In assenza dei mercati azionari statunitensi fermi per il lungo ponte previsto per la festività del 4 luglio, la giornata di ieri non ha fornito particolari indicazioni di direzione in Europa, mentre i mercati asiatici non hanno potuto che risentire di quanto è successo giovedì dopo la diffusione dei dati sull’occupazione in giugno negli Stati Uniti, dati che hanno fatto il paio con le omologhe informazioni relative sia all’eurozona che a alla più vasta area dell’Unione Europea.
Chiedo venia ai miei lettori per l’imprecisione relativa al tasso di disoccupazione nell’eurozona, da me erroneamente indicato al 9,6 per cento, mentre è stato del tutto identico a quello segnalato negli Usa e, cioè, pari al 9,5 per cento, mentre si mantiene all’8,9 per cento quello relativo ai ventisei paesi dell’Unione Europea, una lieve imprecisione che, purtroppo, non toglie nulla alla gravità della situazione sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, mentre vi è molta inquietudine in Giappone per l’approssimarsi del tasso di disoccupazione locale al massimo storico del 5,5 per cento.
Come ho ricordato nella puntata di ieri, la situazione del mercato del lavoro a stelle e strisce è ben più grave di quella segnalata dai dati ufficiali, in quanto gli stessi non tengono conto di quanti rinunciano del tutto a cercare un lavoro, così come non prendono in esame la trasformazione più o meno coatta di rapporti di lavoro a tempo pieno in rapporti a part-time, mentre sono del tutto esclusi dalle rilevazioni i 2,2 milioni di detenuti e gli svariati milioni di cittadini sottoposti al regime della libertà su parola o ad altre restrizioni della libertà alternative al regime carcerario, un’aggiunta, quest’ultima, che porterebbe il tasso effettivo di disoccupazione a poco meno del 20 per cento e, cioè, a oltre 30 milioni di donne e di uomini americani in età lavorativa ma non occupati, un numero assoluto pressoché doppio rispetto ai 14,7 milioni ufficiali e ai 26 milioni risultanti dall’applicazione dei criteri europei.
Per quanto riguarda, invece, il fronte del meltdown immobiliare in corso da oltre tre anni, ai poco positivi dati segnalati nei primi giorni della settimana ha fatto seguito il primo sensibile calo delle quotazioni nella città di New York, località che aveva sinora resistito abbastanza bene rispetto al resto del paese, un calo tra il 13 e il 19 per cento che si registra in contemporanea con un calo delle transazioni immobiliari che, secondo lo stesso studio, è pari al 50 per cento rispetto a quelle realizzate nell’anno precedente.
A costo di risultare noioso, mi permetto di ricordare che gli ultimi dati sull’occupazione e sulla perdurante crisi del settore immobiliare hanno già superato lo scenario peggiore dei già alquanto annacquati stress tests cui il sistema della riserva federale ha sottoposto le prime diciannove entità creditizie e assicurative operanti nel mercato finanziario statunitense, scenario che dovrebbe, a giudizio degli esperti, peggiorare ulteriormente da qui a fine anno, evidenziando tendenze di peggioramento dell’economia reale destinati a tradursi in un aumento dei non performing loans delle banche, mentre hanno largamente già superato i livelli di guardia i deliquency rates relativi alle carte di credito e ai prestiti personali.
Una piccola notazione sul consistente calo del prezzo del petrolio rispetto ai massimi di fase recentemente toccati, un calo del 10 per cento in pochi giorni che dovrebbe essere solo prodromico a cali più sensibili legati alle nuove stime dell’AIE che vedono una domanda in calo per poco meno di 7 milioni di barili al giorno nel biennio 2009-2010 rispetto ai livelli toccati nel 2008.