Il forte segnale di discontinuità dato dal nuovo amministratore delegato di Citigroup. Vikram Pandit, a solo pochi giorni dal suo insediamento fortemente voluto dal presidente ad interim Rober Rubin non è bastato ad evitare alla prima banca statunitense l’onta del downgrade da parte di analisti e società di rating, ma rappresenta, comunque, una netta inversione di tendenza rispetto a quella scarsa trasparenza ed opacità di bilancio che caratterizzava Citi al pari delle consorelle statunitensi ed europee.
Dopo l’esempio di HSBC e quello successivamente fornito da Citigroup, sarà molto diffcile per le banche operanti al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico continuare a tenere in vita quei simulacri aziendali rappresentati da SIV e Conduit, anche se, inglobando gli attivi dei suoi sette SIV, Pandit ha di fatto mandato in soffitta proprio quel MLEC, il fondo interbancario di salvataggio, appunto, di SIV e Conduit, così fortemente voluto dal ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, ma largamente sponsorizzato da Chuck Prince III e dai suoi omologhi di Bank of America e J.P. Morgan Chase, gettando così nella costernazione i manager impegnati da qualche giorno nel lancio della nuova creatura abortita prima ancora di essere nata.
So già che qualche malizioso si sarà posto qualche domanda sul dove siano andati a finire gli iniziali 100 miliardi di dollari di assett posseduti dai sette SIV di Citi non più tardi di cinque mesi orsono, ma credo proprio che la risposta non verrà mai data, perché la differenza rispetto ai 49 miliardi finita finalmente nei bilanci del colosso creditizio statunitense è formata da un forse inestricabile mix di vendite sottocosto e perdite reali di dimensioni tali da superare la capacità dei migliori tra gli spacchettatori che stanno emettendo in questi mesi parcelle milionarie per l’altrettanto improba fatica di venire a capo dell’effettivo mark to market della montagna di titoli della finanza strutturata posseduti direttamente o indirettamente dalle banche globali.
Quella che avevo raccontato qualche settimana fa sulla fortuna sfacciata di Goldman Sachs che, grazie all’intuizione del suo anziano direttore finanziario David Viniar, aveva deciso sin dal novembre del 2006 di uscire per quanto possibile da un ammontare di titoli della finanza strutturata cifrabile in molte decine di miliardi di dollari era, come si apprende oggi, solo una parte della storia, in quanto, grazie ad ben informato articolo del Wall Street Journal, si viene a sapere che la decisione di Viniar fu solo successiva all’operato di un’oscura sottodivisione della stessa Goldman che, dopo l’estate del 2006, iniziò ad andare controcorrente mettendosi corta sulla maggior parte degli strumenti della finanza derivata.
I bonus miliardari che andranno ai tre protagonisti di questa favola, al coraggioso direttore finanziario, per non parlare di quel sudatissimo premio compreso tra i 65 e i 70 miliardi di dollari che andrà al numero uno di Goldman, Larry Blankfein, sono dunque più che meritati, ma sorge spontanea la domanda sul vero motivo che ha spinto una delle banche che ha creato l’infernale meccanismo del trasferimento del rischio dal concedente al mercato a muoversi, come un sol uomo, in direzione della più massiccia operazione di smantellamento di quella che per anni era stata la gallina dalle uova d’oro del prestigioso istituto fondato nel 1866 e di tutte o quasi le variegate entità che popolano il mercato finanziario globale.
Dopo l’esempio di HSBC e quello successivamente fornito da Citigroup, sarà molto diffcile per le banche operanti al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico continuare a tenere in vita quei simulacri aziendali rappresentati da SIV e Conduit, anche se, inglobando gli attivi dei suoi sette SIV, Pandit ha di fatto mandato in soffitta proprio quel MLEC, il fondo interbancario di salvataggio, appunto, di SIV e Conduit, così fortemente voluto dal ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, ma largamente sponsorizzato da Chuck Prince III e dai suoi omologhi di Bank of America e J.P. Morgan Chase, gettando così nella costernazione i manager impegnati da qualche giorno nel lancio della nuova creatura abortita prima ancora di essere nata.
So già che qualche malizioso si sarà posto qualche domanda sul dove siano andati a finire gli iniziali 100 miliardi di dollari di assett posseduti dai sette SIV di Citi non più tardi di cinque mesi orsono, ma credo proprio che la risposta non verrà mai data, perché la differenza rispetto ai 49 miliardi finita finalmente nei bilanci del colosso creditizio statunitense è formata da un forse inestricabile mix di vendite sottocosto e perdite reali di dimensioni tali da superare la capacità dei migliori tra gli spacchettatori che stanno emettendo in questi mesi parcelle milionarie per l’altrettanto improba fatica di venire a capo dell’effettivo mark to market della montagna di titoli della finanza strutturata posseduti direttamente o indirettamente dalle banche globali.
