sabato 16 maggio 2009

Catricalà chiede il conto a Passera!


Dopo i dati provenienti dall’economia in carne e ossa e i risultati alquanto deludenti delle banche poste al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, è stata la volta di ieri della seconda flessione consecutiva dei prezzi al consumo statunitensi rispetto ai corrispondenti periodi dell’anno precedente, un qualcosa che non si verificava da due anni e che getta un’ulteriore luce sinistra sui profeti della svolta sempre dietro l’angolo, degli entusiasti di una corsa dell’orso che sembra essersi oramai esaurita da qualche seduta.

Gli echi del massiccio e stereofonico battage pubblicitario orchestrato dagli entusiasti a un tanto al chilo è stato comunque di dimensioni tali da contagiare anche i consumatori che, come testimonia il relativo indice deputato misurarne la fiducia, sembrano più convinti delle condizioni future di quanto riescano a esserlo di quelle presenti, influenzati come sono dal proliferare dei cartelli di vendita delle case circostanti e dal continuo allungarsi della lista dei vicini di casa che hanno avuto la sfortuna di perdere il proprio posto di lavoro, un dato certamente confortante che giunge, tuttavia, nello stesso giorno nel quale la General Motors ha dato il benservito a ben 1.100 rivenditori, mentre la Chrysler aveva annunciato già l’altro ieri che potrà fare a meno di poco meno di 700 saloni recanti lo storico marchio.

Ma se il settore dell’auto e l’immenso indotto piangono, i ricchi fondi governativi asiatici e arabi non ridono di certo, come è ben testimoniato dalla fine dell’avventura di Temasek, il ricco fondo governativo dello Stato-Città di Singapore, che era intervenuto ben due volte in favore della tecnicamente fallita Merrill Lynch per 7,6 miliardi di dollari e che era stato costretto a prendere in cambio, ameno della pari, le azioni della troppo grande per fallire Bank of America, proprio quelle azioni delle quali si è liberata nei giorni scorsi realizzando una perdita che pare non sia inferiore ai 4,6 miliardi di dollari, un disinvestimento ufficialmente motivato dalla decisione di investire di meno nei paesi sviluppati e di più in quelli in via di sviluppo.

Che il gatto perda il pelo ma non il vizio, lo confermano i risultati nell’operatività in cambi e sulle materie prime che vengono realizzati, in particolare in Cina e nel resto dell’Asia, dalle banche più o meno globali, risultati estremamente lusinghieri, ma spesso frutto di quelle stesse micidiali scommesse che hanno prodotto oltre il 70 per cento dei ricavi conseguiti nel primo trimestre dalla potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, una quota percentuale del totale che ha fatto dire a più di un osservatore che, più che di una ex banca di investimento trasformatasi in holding bancaria, Goldman sta finendo sempre più ad assomigliare a un gigantesco hedge fund, una metamorfosi non molto diversa da quella che, secondo Obama e Rubin’s Boys, ha caratterizzato negli anni scorsi il colosso assicurativo globale American International Group e che ha trasformato quella che un tempo era considerata una delle più solide e diversificate compagnie di assicurazione del mondo in un buco senza fondo che ha già assorbito poco meno di 200 miliardi di dollari dei contribuenti e presumibilmente continuerà a riceverne non fosse altro che per il fatto che a salvatore è stato chiamato Ed Liddy, un ex Goldman Sachs che è stato scelto nientepopodimeno che dall’ex (?) numero uno della stessa Goldman mentre era temporaneamente prestato alla politica e che ha ricoperto per oltre due anni e mezzo la carica di ministro del Tesoro nella seconda amministrazione di George W. Bush.

Sui motivi della scelta e sulla destinazione dei primi novanta miliardi, principalmente finiti a Goldman Sachs e ad un nucleo davvero ristretto di banche statunitensi e stranieri, sta indagando il nuovo sceriffo di New York, Andrew Cuomo, uno che ha la fama di essere un tipo tosto e che non ha avuto particolari timori reverenziali nel mettere sotto inchiesta anche il Chief Financial Offficer della stessa Goldman Sachs, David Viniar, sì proprio il veggente che ordinò, ai primi di settembre del 2006, di vendere tutto il vendibile dell’immensa montagna di titoli della finanza strutturata che erano presenti, al di sopra e al di sotto della linea di bilancio della ex investment bank, una mossa dal sapore davvero profetico e che è stata determinante nel non far fare a Goldma la stessa miserevole fine di Lehman Brothers o nell’evitare che venisse acquisita per un piatto di lenticchie come è accaduto all’orso di Stearns o a Merrill Lynch, entità che, a sua volta, doveva essere salvata da un altro che si era fatto le ossa in Goldman prima di diventare il potente numero uno del New York Stock Exchange e che, poco prima di essere cacciato a pedate nel sedere dal predidente e amministratore delegato della banca acquirente, aveva trovato il tempo di autorizzare bonus per miliardi di dollari in favore dei dirigenti di Merrill!

Dopo l’allarme lanciato dalla Bank of England e di cui ho dato conto nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria, si infittisce ogni giorno che passa la schiera di quanti prevedono a breve, entro l’estate per la precisione, una nuova e forse più alta ondata della tempesta perfetta che festeggerebbe così alla grande il proprio secondo compleanno, un’eventualità che ricalcherebbe alla perfezione quanto avvenne nel 1931 dopo un’esemplare corsa dell’orso durata pochi mesi e finita in un tracollo ancora maggiore di quello verificatosi nell’ottobre del 1929, una data, quella dell’estate del 1931, che viene vista dalla maggior parte degli storici come la vera data d’avvio della Grande Depressione.

Non vorrei proprio essere nei panni dell’ex enfante prodige della finanza italiana, Corrado Passera, che, dopo aver utilizzato solo nel primo trimestre di quest’anno gli oltre 500 milioni di euro di beneficio fiscale che i suoi concorrenti si sono sparati l’anno scorso, se la deve vedere ora con le ire di Antonio Catricalà, il solitamente prudente presidente dell’Antitrust, che ha deciso di aprire una procedura di infrazione nei confronti di Intesa-San Paolo a causa del patto stretto tra il Credit Agricole e le Assicurazioni Generali, un patto che viola gli impegni assunti ai tempi della fulminea fusione e che potrebbe costare dai 500 milioni ai 5 miliardi di euro!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog