Temo proprio che non si stia seguendo con la dovuta attenzione il sempre più intenso dibattito in corso tra Cina, India, Brasile e Russia sull’opportunità di individuare soluzioni alternative all’utilizzo del dollaro statunitense come mezzo di pagamento e valuta di riserva, un dibattito che avviene a margine di accordi bilaterali tra questi paesi, accordi che prevedono o l’utilizzo delle proprie valute o l’individuazione di ‘valute sintetiche’ spesso basate su un paniere composto dalle principali valute convertibili.
Pur essendo del tutto evidente che non è interesse di questi paesi un crollo verticale delle quotazioni del dollaro o di quei titoli rappresentativi del debito statunitense che rappresentano insieme oltre il 70 per cento delle loro riserve valutarie, è tuttavia indubitabile lo sforzo in termini di diversificazione operato dai gestori di queste disponibilità, così come è del tutto evidente la crescente preferenza per titoli statunitensi a breve se non a brevissima scadenza, in luogo della precedente preferenza per i Treasury Bonds a 10 se non a 30 anni.
Analoghi interrogativi e mutamenti di comportamenti caratterizzano da alcuni decenni i governi e le autorità monetarie dei paesi arabi esportatori di petrolio e del Giappone, paesi strutturalmente esportatori netti per rilevanti ammontari medi e che si sono confrontati ben prima dei new comers sul ‘dilemma del dollaro’, una questione che ha assunto, almeno a tratti, carattere davvero angoscioso e che ha comportato scelte di investimento diversificate rappresentate da un mix di interventi in aziende industriali, nel settore del real estate, nell’acquisizione di quote di debito sovrano in Europa, in Asia, in America Latina e in svariati paesi dell’Estremo Oriente, mosse spesso accompagnate da una graduale ma sensibile riduzione del peso del dollaro e dei Treasury Bonds nelle loro riserve valutarie e che ha significativamente contribuito alla riduzione di questo peso a livelli che oscillano al 65 per cento, un livello che seppur ancora preponderante è largamente inferiore a quello riscontrabile negli ultimi decenni del secolo scorso.
Come è a tutti noto, lo squilibrio strutturale della bilancia commerciale statunitense e la correlativa crescita della posizione netta sull’estero di quella grande nazione è stato sino a oggi finanziato da un flusso di investimenti verso gli Stati Uniti d’America di dimensioni pari o superiore al fabbisogno, anche se è sempre più evidente la crescente riluttanza dei paesi creditori, complice anche la tempesta perfetta in corso da poco meno di due anni, a perpetuare questa davvero anomala forma di aggiustamento resa possibile dall’asimmetria implicita nei meccanismi individuati nel corso della conferenza di Bretton Woods, ‘miracolosamente’ sopravvissuti alla decisione unilaterale assunta il 15 agosto del 1971 dall’allora presidente Richard Nixon consistente nell’abbattimento dello sbilenco pilastro rappresentato dalla piena convertibilità del dollaro in oro, nel rapporto prefissato di 35 dollari per oncia.
Pur rinviando per maggiori dettagli i lettori al mio articolo “Accordi di cambio e speculazione: spunti per un nuovo approccio teorico”, apparso nel n° 5 del 1993 di Rivista Bancaria-Minerva Bancaria (pagg. 95-104), credo proprio sia necessario dedicare un approfondimento al sistema valutario che verrà, non solo e non tanto nei vertici del G20/G21 prossimi venturi, quanto sulla base del movimento spontaneo descritto nei paragrafi precedenti, un movimento prudente e graduale, ma a mio avviso, irreversibile e che si intreccerà in modo quasi inestricabile con gli sviluppi della crisi finanziaria e con la molto sottovalutata questione del più che possibile ingolfamento dell’offerta di titoli di Stato, ma di tutto questo mi occuperò più diffusamente nella puntata di domani.