Un calo del prodotto interno lordo del Regno Unito nel secondo trimestre poco meno che triplo rispetto alle aspettative degli analisti nel confronto con il trimestre precedente, ma anche il più forte su base annua dal 1955, ha costituito, secondo le prime valutazioni governative, uno shock del tutto inatteso, anche perché anche nelle isole britanniche andavano per la maggiore quanti si ostinavano, almeno sino a ieri, a vedere germogli di ripresa in ogni dato meno che pessimo, una moda molto diffusa sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico e che, insieme al sempre più intenso operare delle cosiddette mani forti, ha determinato prima il rally dell’orso e, dopo una battuta d’arresto durata più o meno quattro settimane, ha spinto giovedì il Dow Jones a sfondare quota 9 mila e a raggiungere i massimi del 2009.
Per chi ama, come si dice a Roma, ‘riconsolarsi con l’aglietto’, si potrebbe anche fare notare che la flessione nel secondo trimestre del PIL britannico è stata inferiore a quella registrata nel confronto tra i dati del primo trimestre del 2009 e quelli dell’ultimo trimestre dell’anno precedente (anche se evidenti fattori di stagionalità sconsiglierebbero questo raffronto), ma trovo molto più significativa la previsione formulata a caldo da un esperto dell’ufficio nazionale di statistica che avverte che occorreranno almeno cinque anni perché il PIL pro capite torni, nel Regno Unito, ai livelli toccati prima della tempesta perfetta.
Ho dedicato troppe puntate del Diario della crisi finanziaria alla confutazione delle tesi degli ottimisti a ogni costo per avere voglia di tornare sull’argomento rappresentato dall’esistenza o meno dei germogli di ripresa, anche se, come hanno sostenuto economisti insigniti del premio Nobel, nutro il fondato timore che gli ‘ottimisti in buona fede’ abbiano semplicemente scambiato per segnali di ripresa quella inevitabile ricostituzione delle scorte che doveva necessariamente fare seguito a una fase lunghissima di svuotamento dei magazzini, sia all’ingrosso che al dettaglio, che aveva fatto seguito a sua volta ai timori dell’autunno scorso sul possibile default sistemico del mercato finanziario globale.
Ciò che sta, purtroppo, emergendo è che, in assenza di segnali significativi di ripresa della domanda effettiva, la mera ricostituzione delle scorte non è sufficiente, da sola, a consentire quell’inversione di tendenza che richiede che i consumatori tornino a consumare, gli imprenditori riprendano a investire e gli investitori decidano di interrompere il loro oramai più che biennale sciopero degli acquisti dei titoli della finanza più o meno strutturata.
Ma credo sia il caso di parlare di quella particolarissima forma di ciclo delle scorte che sta avvenendo nelle borse valori di tutto il pianeta, un fenomeno che non presenta differenze particolari tra Wall Street, Londra, l’Europa continentale e l’Estremo Oriente, anche perché la maggior parte dei protagonisti sono caratterizzati da un’operatività più o meno globale e hanno iniziato, quasi all’unisono, a mettere fieno in cascina acquisendo azioni proprie o altrui a partire dai minimi toccati a metà dello scorso mese di marzo, una costituzione di posizioni lunghe tutt’altro che statiche e che hanno consentito di contribuire significativamente ai conti economici delle entità di appartenenza, aumentandone gli utili o riducendone le perdite.
La delusione per i dati diffusi ieri da Microsoft, così come la mediocre performance della maggior parte delle società quotate, potrebbe rappresentare, per questi ‘scommettitori professionali’, il segnale che è giunta l’ora di girare le proprie posizioni!