Dopo essersi affannati per alcune settimane a pesare le percentuali di possibilità riservate alla recessione statunitense prossima ventura, gli operatori del mercato finanziario globale possono confrontarsi con il primo report di una banca globale basata negli Stati uniti che, non utilizzando più i se ed i ma, affonda chiaramente il problema e prevede per l’anno prossimo una, seppur lieve recessione di quella che è stata per decenni la locomotiva del pianeta e che rimane lo sbocco possibile per la maggior parte delle merci asiatiche ed europee al di fuori dei rispettivi confini di area.
In un articolo dal titolo di per sé inquietante, Recession Coming, Richard Berner e David Greenlaw, economisti di Morgan Stanley ma non per questo da considerarsi automaticamente embedded, affermano che, a causa degli effetti della più grave crisi finanziaria degli ultimi sessanta anni, allo sciopero degli investitori farà con ogni probabilità seguito il ben più temibile sciopero dei consumatori più consumatori del mondo, le voraci cicale statunitensi che saranno costretti a mettere il silenziatore al frenetico zip zip delle loro micidiali carte di credito revolving che, seppur in attesa della conferma statistica, sono caratterizzate da un outstanding che ormai sfiora i mille miliardi di dollari.
L’isterica reazione di un mercato azionario statunitense ormai chiaramente dominato dagli investimenti delle corporations di ogni ordine e grado al terzo taglio dei tassi sui Fed Funds e alla quarta riduzione del tasso ufficiale di sconto dal 9 agosto scorso è comprensibile solo alla luce della percezione sempre più diffusa che l’effetto domino abbia ormai caratteristiche inarrestabili, in quanto basato sull’attacco frontale a due questioni cruciali per le famiglie statunitensi e che sono rappresentate dall’abitazione e dalla disponibilità sempre più scarsa di credito abbondante e poco caro.
L’ira degli investitori è accresciuta dal dispositivo della sentenza emessa ieri dal FOMC della Federal Reserve, che, nell’annunciare la riduzione del tasso sui Fed Funds dal 4,50 al 4,25 per cento e quello del TUS dal 5 al 4,75 per cento, rende noto per la prima volta che, per la Fed, i rischi di un contagio della crisi finanziaria alla economia reale USA sono ben maggiori dei rischi di inflazione, anche se i componenti del Board hanno ben chiaro che l’effetto congiunto dei prezzi delle materie prime e del valore esterno del dollaro sui prezzi al consumo sarà tutt’altro che trascurabile.
E’ però importante comprendere che la maggiore delusione degli investitori, e segnatamente delle banche, non è stata tanto legata alla misura del taglio sui Fed Funds, quanto per quella del tasso al quale le banche possono rifornirsi dalla banca centrale di quella liquidità ormai merce realmente rara, dando peraltro in cambio titoli dal sempre più dubbio valore, snobbando l’evidente considerazione che, dopo una lunga permanenza al 6,25 per cento, il taglio di questo tasso su un’operazione in passato utilizzata in rarissime occasione è sceso di 150 punti in base in soli quattro mesi, una riduzione che supera quella effettuata sui Fed Funds di ben 50 punti base.
La notazione sul ruolo delle aziende sull’andamento dei tre listini principali negli USA non è basata su un semplice sospetto, in quanto, solo in base ai programmi di buy back deliberati da società industriali e finanziarie, il volume di fuoco di cui dispongono le aziende è tale da riuscire a condizionare fortemente l’andamento giornaliero degli scambi ed i relativi valori, così come è ovvio che il momento migliore per realizzare i programmi di acquisto deliberati è quello nel quale i corsi risultano particolarmente depressi.
Se si pensa, poi, all’utilità per i piani di stock options dei top manager della contrazione del capitale sociale derivante dal buy back, con l’automatico innalzamento del livello del ROE, si comprende meglio la diffusione massiccia di questa opportunità di ridurre la massa di azioni in circolazione.
A coronamento del lungo dibattito sul modo di operare delle locuste, denominazione molto in voga per descrivere quei club per super ricchi che sono i private equity, giunge una notizia di carattere congiunturale e a fornirla è un addetto ai lavori, David Rogers, che sostiene che: “i fondi che si sono sempre limitati a guadagnare con l’ingegneria finanziaria soffriranno nei prossimi anni. Molti di loro genereranno guadagni inferiori alle aspettative degli investitori, per cui saranno forse costretti ad uscire dal business o forse non riusciranno più a raccogliere capitali”.
Ovviamente, l’esperto in questione proviene dal mondo delle locuste e dà la colpa della situazione attuale ai subprime che, mettendo in crisi l’intero comparto della finanza strutturata, hanno svelato al mondo intero una verità che era nota in genere ai soli addetti ai lavori e che consiste nel fatto che dietro alle mirabolanti scalate che hanno dominato le cronache finanziarie degli ultimi anni non vi erano i soldi investiti dai ricchi in questi fondi, ma un micidiale mix di credito bancario (poco) e di titoli emessi a copertura totale o parziale delle acquisizioni (tanto), meccanismo che, a partire da luglio, si è inceppato ed ha costretto le banche a rischiare i propri soldi ed a chiedere tassi più elevati e maggiori garanzie alle incredule locuste per troppo tempo abituate ad ottenere dollari a decine di miliardi con poco più di un giro di telefonate a banchieri felici di essere stati prescelti.
Citigroup ha finalmente un nuovo amministratore delegato nella persona dell’indiano Vikram Pandit, nato 50 anni fa a Bombay e già capo della divisione investimenti alternativi di Citi, ed un nuovo presidente, sempre scelto in casa, l’inglese Sir Win Bishoff, già capo delle operazioni europee della multinazionale statunitense del credito, mentre l’esausto Robert Rubin è finalmente tornato al suo remuneratissimo ruolo di nullafacente, un ruolo ben più adatto a chi ha speso una vita ai vertici di Goldman Sachs e si è anche dovuto sobbarcare la fatica di essere, per qualche anno, il ministro del Tesoro ai tempi della presidenza di Bill Clinton.
Come era largamente prevedibile dopo il disastro legato alle vicende della finanza strutturata, il presidente di UBS verrà presto messo alla porta e non sono in pochi a ritenere che anche l’amministratore delegato del colosso svizzero del credito, Marcel Rohner, lo seguirà su questa triste strada a stretto giro di posta.
In un articolo dal titolo di per sé inquietante, Recession Coming, Richard Berner e David Greenlaw, economisti di Morgan Stanley ma non per questo da considerarsi automaticamente embedded, affermano che, a causa degli effetti della più grave crisi finanziaria degli ultimi sessanta anni, allo sciopero degli investitori farà con ogni probabilità seguito il ben più temibile sciopero dei consumatori più consumatori del mondo, le voraci cicale statunitensi che saranno costretti a mettere il silenziatore al frenetico zip zip delle loro micidiali carte di credito revolving che, seppur in attesa della conferma statistica, sono caratterizzate da un outstanding che ormai sfiora i mille miliardi di dollari.
L’isterica reazione di un mercato azionario statunitense ormai chiaramente dominato dagli investimenti delle corporations di ogni ordine e grado al terzo taglio dei tassi sui Fed Funds e alla quarta riduzione del tasso ufficiale di sconto dal 9 agosto scorso è comprensibile solo alla luce della percezione sempre più diffusa che l’effetto domino abbia ormai caratteristiche inarrestabili, in quanto basato sull’attacco frontale a due questioni cruciali per le famiglie statunitensi e che sono rappresentate dall’abitazione e dalla disponibilità sempre più scarsa di credito abbondante e poco caro.
L’ira degli investitori è accresciuta dal dispositivo della sentenza emessa ieri dal FOMC della Federal Reserve, che, nell’annunciare la riduzione del tasso sui Fed Funds dal 4,50 al 4,25 per cento e quello del TUS dal 5 al 4,75 per cento, rende noto per la prima volta che, per la Fed, i rischi di un contagio della crisi finanziaria alla economia reale USA sono ben maggiori dei rischi di inflazione, anche se i componenti del Board hanno ben chiaro che l’effetto congiunto dei prezzi delle materie prime e del valore esterno del dollaro sui prezzi al consumo sarà tutt’altro che trascurabile.
E’ però importante comprendere che la maggiore delusione degli investitori, e segnatamente delle banche, non è stata tanto legata alla misura del taglio sui Fed Funds, quanto per quella del tasso al quale le banche possono rifornirsi dalla banca centrale di quella liquidità ormai merce realmente rara, dando peraltro in cambio titoli dal sempre più dubbio valore, snobbando l’evidente considerazione che, dopo una lunga permanenza al 6,25 per cento, il taglio di questo tasso su un’operazione in passato utilizzata in rarissime occasione è sceso di 150 punti in base in soli quattro mesi, una riduzione che supera quella effettuata sui Fed Funds di ben 50 punti base.
La notazione sul ruolo delle aziende sull’andamento dei tre listini principali negli USA non è basata su un semplice sospetto, in quanto, solo in base ai programmi di buy back deliberati da società industriali e finanziarie, il volume di fuoco di cui dispongono le aziende è tale da riuscire a condizionare fortemente l’andamento giornaliero degli scambi ed i relativi valori, così come è ovvio che il momento migliore per realizzare i programmi di acquisto deliberati è quello nel quale i corsi risultano particolarmente depressi.
Se si pensa, poi, all’utilità per i piani di stock options dei top manager della contrazione del capitale sociale derivante dal buy back, con l’automatico innalzamento del livello del ROE, si comprende meglio la diffusione massiccia di questa opportunità di ridurre la massa di azioni in circolazione.
A coronamento del lungo dibattito sul modo di operare delle locuste, denominazione molto in voga per descrivere quei club per super ricchi che sono i private equity, giunge una notizia di carattere congiunturale e a fornirla è un addetto ai lavori, David Rogers, che sostiene che: “i fondi che si sono sempre limitati a guadagnare con l’ingegneria finanziaria soffriranno nei prossimi anni. Molti di loro genereranno guadagni inferiori alle aspettative degli investitori, per cui saranno forse costretti ad uscire dal business o forse non riusciranno più a raccogliere capitali”.
Ovviamente, l’esperto in questione proviene dal mondo delle locuste e dà la colpa della situazione attuale ai subprime che, mettendo in crisi l’intero comparto della finanza strutturata, hanno svelato al mondo intero una verità che era nota in genere ai soli addetti ai lavori e che consiste nel fatto che dietro alle mirabolanti scalate che hanno dominato le cronache finanziarie degli ultimi anni non vi erano i soldi investiti dai ricchi in questi fondi, ma un micidiale mix di credito bancario (poco) e di titoli emessi a copertura totale o parziale delle acquisizioni (tanto), meccanismo che, a partire da luglio, si è inceppato ed ha costretto le banche a rischiare i propri soldi ed a chiedere tassi più elevati e maggiori garanzie alle incredule locuste per troppo tempo abituate ad ottenere dollari a decine di miliardi con poco più di un giro di telefonate a banchieri felici di essere stati prescelti.
Citigroup ha finalmente un nuovo amministratore delegato nella persona dell’indiano Vikram Pandit, nato 50 anni fa a Bombay e già capo della divisione investimenti alternativi di Citi, ed un nuovo presidente, sempre scelto in casa, l’inglese Sir Win Bishoff, già capo delle operazioni europee della multinazionale statunitense del credito, mentre l’esausto Robert Rubin è finalmente tornato al suo remuneratissimo ruolo di nullafacente, un ruolo ben più adatto a chi ha speso una vita ai vertici di Goldman Sachs e si è anche dovuto sobbarcare la fatica di essere, per qualche anno, il ministro del Tesoro ai tempi della presidenza di Bill Clinton.
Come era largamente prevedibile dopo il disastro legato alle vicende della finanza strutturata, il presidente di UBS verrà presto messo alla porta e non sono in pochi a ritenere che anche l’amministratore delegato del colosso svizzero del credito, Marcel Rohner, lo seguirà su questa triste strada a stretto giro di posta.
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