Venerdì scorso, al termine di un’operazione avviata nei giorni precedenti, il Governo degli Stati Uniti d’America è entrato in possesso del 34 per cento delle azioni ordinarie del colosso creditizio Citigroup, una quota che potrebbe anche salire ulteriormente, visto che solo 25 dei 45 miliardi di dollari di aiuti pubblici sono stati trasformati in azioni ordinarie, mentre gli altri 20 miliardi erogati dal TARP restano ancora sotto la forma di preferred shares che, una volta convertite, porterebbero la quota di pertinenza dello Stato al di sopra del 50 per cento, un’eventualità che si è già verificata in Fannie Mae e Freddie Mac, nonché nella più che tecnicamente fallita AIG, la compagnia di assicurazione coinvolta alla grande nell’infernale meccanismo dei Credit Default Swaps.
Come ha osservato a suo tempo il Wall Street Journal, la conversione delle preferred shares in mano al Governo è servita come potente mezzo di persuasione (per essere esatti, la Bibbia della finanza mondiale paragonò le pressioni esercitate da Bernspan e Paulson a una pistola posta alla tempia dei fondi governativi arabi e asiatici coinvolti) per convincere gli alquanto riottosi detentori privati di titoli della specie o di prestiti obbligazionari a rinunciare agli elevati rendimenti garantiti per acquisire azioni ordinarie che renderanno esclusivamente in relazione all’andamento dei conti della banca.
Certo, vi è una bella differenza tra il trattamento riservato ai fondi governativi creditori di Citigroup rispetto a quello che è toccato in sorte ai poveri bondholders di Chrysler e General Motors, in quanto, almeno per molti di loro, l’investimento nelle obbligazioni delle due case automobilistiche rappresentava una quota molto significativa dei loro risparmi e il loro ritrovarsi azionisti forzati non favorirà certo la loro propensione a ripetere investimenti di tale genere.
In numerose puntate del Diario della crisi finanziaria ho parlato dei profondi cambiamenti, anche culturali, prodotti dalla tempesta perfetta, cambiamenti che hanno toccato le stesse fondamenta dell’American Dream e che sono strettamente connesse al possesso di una casa indipendente, alla possibilità di cambiare lavoro e luogo di residenza, nonché la possibilità di mutare le proprie condizioni di origine grazie alle proprie capacità e al proprio impegno, ma credo che il cambiamento più radicale riguardi più in generale il rapporto tra lo Stato e il Mercato, un rapporto che, almeno per la maggioranza della opinione pubblica, doveva essere caratterizzato da una sempre minore invadenza del primo nei confronti dell’efficienza e dell’efficacia intrinsecamente connesse all’agire del secondo.
Il destino cinico e baro ha voluto che a decidere la nazionalizzazione delle due più importanti entità dell’immenso settore del mortgage a stelle e strisce fossero George W. Bush e l’ex (?) investment banker, Hank Paulson, coadiuvati da Bernspan e altri esponenti dell’establishment, tutte persone che nessuno potrà mai sospettare di avere mai nutrito alcuna simpatia non dico per il socialismo, ma neppure per una forma blanda di intervento dello Stato nell’economia, anche se va detto che, forse proprio per le loro radicate convinzioni liberiste, non hanno voluto in alcun modo, pur a fronte delle centinaia di miliardi di dollari di aiuti diretti e le migliaia di miliardi di interventi più o meno indiretti, di operare quella vera e propria nazionalizzazione delle principali entità protagoniste del mercato finanziario statunitense invocata da numerosi e autorevoli economisti, un’operazione che avrebbe consentito di controllare meglio l’utilizzo dei fondi ricevuti, accelerato la ristrutturazione delle entità in grado di essere risanate e i successivi e necessari processi di aggregazione propedeutici al ritorno, si spera con profitto, delle banche in mano ai privati!