Qualche lettore del Diario della crisi finanziaria si sarà stupito del fatto che ho mantenuto ieri la puntata programmata sulle conseguenze, poche in realtà, per le banche popolari della importante sentenza della sesta sezione del Consiglio di Stato sulla legge di riforma delle banche popolari per la parte che riguarda il congelamento del diritto di recesso degli azionisti in sede di trasformazione in SpA, una sentenza molto importante perché boccia clamorosamente una circolare della Banca d'Italia che aveva sostanzialmente consentito l'atteggiamento di chiusura delle banche popolari, in particolare delle due banche venete poi finite nel carniere (sic) del Fondo Atlante gestito dall'ineffabile ed enigmatico Alessandro Penati che ora potrebbe essere indirettamente chiamato a pagare il conto agli azionisti che, nei termini, avevano chiesto di esercitare, appunto, il loro diritto sancito dalle apposite norme del Codice Civile.
Ebbene, per quanto importante fosse la bocciatura dell'atto amministrativo emanato dalla Banca d'Italia, era evidente che la notizia del giorno era maturata nella notte tra domenica e lunedì, quando, a partire dagli alquanto esaustivi exit poll era risultato evidente che il tentativo di Matteo Renzi di strappare al fronte del no alla riforma costituzionale e che pesava a bocce ferme il 65 per cento dell'elettorato quanto serviva per dare al fronte del sì, che partiva, invece, da un misero 35 per cento, una vittoria per quanto risicata alla sua ambiziosa riforma, tentativo abortito sui freddi numeri del risultato definitivo che vede vedeva un 59,1 di no contro un 40,9 di sì, e questo nonostante l'apporto generoso di quel terzo di aventi diritto residenti o dimoranti all'estero che hanno approvato la riforma con il 65 per cento di voti favorevoli.
Sì, ho aspettato tutta la giornata di lunedì per capire se la mia lettura del voto era condivisa e l'ho vista racchiusa in alcuni, non tanti, titoli di articoli di quotidiani che notavano che la percentuale di voti favorevoli a Renzi è stata la stessa, anzi con un decimale in più, di quella che aveva sorpreso tutti alle elezioni europee, quando, dopo sondaggi e opinioni che volevano il PD di Renzi impegnato in un testa a testa con il movimento cinque stelle, la tenzone si era risolta in realtà con un sonoro 40,8 contro il 21 per cento di un Grillo che aveva giurato che, in caso di insuccesso, avrebbe lasciato la guida del movimento da lui fondato.
Questa pressoché totale identità di lusinghiera percentuale, non me ne voglia lo NCD e le altre minuscole forze, socialisti inclusi, che hanno contato davvero molto poco in questa aspra tenzone elettorale fortemente polarizzata sulla figura del presidente del Consiglio, è stata confermata da una platea molto più ampia di elettori del dal 57 per cento circa del 2014 si è portata al quasi 70 per cento di ora, appena un po' di meno del 75 per cento delle politiche del 2013.
Cosa accadrà ora? Sono evidenti le chance dell'attuale ministro dell'Economia, Piercarlo Padoan, uomo che fu letteralmente imposto ad un riottoso e recalcitrante Matteo Renzi dall'allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano, e che è l'unico che può garantire, visto che la cifra del passato Governo, fatta eccezione per alcune lodevoli e molto care all'ex Premier battaglia civili divenute, con molti maldipancia trasversali leggi dello Stato, è tutta sull'economia, il controverso rapporto con l'Unione europea e misure di redistribuzione del reddito, tutte misure che hanno visto l'ex capo economista dell'OCSE assolutamente in prima linea, con differenze che in realtà sono stata più di dettaglio che di sostanza!
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