E’ oramai indubitabile che il vento di tempesta che ha scosso la Tunisia, l’Egitto, lo Yemen e ora sta scuotendo sin dalle fondamenta il regime del colonnello Gheddafi promette di interessare anche l’Algeria, il Marocco e la Giordania, si tratta di una sollevazione pressoché simultanea che ha sorpreso gli analisti e gli osservatori, in particolare quella parte del personale delle ambasciate straniere in questi paesi che svolge di fatto un lavoro di intelligence, tutte persone che sono state incapaci di prevedere un sommovimento di tale portata.
La crisi libica si differenzia da quella tunisina e da quella egiziana per la reazione violentissima del regime ai moti di piazza, con l’utilizzo spregiudicato di mercenari e dell’aviazione contro la folla, ma anche perché le proteste non sono state innescate dall’aumento del prezzo dei generi di prima necessità come negli altri due paesi arabi, ma dalla sollevazione contro un regime che è in piedi dal 1969.
Ovviamente, il petrolio è schizzato sopra i 100 dollari al barile e le borse di tutto il mondo, ad eccezione di quella statunitense che lunedì era chiusa per festività, hanno registrato perdite, in particolare quella italiana, anche a causa della presenza di capitale libico in numerose aziende e del ruolo italiano di primo partner commerciale della Libia.
Gli stretti legami tra Silvio Berlusconi e Gheddafi hanno favorito un’intensificazione dei rapporti di Eni, Impregilo e altre società italiane, legami che ora sono visti come una zavorra dalle società interessate, una situazione che è alla base delle incertezze della nostra diplomazia, ministro degli Esteri in primis, che solo all’ultimo minuto si è accodata alla posizione di netta condanna espressa dall’Unione europea e dagli Stati Uniti d’America.
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