La sostanziale invarianza del numero dei nuovi sussidi settimanali di disoccupazione intorno alle 570 mila unità e i deludenti risultati delle vendite al dettaglio nelle maggiori catene dimostrano che il de profundis della recessione pronunciato l’altro ieri nel Beige Book della Federal Reserve è perlomeno prematuro, anche perché lo stock di quanti ricevono sussidi si è accresciuto di 92 mila unità a 6,23 milioni, due brutte notizie che non sembrano aver impensierito i listini azionari al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, desiderosi di prendersi una rivincita dopo diverse sedute negative consecutive.
Nel frattempo, l’indice nazionale dei servizi non è riuscito, come è invece accaduto nel settore manifatturiero, la soglia posta a 50 e che indica espansione, fermandosi appena al di sopra di 48, mentre appare significativo che una delle componenti più importanti, quella legata al credito al consumo risulti ancora in flessione.
In attesa di scoprire stasera i dati sul Non Farm Payrolls e sul tasso di disoccupazione a stelle e strisce nel mese di agosto che verrà diffuso nel primo pomeriggio di oggi, operatori e investitori sembrano limitarsi a piccoli ondeggiamenti su livelli ancora ben distanti dai massimi raggiunti prima che intervenisse la pausa di riflessione sulla fondatezza o meno della lunga corsa compiuta dai listini azionari statunitensi negli ultimi cinque mesi, una corsa interrottasi soltanto per quattro settimane a partire dalla metà di giugno, una correzione prevista con un certo anticipo in una puntata di inizio giugno del Diario della crisi finanziaria.
Al di là delle convinzioni personali e delle scuole di appartenenza, gli economisti non possono non tenere conto del fatto che prosegue la distruzione di ricchezza, sia finanziaria che reale, mentre la cosiddetta domanda effettiva continua a languire molto al di sotto del livello di piena occupazione dei fattori, tutti elementi che lasciano intuire il formarsi di nuove ondate della tempesta perfetta oramai in corso da poco meno di 25 mesi.
Non ho mai sottovalutato l’impegno eccezionale dei governi dei maggiori paesi industrializzati, impegno realizzatosi sia mediante l’adozione di manovre di stimolo dell’economia, sia attraverso il salvataggio o la ricapitalizzazione delle banche più o meno globali, sia attraverso l’assunzione di impegni di garanzia sia dei depositi bancari che, ed è un assoluta novità, degli impegni presenti nel mercato interbancario, ma il problema è rappresentato dal fatto che l’enorme mole di impegni ha più una funzione di moral suasion che la possibilità di concretizzarsi nell’ipotesi di un’ondata di default a livello sistemico e questo per la semplicissima ragione che lo stato delle finanze pubbliche, sia in termini di deficit che di stock del debito, non consentirebbe neanche di coprire un decimo dell’outstanding complessivo.
D’altra parte, la decisione di eliminare la valutazione al mark to market dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata, ma più in generale di tutti i titoli, fa parte a pieno titolo di questo gioco al facciamo finta che il problema non esista, un approccio non solo pericoloso, ma che rischia seriamente di duplicare i problemi quando alle perdite non contabilizzate legate ai prodotti finanziari si sommeranno, come sta già in gran parte avvenendo, quelle legate all’attività caratteristica delle banche, che, nonostante le deviazioni degli ultimi venticinque anni, rimane pur sempre quella di prestare denaro a famiglie e imprese che sono sempre più in difficoltà nel far fronte al servizio del debito.