Come ricordavo al termine della seconda parte di questa serie di puntate del Diario della crisi finanziaria dedicate al sistema finanziario internazionale che verrà, serpeggia tra i maggiori creditori degli Stati Uniti d’America il sospetto che uno di loro possa rompere gli indugi e cercare di portare a casa il massimo possibile del valore della più o meno elevata immobilizzazione in dollari statunitensi, una mossa che potrebbe vedere gran parte del proprio successo nella prevedibile azione difensiva messa in campo sia dalle principali banche centrali che dagli altri creditori rimasti con il classico cerino acceso in mano.
Pur appartenendo quasi tutti questi paesi a cartelli della più varia origine e natura, un’eventualità del genere non può essere esclusa a priori, anche perché da mesi, se non da qualche anno, sono in corso operazioni di alleggerimento effettuate sia direttamente, sia mediante i cosiddetti fondi governativi, anche se poco o nulla è dato di sapere sull’entità e le tecnicalità di queste operazioni, anche perché le varietà di opzioni offerte dagli strumenti della finanza strutturata sono molteplici e variegate, mentre le statistiche internazionali, oltre a essere alquanto datate, non sempre riescono a catturare le operazioni effettuate in modo sofisticato, operazioni note alle banche più o meno globali che sono chiamate a effettuarle, il che determina un’ulteriore elemento di asimmetria informativa a un quadro già di per sé ben poco trasparente.
E’ in questo contesto che si rafforza la possibilità di una mossa preventiva e anticipatoria effettuata, complice l’approssimarsi di un momento ideale quale è il periodo a cavallo della metà del mese di agosto, dalle quattro banche centrali che stanno agendo davvero all’unisono dal mese di agosto del 2007 e che sono individuabili nel sistema della riserva federale, nella Banca Centrale Europea, nella Bank of England e nella Bank of Japan, le stesse che hanno impedito al dollaro di sprofondare verso livelli ancora, e significativamente, più bassi degli attuali, emittenti, peraltro, di quelle stesse valute che invariabilmente finiscono nel paniere degli accordi più o meno conosciuti, quando non si tratta di accordi bilaterali basati sulle stesse valute dei paesi firmatari.
Pur rappresentando una simile eventualità uno smacco evidente della pretesa americana di lasciare le cose come stanno, è, tuttavia, evidente che un accordo di cambio tra dollaro, euro, yen e sterlina potrebbe consentire di evitare quello squagliamento incontrollato del dollaro e il tonfo delle quotazioni dei Treasury Bonds che potrebbe essere determinato dal si salvi chi può conseguente alla mossa azzardata di uno dei paesi creditori e che potrebbe fornire qualche mese, se non qualche anno, di respiro alle autorità monetarie statunitensi che di tutto hanno bisogno al momento meno che di una caduta senza freni delle quotazioni del dollaro o di quelle dei titoli rappresentativi del debito.
Una volta stabilità l’opportunità di una mossa concertata, resta da vedere la praticabilità della stessa, a sua volta fortemente condizionata dalla possibilità di un allargamento della preparazione della stessa al gruppo denominato BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), alla Corea del Sud, ai principali paesi arabi, una possibilità che è rafforzata dall’allargamento del Financial Stability Forum contestuale alla sua trasformazione in Financial Stability Group e alla crescente centralità assunta dai vertici del G20/G21, riunioni nelle quali sono presenti i leaders e i banchieri centrali della maggior parte dei paesi coinvolti nella non secondaria questione dell’individuazione di un nuovo sistema valutario internazionale che, pur se a tempo determinato e dal successo incerto, potrebbe rappresentare una efficace via d’uscita agli immensi problemi attualmente sul tappeto!