mercoledì 21 gennaio 2009

Obama giura e il sistema bancario si lecca le ferite e si ristruttura!


Scrivo mentre milioni di cittadine e cittadini degli Stati Uniti stanno affollando lo spazio antistante il palco sul quale avverrà il giuramento del primo presidente nero della nazione compresa tra due oceani, un avvenimento che avviene solo pochi decenni dopo la messa la bando dell’odioso sistema di segregazione razziale allora pienamente vigente in numerosi Stati dell’America profonda e che forse segna davvero l’inizio di una nuova era che viene a inaugurarsi negli stessi giorni in cui prende l’avvio l’Era dell’Acquario.

Come dicevo ieri, mai il lungo periodo di interregno tra il presidente uscente e quello eletto è apparso così pieno di attese, un clima che, con il lento trascorrere delle settimane, ha contagiato sia quanti avevano votato Obama che la consistente minoranza che gli aveva preferito l’anziano Mc Cain, veterano di guerre combattute sui campi di battaglia vietnamiti e nelle austere sale del Senato a stelle e strisce, tutti accomunati dal timore che dalla tempesta perfetta oramai nel pieno del suo diciottesimo mese di vita si possa passare ad una recessione che competa per durata con quella che è stata definita la Grande Depressione.

L’attivismo di un ufficio di transizione sempre più simile ad un governo ha rafforzato queste attese poco meno che messianiche, mentre il mercato finanziario statunitense ha, da qualche giorno, perso la pazienza e abbiamo assistito alla rottura verso il basso di quei livelli davvero infimi che molte banche e altre entità protagoniste dell’agone finanziario avevano toccato dopo il fallimento della Lehman Brothers il 15 settembre del 2008, quell’ondata ribassista che aveva portato nei trenta giorni successivi la flotta della finanza più o meno globale a rischiare il naufragio e i governo dei paesi maggiormente industrializzati a mettere sul piatto qualcosa come 10 mila miliardi di dollari!

Gli operatori e gli investitori/risparmiatori non sono rimasti con le mani in mano neanche in questa storica giornata, iniziata davvero male in Asia e che ha visto le banche europee affrontare il secondo giorno di calvario, dopo la disastrosa seduta di venerdì che, anche complice la mega perdita annunciata dalla Royal Bank of Scotland (28 miliardi di sterline), ha registrato una vera e propria alluvione di ordini di vendita sui colossi creditizi e assicurativi europei.

Ma il peggio doveva venire con l’apertura di Wall Street, chiusa nella giornata di lunedì per la festa nazionale dedicata a Martin Luther King, dove si è assistito sin dalle prime contrattazioni all’ennesimo bagno di sangue per Citigroup e Bank of America, i due colossi creditizi che hanno ricevuto sinora il maggior numero di aiuti pubblici, sia in termini di sottoscrizione di azioni privilegiate da parte del Tesoro per complessivi 90 miliardi di dollari, sia mediante l’accollo da parte della Federal Reserve di poco meno di mille miliardi di dollari di titoli più o meno tossici della finanza strutturata, interventi assolutamente senza precedenti ma che non riescono in alcun modo ad arrestare l’ondata di vendite in corso sui rispettivi titoli azionari.

Quanto sta accadendo al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico sta gettando nella disperazione centinaia di milioni di azionisti delle banche e delle compagnie di assicurazione, ma ha consentito a David Einhorn e a quel manipolo di miliardari che da oltre un anno si sono messi sulla sua scia di diventare molto, ma molto più ricchi scommettendo senza soluzione di continuità contro la maggior parte delle entità protagoniste del mercato finanziario globale, un’operatività intensa e che ha visto anche mutamenti tattici quando la Sec e i regolatori europei hanno temporaneamente bloccato le vendite allo scoperto, perché in quelle fasi non hanno fatto altro che guadagnare sui rialzi drogati che, almeno in alcuni casi, hanno fatto registrare incrementi anche del seicento per cento delle quotazioni.

La decisione del governo Brown di procedere alla nazionalizzazione di Royal Bank of Scotland con una quota del capitale che dovrebbe aggirarsi intorno al 70 per cento (anche se non viene escluso che si passi al 100 per cento), così come l’aumento della quota pubblica nelle Royal Bank, lasciano nell’area privata le sole Barclays e Hong Kong Shanghai Banking Corporation, anche se non si sa per quato tempo questi due colossi dai piedi sempre più di argilla potranno continuare a rifutare orgogliosamente la mano loro tesa da Downing Street.

Molto più complesso si presenta lo scenario francese, anche perché le due banche maggiormente candidate a fare da elementi aggreganti, BNP Paribas e Socgen, sono entrambe in caduta libera da diverse sedute, in attesa che, forse già nel prossimo fine settimana, gli uomini di Sarkozy decidano di rendere note le prossime tappe di un processo di aggregazione che dovrebbe avvenire ai danni del Credit Agricolo e della alquanto disastrata Caisse, mentre nulla si sa degli sviluppi dell’Affaire Fortis dopo la nuova offerta, articolato su due opzioni alternative, rilanciata dalla stampa e non smentita dal quartier generale della banca parigina.

Altrettanto a carte accuratamente coperte sta giocando la cancelliera più o meno di ferro, Angela Merkel, che ha sì acquisito il 25 per cento dell’aggregato risultante tra Commerzbank e l’acquisita Dresder, ma che sembra non aver deciso nulla sul destino della Deutsche Bank che da poco è entrata in possesso dell’ex braccio bancario della Deutsche Post, mentre nulla ancora trapela sui progetti governativi in merito alle Landesbanken e alle Sparkassen, entità cui fa ancora riferimento il 70 per cento circa di quel sistema bancario tedesco a sua volta essenziale per garantire la tenuta dell’apparato industriale teutonico.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.