Seppur dopo aver apportato significative modifiche rispetto al testo originario votato nei giorni scorsi dalla camera dei Rappresentanti, il Senato degli Stati Uniti d’America ha inferto a larghissima maggioranza, 90 a 5, un colpo quasi mortale al sino a ieri lucrosissimo settore delle carte di credito, in particolare di quelle a pagamento rateale, prevedendo maggiori e più stringenti limiti alla pratica molto diffusa di alzare in maniera molto significativa il tasso di interesse in presenza di ritardi anche minimi nel pagamento delle relative rate, una pratica difesa a spada tratta dalla potentissima associazione bancaria a stelle e strisce e dalla pletora di abilissimi lobbisti che, almeno stavolte, sono stati costretti ad alzare bandiera bianca.
Per avere un’idea della portata del provvedimento, che entro stasera potrebbe essere firmato dal nuovo inquilino della Casa Bianca se l’altro ramo del Congresso procederà per tempo alla ratifica, basti pensare che si tratta della prima misura concreta in favore dei consumatori presa dopo oltre ventuno mesi di tempesta perfetta, in quanto, dopo innumerevoli prese di posizione ufficiali, siamo ancora a carissimo amico per il tanto atteso sblocco della possibilità di rinegoziare i mutui contenenti le cosiddette clausole capestro, mentre non risultano agli atti altre misure volte a limitare le attività di esproprio delle abitazioni e dei beni durevoli più o meno durevoli acquisiti mediante l’utilizzo delle svariate forme di credito al consumo da parte delle banche e delle finanziarie che hanno concesso il prestito.
L’approvazione della legge è stata, peraltro, salutata con estremo favore dal nuovo ministro del Tesoro statunitense, Timothy Geithner, che nel suo intervento al Senato ha sostenuto la necessità di adottare nuove regole volte a tutelare maggiormente i clienti utilizzatori di finanziamenti rispetto alle ampie possibilità attualmente previste in favore dei creditori, il che suona poco meno che una bestemmia rispetto all’approccio protestante che vede la necessità della punizione di chi adotta comportamenti non del tutto giudiziosi e responsabili nella gestione del proprio bilancio familiare, comportamenti che, almeno sino a qualche anno orsono, erano oggetto della riprovazione della maggioranza dei cittadini statunitensi, molto spesso ignari della vera e propria ragnatela di clausole scritte in piccolo nei contratti che il richiedente il prestito dichiarava volentieri di conoscere pur non avendoli spesso mai visti!
Ma in queste ore i vertici delle diciannove maggiori entità protagoniste del mercato finanziario statunitense sono certamente molto più preoccupati per l’assordante tam tam che preannuncia il passaggio alla linea dura della nuova amministrazione, sinora restia a chiedere radicali cambi al vertice delle banche e delle compagnie di assicurazione di fatto salvate dai massicci interventi pubblici, una sorta di benign neglect che sembra oramai destinato a lasciare il posto a un approccio molto più decisionista da parte di Obama e di Geithner, entrambi ben consapevoli della sete di sangue nutrita dalla maggioranza della popolazione nei confronti di quelli che,a torto o a ragione, vengono ritenuti i maggiori responsabili del meltdown finanziario attuale e delle sempre più gravi conseguenze per il reddito e l’occupazione delle donne e degli uomini della più potente nazione del pianeta, un’insofferenza e un’ostilità accresciutesi di molto dopo la ‘scoperta’ delle erogazioni di bonus per decine e decine di miliardi di dollari avvenute anche con riferimento all’orribile esercizio 2008, erogazioni avvenute anche in banche o compagnie di assicurazione tecnicamente fallite e salvate solo da interventi massici da parte del Tesoro e della Fed.
Il nuovo vento che spira con sempre maggiore intensità a Washington e dintorni è una delle ragioni principali della fretta nutrita da un numero rilevante di banche nel ripagare al più presto quanto ricevuto nell’ambito del TARP approvato da un Congresso terrorizzato nell’ottobre dell’anno scorso, un’iniziativa non del tutto disinteressata che vede in prima fila la potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, soprattutto da quando, in sede di effettuazione dello stress test, si è non solo scoperto che l’ex investment bank godeva di una ‘piscina di liquidità’ per oltre 150 miliardi di dollari, ma che godeva di tale ampia disponibilità liquida anche quando fu ritenuta meritevole di finanziamenti pubblici per una decina di miliardi di dollari, una somma con la quale sarebbe stato possibile salvare almeno la metà delle decine di banche fallite nei primi mesi del 2009.
Le richieste di restituzione delle somme ricevute nell’ambito del programma di salvataggio da 700 miliardi di dollari si stanno moltiplicando al punto che la presidentessa della Federal depositi Insurance Corporation, Sheila Bair, ha dovuto chiarire che le restituzioni avverranno solo mediante una procedura ufficiale che stabilirà se e quando le banche potranno restituire al mittente quanto ricevuto, anche perché la sopraccitata FDIC faceva molto conto sui flussi derivanti dalle preferred shares per rimpinguare le proprie casse e avere quindi maggiori disponibilità per pilotare i salvataggi di quelle stesse banche di medie e piccole proporzioni che una recente indagine commissionata dal Wall Street Journal vede fortemente sottocapitalizzate, una triste realtà che, come scrivevo nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria, riguarderebbe i due terzi delle novecento banche di piccole e medie dimensioni facenti parte del campione, seicento banche che necessitano di iniezioni di capitale per 200 miliardi di dollari entro la fine dell’anno in corso.
Nel tentativo di sottrarsi alle crescenti pressioni che vorrebbero togliergli anche la carica di CEO dopo che una mozione assembleare gli ha già sottratto quella di Chairman, Dick Lewis ha bruciato i tempi e ha raggranellato in sole due settimane ben 13,5 miliardi di dollari, mediante l’emissione di 1.250 milioni di azioni al prezzo di 10,77 dollari cadauna, un prezzo che spiega bene i motivi che hanno spinto il fondo governativo di Singapore, Temasek, ad abbandonare la partita con una perdita di 4,7 miliardi di dollari su 7,6 miliardi di investimento, una mossa molto saggia e fatta pochi giorni prima della nuova diluizione del capitale sociale annunciata solo ieri!
Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog