Condivido appieno le critiche che vengono mosse da più parti all’evidente schizofrenia esistente tra il meltdown dei conti aziendali provocato dagli altissimi marosi della tempesta perfetta e i generosissimi sistemi di compensation & benefit di cui godono le donne e gli uomini posti al vertice delle società operanti nei settori della finanza, dei servizi e dell’industria in senso lato, sistemi che, più o meno a cascata, sono appannaggio anche degli executives, ma che, limitando l’esame al solo settore della finanza, giungono spesso sino ai traders e ai dealers di inquadramento più basso, basti pensare a quanto accade nella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, ma anche nell’unica altra sopravvissuta tra le Big Five dell’investment banking a stelle e strisce, Morgan Stanley, sistemi che negli ultimi anni sono stati scimmiottati e mutuati non solo da Citigroup, Bank of America, AIG e le altre quindici maggiori entità protagoniste del mercato finanziario statunitense, ma si sono espansi a macchia d’olio nelle principali banche europee e in quelle asiatiche.
Mentre non credo assolutamente che le proteste, anche veementi, che da tante parti vengono mosse a questa evidente contraddizione stiano più di tanto turbando i sonni dei Chairman, dei Chief Executive Officers, figure frequentemente coincidenti nella stessa persona che somma, quindi, i relativi compensi, dei Chief Financial Officers o dei Chief Operating Officers, sono certo, invece, che questi top manager e quelle decine di migliaia di operatori che a vario livello partecipano ai festini del cosiddetto profit sharing stanno seguendo con estrema attenzione i provvedimenti già assunti dalla nuova amministrazione statunitense e, ancor più, quelli allo studio nell’ambito della Securities & Exchange Commission, dell’alquanto infuriato Congresso, nonché, per quanto ne è dato di sapere, nell’ambito dell’Unione europea.
Un accuratissimo studio svolto, per conto dell’Associated Press, da Rachel Bech e Matthew Fordhal mette in luce il fatto che nel davvero orribile 2008, l’anno bisestile che verrà certamente ricordato come il peggiore per la finanza e per l’industria a stelle e strisce, i compensi dei CEO (quanto vi è di più simile a quelli che noi chiamiamo amministratori delegati) sono stati pari, in media, a 7,6 milioni di dollari, una cifra che si discosta per appena il 7 per cento da quella percepita dagli stessi nel 2007, un anno che mediò un secondo semestre davvero molto pesante con un primo semestre quasi eccezionale, una flessione che definire risibile è quasi un eufemismo, anche alla luce del contemporaneo crollo verticale delle quotazioni azionarie delle banche, delle compagnie di assicurazione (in particolare di quelle definite monoliners), delle società industriali di ogni ordine e rango, un crollo ben rappresentato dalla perdita del 55 per cento circa del molto rappresentativo indice Standard & Poor’s 500.
Ovviamente, la Beck e Fordhal non escludono affatto che la componente rappresentata dalle stock options sul totale dei compensi, 1,2 milioni di dollari a testa (sempre come dato medio) e, cioè il 16 per cento circa del totale, possa, se non vi sarà una risalita dei corsi di borsa, portare a una flessione di ordine maggiore, ma che, secondo un rapido calcolo da me fatto, anche ipotizzando un valore pari a zero delle azioni sottostanti, porterebbe a una flessione percentuale dei compensi effettivi dei CEO tra quanto da essi percepito nel 2007 e il 2008 comunque non superiore al 32 per cento, un’ipotesi, quella del valore pari a zero della stock optino, peraltro del tutto irrealistica e che lascia prevedere, quindi, un rischio effettivo non di molto superiore a una perdita aggiuntiva pari a quella registrata a bocce ferme e che porterebbe la flessione teorica al 14 per cento.
Una perdita teorica, quella dell’ipotizzato 14 per cento, che appare del tutto accettabile, anche alla luce del fatto che la scure della amministrazione Obama non è ancora caduta neanche sulle cosiddette prime linee delle principali diciannove entità protagoniste del mercato finanziario statunitense, il che appare almeno bizzarro alla luce dei 700 miliardi di dollari impegnati nei salvataggi e delle migliaia di miliardi, sempre di dollari, di titoli più o meno tossici della finanza strutturata i cui rischi relativi sono stati sollevati gentilmente dai bilanci delle entità suddette per essere caricati su quelle sempre più gracili dei disperati contribuenti americani, interventi di dimensioni assolutamente senza precedenti e che, fatta eccezione per Fannie Mae, Freddie Mac, Zinnie Mae e il colosso assicurativo American International Group, non hanno dato luogo a nazionalizzazioni totali o parziali, né a licenziamenti in tronco almeno delle figure apicali, ma prevedendo solo per le stesse la non corresponsione di bonus milionari fino alla restituzione dei fondi pubblici ricevuti.
Come è a tutti noto, pur in presenza di queste scarne e molto selettive limitazioni, la campagna dei premi di fine anno, accompagnata da festini appena più sottotono che negli anni precedenti, non è andata poi così tanto male sia a Wall Street che a Londra, sia a Parigi che a Francoforte, sia a Roma che a Madrid e a Tokyo, solo per limitarci alle principali piazze finanziarie del pianeta, tutte località che hanno visto le donne e gli uomini della finanza disastrata spartirsi anche nel 2008 alcune centinai di miliardi di ricchi premi e cotillions, il tutto mentre si era a soli due mesi di distanza dal momento nel quale, nell’ottobre del 2008, il mercato finanziario globale aveva corso il serissimo rischio di un default a carattere sistemico, come annunciato dal numero uno del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn, appena poche ore dopo che il vertice del G20/G21 aveva deciso di impegnarsi a garantire il garantibile per i propri sistemi finanziari domestici, una garanzia che, come ha efficacemente ricordato di recente Jacques Attali, era assolutamente basata sul presupposto che non venisse escussa, anche perché era noto a tutti i leaders politici e ai governatori delle banche centrali presenti che non sarebbe mai stato possibile fare fronte ai depositi bancari e interbancari cui la stessa garanzia si estendeva.
Insomma, la nave della finanza globale affondava, mentre i passeggeri continuavano imperterriti a festeggiare, ma di questo parlerò nella puntata di domani.
Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog