lunedì 28 settembre 2009

Il G20 stila l'agenda delle cose da fare!


Ho avuto seriamente la tentazione di non occuparmi di quanto è accaduto nel corso del vertice del G20 svoltosi nei giorni scorsi a Pittsburgh, l’ennesimo vertice che si è sostanzialmente occupato di stilare un agenda, di prendere in esame i quattro documenti elaborati dal Financial Stability Board e di decidere se in futuro sarà questa l’assise determinante per l’economia e la politica globale, ridimensionando il ruolo del G8 a poco più di un’occasione di dialogo tra vecchi amici, prima che ne venga sancita ufficialmente la soppressione.

Eppure, almeno sulla carta, di carne al fuoco ve ne era davvero tanta, anche se, come al solito, si è visto molto più fumo che arrosto, pur dovendosi riconoscere lo sforzo di Stati Uniti e Cina nel delineare un accordo quadro che chiama i singoli paesi a prendersi le proprie responsabilità sugli squilibri strutturali da essi stessi prodotti.

L’illusione che si trattasse di una nuova Bretton Woods è durata lo spazio di un mattino, anche se va detto che si è discusso della riforma dei due pilastri nati da quella conferenza storica, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, mentre si pensa di attribuire un ruolo più formale e istituzionale al Financial Stability Board, l’organismo presieduto dal Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che, rispetto al precedente Financial Stability Forum, prevede la presenza di esponenti delle banche centrali di paesi che siedono a pieno titolo nel G20.

Dei quattro documenti illustrati da Draghi, la stampa internazionale si è soffermata in prevalenza sulla questione dei compensi variabili dei banchieri, ma non meno importanti sono quelli che si occupano del cosiddetto moral hazard, cioè di quei comportamenti tenuti da entità protagoniste del mercato finanziario globale che contano abbastanza palesemente sul fatto che qualcun altro poi caverà loro le castagne dal fuoco, della questione del cosiddetto principio del too big to fail o della necessità di far transitare nei mercati regolamentati tutte o quasi le operazioni in derivati che spesso transitavano altrove.

Sull’ultima di queste questioni, quella che riguarda l’immenso mercato dei derivati, qualcosa sta effettivamente accadendo, almeno stando alla lettera inviata dalle principali banche globali che si dichiarando disponibili a far transitare le loro operazioni attraverso la clearing house presso la Federal Reserve di New York, ma temo che la strada da percorrere per giungere a una situazione più regolata sia ancora lunga.

Per quanto riguarda invece la questione della difficoltà di giungere al fallimento delle entità di grandissime dimensioni, credo che il chiarimento fatto di fronte a una commissione del Congresso dall’ex numero uno della Federal Reserve e attualmente consigliere di Obama, Paul Volker, dovrebbe aver fatto cadere le speranze degli investitori istituzionali, sui quali gravano una parte rilevante delle perdite complessive legate alla tempesta perfetta, di essere salvati al pari delle grandi banche, anche se è abbastanza difficile pensare che possano essere lasciati al loro destino i fondi pensione o grandi fondi di investimento.

Il problema non è purtroppo soltanto accademico, ove si pensi che, oltre a una considerevole esposizione nei prodotti più o meno tossici della finanza strutturata, le non banche sono gravate dal 47 per cento dei prestiti sindacati di importo superiore ai 20 milioni di dollari a rischio, quasi metà cioè di un aggregato che, a seconda dei criteri utilizzati, va da 447 a 643 miliardi di dollari!