Intendiamoci, Tim Geithner, almeno dal poco che sono riuscito a saperne, è davvero bravo, uno che è riuscito a soli trentasette anni a zittire Greenspan, Summers e i pezzi grossi dell’amministrazione Clinton e a convincerli che era proprio necessario stanziare a tambur battente 100 miliardi di dollari per lenire le ferite delle tigri asiatiche in piena crisi, una decisione che provocò non pochi mal di pancia in Congresso, ma che fu sostenuta lancia in resta dallo stesso Clinton che recitò come solo lui sapeva fare il copione propostogli dai big ma redatto in base alle idee del giovane e ancora quasi sconosciuto Geithner.
E’ strano che nessuno si sia mai chiesto come mai un giovane così brillante, di formazione davvero internazionale, si sia accontentato della relativamente paga di civil servant, prima al dicastero del tesoro e poi alla guida di una delle banche che compongono il sistema della riserva federale, mentre i suoi coetanei, molti dei quali molto meno dotati di lui, facevano soldi a palate in quelle investment banks o in quelle banche universali che gli avrebbero offerto qualsiasi posizione lui avesse richiesto e quasi a qualsiasi condizione.
Pur essendo indubitabilmente vero che Geithner non è l’unico al mondo a preferire il potere e il trattare da pari a pari con i numeri uno della finanza più o meno globale, basti pensare ai dieci anni trascorsi al Tesoro italiano da Mario Draghi nella qualità di direttore generale responsabile delle privatizzazione delle ex banche e industrie di Stato, ma è certamente strano che negli incarichi successivamente ricoperti da Tim nella sua oramai quasi ventennale sfolgorante carriera non si sia fatto nemmeno un nemico, al punto che la sua nomina a ministro è stata salutata con giubilo dai vertici delle entità protagoniste del mercato finanziario statunitense, mentre i politici di entrambi gli schieramenti lo conoscevano troppo poco per contestare seriamente la decisione del nuovo presidente degli Stati Uniti d’America.
E’ stato solo quando Geithner ha partorito una versione del piano di salvataggio quasi del tutto identica a quella a suo tempo proposta dal suo predecessore, o quando non ha contrastato efficacemente, e soprattutto in via preventiva, gli scandalosi bonus elargiti ai manager della disastrata e nazionalizzata AIG che l’ambizioso ministro del Tesoro se l’è vista un po’ brutta, ma in suo soccorso è intervenuto, per quattro o cinque volte in pochi giorni, il presidente in persona, un appoggio che deve essere stato seriamente ponderato da un politico giovane ma molto accorto come certamente è Obama, anche se, almeno secondo i commentatori più informati, qualcosa si deve essere rotto in quei giorni nel rapporto tra lo stesso Obama e quel gruppo di potere così determinante nella disfida per la nomination, mentre l’elezione Barack se l’è davvero guadagnata sul campo.
La difesa di Obama dell’operato di Bernspan, così come il suo appoggio alla riforma che attribuisce più ampi poteri sul sistema finanziario alla Federal Reserve possono esseri letti anche in quest’ottica, una sorta di riequilibrio tra il potere dei suoi più stretti consiglieri in materia economica e dello stesso ministro del Tesoro da un lato e della Fed e delle altre Authorities dall’altro, un riequilibrio che restituisce centralità al ruolo dell’inquilino della Casa Bianca e che potrebbe consentirgli di occuparsi maggiormente di quella riforma dell’assistenza sanitaria solennemente promessa in campagna elettorale, nonché delle tutt’altro che risolte emergenze legate all’occupazione, al persistente disastro nel settore immobiliare, smarcandosi così dall’accusa di continuità della linea Bush che gli viene rivolta dagli economisti più critici.