Dopo il deludente dato delle vendite al dettaglio in gennaio, sono venuti, nel giro di due giorni, due dati preoccupanti rispetto all’inflazione e un balzo inatteso delle richieste settimanali di disoccupazione, un dato quest’ultimo che sembrava avere preso una china discendente nelle scorse settimane sino al punto da fare sperare che potesse essere infranto verso il basso il muro delle 300 mila unità.
Ma andiamo per ordine, l’altro ieri è stato diffuso il dato sui prezzi all’ingrosso che nella versione totale e quindi non escludendo alcune componenti definite volatili è cresciuto in gennaio dello 0,8 per cento (0,4 per cento nella versione core), una dinamica che prima o poi si rifletterà ineluttabilmente anche sul dato annuo.
Ieri è stata la volta del consumer price index che, sempre in gennaio, è cresciuto dello 0,4 per cento, mentre il CPI core è cresciuto dello 0,2 per cento, il doppio esatto di quanto previsto dagli analisti, mentre la variazione rispetto allo stesso mese dell’anno precedente è stata dell’1 per cento, contro una previsione dello 0,9 per cento.
Quello che dicono questi due dati, attentamente monitorati dalla Federal Reserve, è che il trend discendente dell’inflazione ha ormai toccato il punto più basso alcuni mesi fa e ora può solo risalire con buona pace della politica dei tassi di interesse sui finanziamenti concessi dalla Fed alle banche dovrà presto allontanarsi da quel corridoio compreso tra zero e 0,25 per cento per tornare a livelli più ragionevoli, proprio quanto sostengono i membri del Federal Open Market Committee dissenzienti rispetto all’infimo livello dei tassi e al Quantitative Easing II.
Ma il balzo in avanti di 25 mila unità nei jobless claims, da 385 mila a 410 mila unità, preoccupa molto di più dei dati relativi all’inflazione, anche se il dato continua ad essere molto più basso del picco di 651 mila toccato nel marzo del 2009 quando l’economia statunitense era nel punto più basso della recessione.