Quando in Italia sarà sera, il presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, terrà un discorso sulla crisi finanziaria a un anno esatto dal fallimento di Lehman Brothers, l’unica delle grandi banche statunitensi per le quali il trio Bush-Paulson-Bernspan non volle trovare una soluzione in termini di salvataggio, una decisione che vide un ruolo determinante dell’allora ministro del Tesoro e che non è mai stata spiegata realmente, pur non sfuggendo a nessuno dei protagonisti i rischi eccezionali cui andava incontro il mercato finanziario globale, rischi che sembrarono concretizzarsi nei primi giorni di ottobre sotto la forma di un imminente default sistemico che fu evitato solo grazie alle misure eccezionali adottate dal G20 di metà ottobre e dallo sforzo eccezionale congiunto delle principali banche centrali.
Obama avrà buon gioco nel dire che la situazione attuale, pur ancora difficilissima e gravida di incognite, si presenta ben diversa da quella vissuta nello stesso mese dell’anno precedente, anche se è ancora molto presto per capire quale saranno gli effetti nel medio periodo di quegli interventi eccezionali, mentre è certo che l’impegno a intervenire sulle cause della tempesta perfetta non ha prodotto, almeno sinora, risultati apprezzabili, né credo che qualcosa cambierà con il prossimo summit del G20 a Pittsburgh.
Dopo oltre 700 puntate del Diario della crisi finanziaria, il rischio di ripetere concetti già espressi è molto elevato, ma credo che sia bene riflettere sul fatto che l’incapacità di realizzare un nuovo sistema di regole e di controlli rappresenti di per sé un ostacolo rilevantissimo sulla strada di un ritorno di quella fiducia degli investitori che è l’elemento essenziale che potrebbe consentire un nuovo inizio per la finanza mondiale, ma di tutto questo non vi è traccia, anzi è possibile dire che, spinti dall’emergenza, si sono determinate condizioni di minore trasparenza sul vero stato di salute delle istituzioni finanziarie, in particolare di quelle maggiormente esposte sui titoli più o meno tossici della finanza strutturata.
Spostandosi dalla visuale dell’inquilino della Casa Bianca a quella del cittadino comune, le cose appaiono molto diverse e le difficoltà, invece di diminuire, appaiono considerevolmente aumentate, sia in termini di possibilità di accedere al credito, sia sotto il profilo della capacità di sostenere il servizio del debito, difficoltà che sono alla base della costante erosione mensile del credito al consumo, vero motore in passato della crescita statunitense e volano della stessa crescita a livello mondiale, una contrazione che è sia il frutto di un diverso e più responsabile comportamento dei consumatori americani che di una restrizione palese dell’offerta di credito da parte delle banche operanti negli USA.
I primi venticinque mesi della tempesta perfetta hanno, peraltro, indotto un fortissimo processo di concentrazione nel settore creditizio a stelle e strisce, basti pensare che, come sottolineava un servizio dell’Associated Press diffuso nel fine settimana le tre banche statunitensi che si sono fatte carico di Bear Stearns, Merrill Lynch, Countrywide, Wachovia Bank e Washington Mutual sono giunte a concentrare su sé stesse 2.300 miliardi di dollari di depositi, ovvero il 30 per cento dei depositi bancari americani, mentre ne rappresentavano soltanto il 20 per cento tre anni fa, una situazione che rappresenta per le soccorritrici J.P. Morgan-Chase, Bank of America e Wells Fargo una valida polizza di assicurazione, in quanto sono davvero diventate too big to fail, una condizione nella quale già si trovano, per motivi diversi, Citigroup, e la potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs.