Il Fondo Monetario Internazionale e il suo numero uno, l’ex ministro socialista delle Finanze, Dominique Strauss Kahn, sembra non vogliano proprio saperne di unirsi al coro degli ottimisti a oltranza, quelli, per intenderci, che vedono germogli di ripresa sia nelle notizie positive che in quelle negative, un atteggiamento davvero poco cooperativo che sta destando seri malumori sia nel gotha finanziario che tra i governi e le banche centrali dei paesi maggiormente industrializzati, insofferenze e malumori che non sembrano turbare più di tanto l’enorme stuolo di economisti assiepati nel maestoso edificio in quel di Washington, D.C., ove ha sede l’istituzione nata in base agli accordi di Bretton Woods.
Malumori e irritazioni dei grandi della terra sono via, via cresciute a fronte dei continui aggiornamenti delle perdite delle istituzioni finanziarie e degli investitori istituzionali derivanti dal meltdown finanziario provocato dagli alti marosi della tempesta perfetta, una cifra passata dai 100 miliardi di dollari del settembre 2007 a una di oltre venti volte superiore contenuta nell’elaborato più recente, della fin troppo accurata ripartizione delle perdite stesse sia a livello regionale che per tipo di operatori, del tempismo dei rilasci dei rapporti alla vigilia degli appuntamenti internazionali più delicati, il tutto condito da conferenze stampa poco o per nulla coordinate con i documenti conclusivi dei summit che si stavano svolgendo in quel momento.
Per non parlare della cruciale questione relativa all’individuazione del momento in cui potrebbe avere inizio la tanto sospirata ripresa dell’economia, una data che i governi, i banchieri centrali e quelli posti a capo delle banche più o meno globali vorrebbero la più prossima possibile, possibilmente entro la fine dell’anno in corso, un’aspirazione che non trova sponda negli ostinati economisti del Fondo, che anzi, ad ogni aggiornamento dell’Economic Outlook, continuano a spostare la fatidica data in avanti.
Basterebbe, peraltro, incrociare le stime sulle perdite previste dal Fondo e quelle effettivamente contabilizzate dalle maggiori entità protagoniste del mercato finanziario globale per comprendere appieno gli effetti della sospensione del mark to market decretata alla fine dell’anno scorso dagli organismi regolatori pressati dalle decisioni prese a metà ottobre dai leaders del G20 riuniti a Washington, una discrasia che non potrà certo durare a lungo, non fosse altro che per la dimensione abnorme della polvere messa così frettolosamente sotto il tappeto!
Ma poiché è sempre vero che il diavolo fa le pentole ma difficilmente riesce a fare i coperchi, il recentissimo allarme contenuto nell’ennesimo rapporto del Fondo dedicato alle probabili insolvenze nel comparto delle carte di credito rischia di mettere davvero a nudo il persistente problema legato allo stato di salute presente e, soprattutto, futuro delle banche globali poste al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, per la semplice ragione che sono previste insolvenze pari al 14 per cento dell’outstanding negli Stati Uniti d’America, mentre in Europa ci si fermerebbe a un tasso di insolvenza del 7 per cento, percentuale che ha già superato il 9 per cento in Gran Bretagna, paese che ha peraltro un peso specifico considerevole in questo comparto di attività.
Tradotto in soldoni, le perdite stimate per gli USA sarebbero pari a 268 miliardi di dollari, in gran parte concentrate su quel numero ristretto di grandissime banche che fanno la parte del leone in quest’attività, mentre quelle europee dovrebbero perdere ‘solo’ 173 miliardi di dollari, anche se, come già detto, una parte rilevante di queste perdite sarebbero a carico delle banche britanniche!