Quella che avevo raccontato qualche settimana fa sulla fortuna sfacciata di Goldman Sachs che, grazie all’intuizione del suo anziano direttore finanziario David Viniar, aveva deciso sin dal novembre del 2006 di uscire per quanto possibile da un ammontare di titoli della finanza strutturata cifrabile in molte decine di miliardi di dollari era, come si apprende oggi, solo una parte della storia, in quanto, grazie ad ben informato articolo del Wall Street Journal, si viene a sapere che la decisione di Viniar fu solo successiva all’operato di un’oscura sottodivisione della stessa Goldman che, dopo l’estate del 2006, iniziò ad andare controcorrente mettendosi corta sulla maggior parte degli strumenti della finanza derivata.
I bonus miliardari che andranno ai tre protagonisti di questa favola, al coraggioso direttore finanziario, per non parlare di quel sudatissimo premio compreso tra i 65 e i 70 miliardi di dollari che andrà al numero uno di Goldman, Larry Blankfein, sono dunque più che meritati, ma sorge spontanea la domanda sul vero motivo che ha spinto una delle banche che ha creato l’infernale meccanismo del trasferimento del rischio dal concedente al mercato a muoversi, come un sol uomo, in direzione della più massiccia operazione di smantellamento di quella che per anni era stata la gallina dalle uova d’oro del prestigioso istituto fondato nel 1866 e di tutte o quasi le variegate entità che popolano il mercato finanziario globale.
Non vorrei che, una volta passata questa tempesta perfetta, Blankfein e compagni, sotto l’ipotetica accusa di essere stati destinatari del più grande caso di insider trading della storia, dovessero ripercorrere le orme del salvatore del mercato finanziario nella paradigmatica tempesta perfetta del 1907, quel John Pierpoint Morgan che, grazie ai suoi assegni e al carico d’oro del bastimento Lusitania, permise il recupero di Wall Street e dell’intera economia statunitense, per poi finire sotto accusa al Congresso, subendo attacchi di tale virulenza che lo segnarono per sempre e abbreviarono forse lo stesso corso della sua vita.
Mentre Citigroup se l’è cavata con la raffica di downgrade, peggio è andata alla svizzera UBS, destinataria di una class action promossa in terra statunitense da risparmiatori che ritengono di essere stati danneggiati in quanto il colosso svizzero avrebbe taciuto per mesi sulla reale entità delle perdite legate ai titoli della finanza strutturata, sostenendo, cioè, che la svalutazione da 10 miliardi di dollari sia avvenuta solo dopo aver trovato copertura dai due investitori giunti in suo soccorso, uno dall’Asia ed un altro, d’identità ancora ignota, dal Medio Oriente.
Con le banche centrali federate che impazzano sui mercati interbancari con veri e propri rovesci di liquidità, desta sorpresa la notizia, aparsa in un trafiletto di un quotidiano finanziario, che la Banca Centrale Europea sarebbe impegnata, con il solo riferimento al mercato creditizio spagnolo, per l’astronomica cifra di 40 miliardi di dollari e che si tratterebbe di un intervento di soli 5 miliardi di euro superiore rispetto a quello che mantiene ormai in piedi da settimane, in ragione di non meglio precisate difficoltà delle banche iberiche che, poi, in realtà, anche alla luce del forte processo di concentrazione avvenuto in quel paese, si riducono di fatto a due sole entità: Santander e BBVA.
Peccato che non siano altrettanto note le cifre disaggregate relative agli altri grandi mercati creditizi europei, ad esempio, quello francese, quello tedesco o quello italiano, anche se siamo sicuri che, come una madre severe ma imparziale, la BCE non abbia sottovalutato le necessità di nessuno dei richiedenti, mentre per il mercato britannico ci pensa la Bank of England che, alle prese con la nazionalizzazione della disastrata Northern Rock, sta ugualmente e doverosamente facendo la sua parte, anche per evitare che nei guai, stavolta, finiscano istituti del calibro di HSBC, Barclays o Bank of Scotland che vantano un tale ammontare di depositi da eventualmente garantire del tutto al di là delle possibilità dell’intrepido Mervin King.
La netta flessione registrata venerdì sui tre principali listini statunitensi ha ovviamente contagiato ieri prima l’Asia e poi l’Europa, con il relativo conto dei morti e dei feriti tra le molteplici entità che popolano il mercato finanziario dei cinque continenti, anche se le entità dei ribassi sono alquanto diverse da caso a caso, differenze in larga parte dovute alla diversità dei sospetti sullo stato di salute, attuale e prospettica, dei singoli istituti.
Successo, anche se credo proprio sia temporaneo, delle banche centrali federate sul fronte valutario, con l’euro sceso ai minimi da settimane contro la valuta statunitense, mentre molto più modesti sono i progressi di questa nei confronti dello yen.
Nessun commento:
Posta un commento