martedì 1 settembre 2009

Inizia la correzione dei mercati?


Non è del tutto strano che, giunti in prossimità dei massimi dell’anno, il mercato azionario statunitense si prenda una pausa, anche perché non sono ancora del tutto chiari i motivi di questa prosecuzione del rally dell’orso che ha, almeno al momento, come unico supporto il rallentamento della caduta del prodotto interno lordo a stelle e strisce nel secondo trimestre dopo i tonfi dell’ultimo quarto del 2008 e del primo del corrente anno.

Come scrivevo nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria, a peggiorare le cose è lo stillicidio di fallimenti di banche di piccole e medie dimensioni che stanno risentendo molto più dei default di famiglie e imprese di quanto fossero state colpite dalla evaporazione del valore dei titoli della finanza strutturata, o che, per dirla in altri termini, non sono sopravvissute a questo uno due verificatosi nel breve volgere di due anni.

A meno che non vengano modificate anche le regole contabili sui crediti non performing, regole che per ora prevedono la cancellazione dei crediti dopo pochi mesi di morosità, non vi è dubbio che molte delle 416 banche in difficoltà presenti nella lista della Federal Deposit Insurance Corporation potrebbero andare incontro alla stessa sorte già toccata alle 84 banche chiuse d’autorità dall’inizio di quest’anno, un numero che è secondo solo a quello del 1992, quando la crisi sistemica delle Saving & Loans toccò il suo apogeo.

Dopo avere fatto probabilmente due conti a tavolino, operatori e investitori hanno iniziato a vendere anche le azioni delle banche statunitensi di maggiori dimensioni, tuttora quotate a multipli degli alquanto ignominiosi minimi toccati nel marzo di quest’anno, flessioni ancora contenute e che non sembrano intaccare più di tanto la fede nel principio del too big to fail che le rende dei relativi porti sicuri nella tempesta perfetta.

Un indicatore che viene seguito con una certa attenzione, quello dell’American Association Individual Investors Survey ha visto la sua componente bullish crollare la settimana scorsa a 34, mentre la stessa era riuscita a superare la soglia posta a 50 due settimane orsono, mentre la componente bearish è balzata da 30 a 48,5, movimenti che stanno a significare che gli investitori individuali vogliono ora vedere l’arrosto dopo aver inalato fumo in quantità nei mesi scorsi, un atteggiamento che finisce per influenzare anche gli investitori istituzionali che, nonostante la notevole mole di fuoco di cui indubbiamente dispongono, sanno benissimo che non è del tutto igienico andare in controtendenza rispetto al parco buoi.

Il fatto che la flessione sia iniziata ieri mattina in Asia, in special modo in Cina, sia a Shanghai che a Hong Kong, così come la sensibile correzione al ribasso del prezzo del petrolio, rafforzano la convinzione che quello registrato nell’ultima seduta della settimana scorsa e in quella di ieri è qualcosa di più di una semplice correzione o di un profit taking legato al superamento da parte di alcune azioni di soglie non viste da lungo tempo.

Nel frattempo, l’andamento cedente del dollaro nei confronti sia dell’euro che dello yen giapponese sta a indicare che le nuove stime sul deficit pubblico statunitense, così come quelle sul debito, legate allo sforzo davvero eccezionale della nuova amministrazione e delle autorità monetarie destano preoccupazioni negli investitori che non riescono più a essere contrastate dalle pur attivissime banche centrali.