venerdì 23 gennaio 2009

Ministro Tremonti, se ci sei, batti un colpo!


Il nuovo tonfo delle costruzioni di nuove case in dicembre, scese del 15,5 per cento ad un dato annualizzato di 550 mila unità abitative contro le 610 mila previste dagli analisti, l’imprevisto balzo in avanti dei sussidi settimanali di disoccupazione, giunti oramai a sfiorare le 600 mila unità, l’annuncio di 5 mila licenziamenti alla Microsoft, sono tutte notizie che rendono chiaro il quadro recessivo a dodici mesi esatti dall’avvio della fase.

Quello che colpisce maggiormente nel dato sulle nuove costruzioni è il riferimento temporale del nuovo minimo, un livello per ritrovare il quale bisogna tornare addirittura al 1959, né consola molto che il dato relativo ai nuovi permessi sia caduto nello stesso mese ‘soltanto’ del 10,9 per cento, il che porta il dato annualizzato a 549 mila, sempre del 10 per cento al di sotto delle previsioni degli analisti evidentemente tratti in inganno dal dato provvisorio relativo al mese di novembre.

Le pessime notizie provenienti dall’economia reale hanno immediatamente fatto volgere al rosso i tre listini principali statunitensi che avevano vissuto quasi un mercoledì da leoni, una seduta caratterizzata da forti rimbalzi delle azioni delle principali entità finanziarie dopo i tracolli registrati nella seduta precedente, una riproduzione fedele del movimento ondoso della tempesta perfetta che ci ha oramai abituati alla alternanza di onde molto alte inframmezzate da momenti di relativa bonaccia, utili al più a far parlare i giornali e gli altri media.

Con un candore ammirevole il giovane presidente della Federal Reserve di New York, Timothy Geithner, ha affrontato le domande alquanto insidiose di alcuni senatori repubblicani, in particolare quelle relative al ruolo di primo piano da lui svolto in tutte le operazioni di salvataggio delle banche di investimento e di quelle commerciali di ogni ordine e rango, affermando che era certamente possibile per la Fed di New York agire in modo molto più incisivo di quanto abbia in realtà fatto, quasi lui passasse di là per caso e non avesse trascorso tutti i fine settimana di questi ultimi diciotto mesi in riunioni più o meno affollate nel corso delle quali si decideva chi salvare e chi lasciar fallire tra le banche a stelle e strisce.

Non è tanto e non è solo per il ruolo fondamentale svolto nell’ambito del sistema della riserva federale dal presidente della Fed che ospita i lavori del Federal Open Market Committee e che ha tenuto aperta la più grande discarica a cielo aperto per i titoli più o meno tossici della finanza strutturata, stoccandone per un valore facciale di oltre 2 mila miliardi di dollari, né per la partecipazione alle soprammenzionate riunioni, il fatto è che Timothy è, per unanime ammissione, uno che è abituato da sempre a svolgere un ruolo decisivo nelle questioni più o meno spinose che è chiamato ad affrontare, così come appare del tutto incurante del divario tra il suo ruolo pro tempore e quello ben più elevato dei suoi interlocutori, come accade quando, trentasettenne dirigente del Tesoro, riuscì a fare passare il suo piano da 100 miliardi di aiuti alle Tigri asiatiche in estrema difficoltà, un piano a cui inizialmente si opponevano sia il Maestro Greenspan che il ministro del Tesoro dell’epoca.

Pur essendo proprio queste caratteristiche di Geithner che hanno influito sulla scelta del coetaneo Obama di puntare su di lui per quella che sarà certamente la poltrona più scottante del primo governo del suo primo mandato, è altrettanto indubbio come sia difficile per lui vestire i panni di Biancaneve di fronte ai rodatissimi lupi del Great Old Party che lo stanno interrogando, anche perché, se è certo che il suo curriculum non presenti permanenze più o meno durature in banche di investimento o in banche più o meno globali, è altrettanto vero che ha avuto poteri di vita e di morte sulle stesse per oltre un anno e mezzo, una circostanza che fa di lui uno dei maggiori responsabili della gestione della maggiore crisi finanziaria mai vista, anche se è certo che questo piccolo particolare non gli impedirà certo di passare indenne sotto le forche caudine del Senato degli Stati Uniti d’America!

Sempre a proposito di nuove nomine, non vi è alcun dubbio che il preannunciato cambio al vertice di Citigroup, che ha visto l’ex numero uno di Time Warner, Richard Parsone, prendere il posto del povero baronetto inglese, Win Bishoff, alla presidenza della più che martoriata banca a stelle strisce, non ha entusiasmato più di tanto gli azionisti che hanno ripreso a vendere a piene mani le azioni portandole di nuovo a testare verso il basso la soglia dei 3 dollari, così come non credo che appassioni nessuno la vicenda personale di John Thain che potrebbe oggi stesso essere costretto a fare gli scatoloni e a lasciare Bank of America, la banca in cui ha traghettato l’ex investment bank Merrill Lynch.

Se le banche statunitensi sono di nuovo bombardate da ordini di vendita, non molto diversa si presenta la situazione delle loro consorelle europee che, fate salve poche e sporadiche eccezioni, sono nuovamente sotto pressione, anche se stavolta si tratta di vendite molto mirate e che sembrano ispirate dalla conoscenza o dalla preveggenza sulle mosse che, forse già nel prossimo fine settimana, verranno assunte dai governi dei tre paesi dell’Unione Europea che hanno complessivamente messo sul piatto più di 1.500 miliardi di euro, ma che ne hanno sinora spesi solo una parte frazionale, ottenendo per di più risultati molto, ma molto modesti.

Per quanto riguarda, invece, le maggiori banche italiane, continuo a segnalare, anche dopo il più che strombazzato summit tra il Direttorio della Banca d’Italia e gli esponenti delle sei maggiori banche, l’assenza del decreto sui bond destinati al Tesoro!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .