Avendo da qualche tempo doppiato la boa delle seicento puntate del Diario della crisi finanziaria, inizio a interrogarmi seriamente sulla capienza del giornale di bordo della flotta finanziaria decimata dalla tempesta perfetta che, del tutto non richiesto, sto tenendo dal 4 settembre del 2007, anche perché ho calcolato che sarei oramai arrivato a qualche volume di discrete dimensioni, ove ovviamente esistesse un editore talmente pazzo da decidere che quest’avventura editoriale visitata circa 200 mila volte meriti di uscire dai confini del web per approdare nelle librerie.
Non ho alcune intenzione di proporre ai lettori nuove stime sulla durata della crisi, anche perché sono certo che dopo il secondo sarà tranquillamente festeggiato, il 9 agosto del 2010, anche il terzo anno di vita, a forza pressoché immutata, della tempesta perfetta, così come considererei un ottimo risultato assistere a qualche sprazzo di ripresa nel corso del 2011, anche se so benissimo che, sfumate le speranze di una ripresa entro la fine del presente anno, gli effetti sui conti delle maggiori entità protagoniste del mercato finanziario globale, stavolta determinate dalla crescita esponenziale dei default delle aziende industriali e di quelle appartenenti all’amplissimo settore dei servizi potrebbero essere tali da pregiudicare la ripresa in un congruo numero di anni a venire.
Mi preme, invece, dire qualcosa in relazione all’ennesima accusa rivolta dal per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, all’universo mondo degli economisti sfusi o intruppati in più o meno prestigiosi uffici studi, rei, senza eccezione alcuna, di non aver previsto per tempo l’arrivo della più grave crisi finanziaria che l’umanità abbia mai dovuto sopportare, un accusa mossa, peraltro, da un uomo che, seppure a fasi alterne, ha partecipato a pieno titolo ai numerosi vertici dei ministri economici e dei governatori delle banche centrali del G7/G8, ministri e governatori che hanno condiviso con i rispettivi leaders politici le misure di deregolamentazione selvaggia della finanza più o meno strutturata, senza che da lui stesso o da qualcuno dei suoi esimi colleghi sia mai venuta una critica rispetto a innovazioni regolamentari e legislative che ci hanno portato dritti, dritti sull’orlo di quel precipizio coraggiosamente segnalato dal numero uno del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss Kahn a metà del mese di ottobre del davvero orribile 2008!
Non vorrei rifugiarmi nella banalità dell’espressione che recita ‘il bue che dice cornuto all’asino’, ma credo che raramente una singola frase esprima in maniera così plastica l’assurda pretesa di Giulio di ergersi a moralizzatore di una categoria che se ha un torto è stato proprio quello di fare il possibile e anche l’impossibile per non disturbare i manovratori e i ‘regolatori’ mentre consentivano bellamente alle banche di ogni ordine e grado e alle altre principali entità protagoniste del mercato finanziario globale di produrre una montagna immensa di titoli della finanza strutturata, più o meno nascosti nelle immense pieghe dei loro bilanci, per non parlare poi della crescita abnorme di quelle vere e proprie armi di distruzione di ricchezza di massa che rispondono al nome di Credit Default Swaps.
Per quanto mi riguarda, è dalla seconda metà degli anni Ottanta che ho all’attivo centinaia di articoli apparsi su quotidiani, settimanali, mensili e periodici di varia cadenza che mettono in guardia dai rischi connessi ai concomitanti processi di finanziarizzazione, globalizzazione e deregolamentazione selvaggia, buona parte dei quali sono rintracciabili mediante una semplice inquiry su un buon motore di ricerca, ma credo proprio di non essere stato il solo economista non embedded a cercare di segnalare la tempesta perfetta allora più o meno prossima ventura!