nel quale l’orso di Stearns congelò e mise poi in liquidazione due suoi hedge funds.
Impegnati come sono a raccogliere sul mercato adesioni alle sempre più massicce emissioni di titoli di stato volti a coprire i buchi crescenti creati nei bilanci pubblici da interventi senza precedenti in favore delle diverse entità protagoniste del mercato finanziario e delle industrie sempre più in affanno, governi e banche centrali devono ora misurarsi con l’incognita del comportamento in materia dei fondi governativi arabi ed asiatici, nonché con lo sforzo sempre più massiccio svolto da quei paesi in termini di ricomposizione sia sul piano valutario che di rischio emittente, quello stesso sforzo che non pochi problemi aveva creato nel 2007 e nel 2008 al Tesoro statunitense e che aveva spinto l’euro sino a 1,60 dollari e aveva fatto sprofondare lo stesso dollaro sino alla davvero miserevole soglia degli 85 yen, una fase che ha vissuto una momentanea tregua solo nel bimestre aprile-maggio in concomitanza con la più che sospetta corsa dell’orso dei listini azionari statunitensi ed europei.
Come ricorderanno i più assidui tra i lettori del Diario della crisi finanziaria, mi ero visto costretto qualche mese orsono a rivedere radicalmente le previsioni sui cambi fatte alla fine del 2008, una revisione che vedeva per la prima volta l’ipotesi di un euro scambiato contro due dollari, mentre prevedevo un deprezzamento molto più modesto del dollaro che, grazie all’attivismo presumibile del Giappone, non avrebbe dovuto portarsi al di sotto della soglia dei 75 yen, mentre è del tutto impossibile prevedere cosa faranno le autorità monetarie cinesi rispetto all’annoso problema della sopravvalutazione dello yuan, mentre ho dovuto ribadire la previsione di un prezzo del petrolio oscillante di poco intorno ai 50 dollari al barile, anche se mi rendo perfettamente conto del fatto che, ove si realizzassero i targets previsti sui cambi, questo valore dovrebbe tenere conto dello squagliamento ipotizzato per la valuta statunitense, una valutazione, questa, che collima perfettamente con quella molto più autorevolmente avanzata di recente dallo sceicco Yamani, nella sua veste di presidente del più autorevole centro di studi sul petrolio e rafforzata dalla sua ventennale esperienza al vertice dell’OPEC, mentre, fossi nei panni degli analisti al soldo della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs non sottovaluterei affatto il significato del viaggio di Obama in medio oriente in corso in questi giorni, tappa saudita inclusa!
Ma la domanda alla quale difficilmente i leaders politici e le autorità monetarie dei paesi maggiormente industrializzati risponderanno è la seguente: per quale motivo gli investitori istituzionalie quelli in carne e ossa dovrebbero separarsi dal loro denaro dopo il vero e proprio bagno di sangue dagli stessi subito a causa della loro palese incapacità, se non della palese assenza di volontà, a tenere sotto controllo quelle stesse entità protagoniste del mercato finanziario globale che hanno, secondo i presidenti della repubblica francese e di quella tedesca, trasformato l’un tempo magico mondo della finanza in un immenso casinò a cielo aperto?
Non voglio tornare sull’alquanto miserevole sorte toccata a quanti, individui, fondi pensione o fondi d’investimento, avevano a suo tempo sottoscritto le obbligazioni emesse dalla General Motors e dalla Chrysler e ai quali è stato offerto o un decimo di quanto sborsato in denaro o la partecipazione alle nuove e non del tutto credibili avventure delle nuove entità che vedranno la luce dopo l’ignominioso passaggio attraverso le previsioni della legge fallimentare statunitense alle quali, a poco tempo di distanza, hanno entrambe dovuto fare ricorso, ad onta degli aiuti per decine di miliardi di dollari dalle stesse ricevuti dallo Zio Sam!
Non si tratta soltanto del netto ridimensionamento della ricchezza dei primi mille ricchi del pianeta, efficacemente fotografato dalla classifica annuale redatta dalla rivista specializzata Forbes, ma della ragionevole certezza che una qualsivoglia entità emittente titoli rappresentativi del suo debito sia tenuta a onorare in tutto o in larga parte le proprie obbligazioni, una preoccupazione che non pare molto condivisa dalle autorità politiche e da quelle monetarie che pure, almeno a parole, si sgolano letteralmente per indurre chi è già stato scottato a riprovarci, non fosse altro che per un più o meno sano patriottismo, un sentimento che, almeno stando ai neoliberisti che hanno dominato la scena fino all’avvio della tempesta perfetta, non dovrebbe avere alcuna cittadinanza quando si tratta di investimenti.
Il problema vero è rappresentato dal fallimento completo dello sforzo solennemente annunciato negli innumerevoli vertici dei paesi maggiormente industrializzati, uno sforzo volto a creare nuove e più affidabili regole alle quali si sarebbero dovute attenere le entità a diverso titolo operanti nel mercato finanziario globale, con particolare riferimento allo scottante tema del leverage ratio, giunto sino a cinquanta volte i mezzi propri in colossi creditizi del calibro di Deutsche Bank, ma al di sopra delle trenta volte non solo in quelle che un tempo venivano definite banche di investimento, ma anche nelle cosiddette banche universali che, dopo l’abbattimento degli ultimi paletti legislativi avvenuto verso la fine degli anni Novanta, hanno contribuito a creare quel sistema finanziario parallelo e scarsamente conosciuto che ha prodotto il meltdow attuale!
Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dell’associazione FLIP, all’indirizzo www.flipnews.org . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog.