Venerdì scorso, è caduta come una meteora sui già attoniti operatori economici una dettagliata analisi dell’Associated Press che segnala il nuovo problema che si sta abbattendo sulle banche e le altre entità finanziarie operanti negli Stati Uniti e che è rappresentato da quell’altrettanto prevedibile aumento esponenziale dei ritardi e dei default individuali in relazione alle carte di credito, in particolare a quei micidiali strumenti denominati carte di credito revolving, che consentono al possessore di pagare, a tassi che in non pochi casi in Italia sarebbero oltre la soglia di usura, solo una frazione delle spese, in quanto l’outstanding viene rateizzato in modi e con cadenze diverse da caso a caso.
A parte i casi eccezionali di Bank of America, che presenta un volume di debito da carte in pessime condizioni per 5 miliardi di dollari e un deliquency rate (così viene definito negli USA il tasso relativo ai ritardatari) cresciuto del 200 per cento in novembre rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, o di Capital One, afflitta da problemi analoghi e che prevede messe a perdita a questo titolo per 4,9 miliardi nel 2008, è tutta l’industria finanziaria statunitense (crescite dei ritardi nell’ordine del 50 per cento colpiscono HSBC, Advanta e GE MB) che sta tremando rispetto alla quasi certa ipotesi che una parte consistente di quell’outstanding che la Federal Reserve stimava in ottobre in 920 miliardi di dollari possa andare in malore tra fallimenti individuali (ammessi negli USA) o in piani di ristrutturazione disposti per via giudiziale a tassi molto più contenuti e con dilazioni molto dilatate nel tempo.
Anche se verrebbe da dire “è la finanza, bellezza”, non può essere trascurato il particolare che, come per i mutui, gli acquisti dell’auto e tante altre forme di finanziamento, anche per i debiti derivanti dalle zip zip delle tesserine di plastica che le emittenti offrono praticamente a chiunque, è stato impacchettato in titoli della finanza strutturata una percentuale che sfiora, secondo la Fed, la metà del totale dei 920 miliardi di dollari (il 45 per cento per l’esattezza) e che di questi, come degli altri titoli, sembra proprio che nessuno voglia più saperne.
Uno sconsolato finanziare di Fort Lauderdale (Florida) si è trovato a mandare perentori avvisi di pagamento a 5 milioni di titolari di carte di credito, ma ha ancora la forza di affermare che “il desiderio di consumatori di volere, volere, volere e di spendere, spendere, spendere è la vera base economica della nostra nazione”, ben consapevole di avere la base della sua attività in uno stato che, insieme alla California, è stato in assoluto trai più colpiti dagli effetti devastanti della crisi dei mutui immobiliari.
Già, perché l’utilizzo spasmodico delle carte di plastica è in larga parte dovuto all’inaridirsi di quel canale impetuoso di finanziamento che sino ad un anno fa era rappresentato dal rifinanziamento dei mutui reso possibile dalla crescita infinita del valore delle quotazioni e che faceva dire all’allora numero uno della Fed, Alan Greenspan, nel corso di una Humphrey Hawkings (appuntamento che si tiene due volte al Senato statunitense) che chi non aveva approfittato delle possibilità offerte dal rifinanziamento aveva in realtà perso decine di migliaia di dollari (e il Maestro Greenspan è ancora a piede libero).
Quando sarà possibile passare dalla cronaca alla storia di questa tempesta perfetta, il capitolo dedicato alla adeguatezza o meno delle mosse dei ministri e dei governatori delle banche centrali assumerà certamente una parte di rilievo nel corpo dell’opera, anche se credo che, anche a partire dal day by day che sto cercando di descrivere in questi mesi, i lettori un’idea delle contraddizioni e del pressappochismo di questi presunti capitani di lungo corso, abituati al più a navigare in acque molto tranquille, se la saranno certamente già fatta.
Vi è, tuttavia, un punto certo e fermo sul quale non mi stancherò mai di soffermarmi di quando in quando ed è rappresentato dall’aperta contraddizione tra le parabole sull’inflessibile fermezza dei governi e dei governatori delle banche centrali nei confronti di quello che viene definito azzardo morale, con l’inevitabile corollario sulla determinazione a non fare nulla per favorire gli speculatori e, invece, i comportamenti effettivi di Bernanke e soci e di Paulson e compagni, comportamenti che anche i più timidi e conservatori tra gli osservatori, Nobel per l’economia inclusi, hanno bollato come un aperto soccorso a banchieri e finanzieri.
Ma venendo per un momento alle piccole vicende italiane, credo proprio che sia necessaria una riflessione più approfondita sul clamoroso flop del tentativo di un oscuro costruttore marchigiano, sponsorizzato apertamente da Intesa San Paolo e dal suo CEO, Corrado Passera, di acquisire Alitalia in base ad uno di quei piani industriali che le banche sono solite presentare ai propri azionisti e alle controparti sindacali, un piano della cui più che prevedibile inconsistenza si è reso conto anche il molto provvisorio Consiglio di Amministrazione di Alitalia preferendogli quello ben più corposo e credibile presentato da quella Air France che è reduce da un risanamento che ha avuto quasi del miracoloso e che già controlla KLM.
Chissà perché, a tal proposito, mi torna in mente la richiesta perentoria dell’allora azionista numero uno di Citigroup, un noto principe della sterminata famiglia reale dell'Arabia Saudita e grande finanziere che, chiedendo la testa di Chuck Prince III al di lui mentore e predecessore Weill, sostenne che era ormai ora che alla testa delle banche tornassero i banchieri e, più in particolare che mai e poi mai un avvocato avrebbe potuto assurgere al ruolo di amministratore delegato di una banca, almeno di una nella quale lui aveva investito in prima persona una montagna di soldi.
A parte i casi eccezionali di Bank of America, che presenta un volume di debito da carte in pessime condizioni per 5 miliardi di dollari e un deliquency rate (così viene definito negli USA il tasso relativo ai ritardatari) cresciuto del 200 per cento in novembre rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, o di Capital One, afflitta da problemi analoghi e che prevede messe a perdita a questo titolo per 4,9 miliardi nel 2008, è tutta l’industria finanziaria statunitense (crescite dei ritardi nell’ordine del 50 per cento colpiscono HSBC, Advanta e GE MB) che sta tremando rispetto alla quasi certa ipotesi che una parte consistente di quell’outstanding che la Federal Reserve stimava in ottobre in 920 miliardi di dollari possa andare in malore tra fallimenti individuali (ammessi negli USA) o in piani di ristrutturazione disposti per via giudiziale a tassi molto più contenuti e con dilazioni molto dilatate nel tempo.
Anche se verrebbe da dire “è la finanza, bellezza”, non può essere trascurato il particolare che, come per i mutui, gli acquisti dell’auto e tante altre forme di finanziamento, anche per i debiti derivanti dalle zip zip delle tesserine di plastica che le emittenti offrono praticamente a chiunque, è stato impacchettato in titoli della finanza strutturata una percentuale che sfiora, secondo la Fed, la metà del totale dei 920 miliardi di dollari (il 45 per cento per l’esattezza) e che di questi, come degli altri titoli, sembra proprio che nessuno voglia più saperne.
Uno sconsolato finanziare di Fort Lauderdale (Florida) si è trovato a mandare perentori avvisi di pagamento a 5 milioni di titolari di carte di credito, ma ha ancora la forza di affermare che “il desiderio di consumatori di volere, volere, volere e di spendere, spendere, spendere è la vera base economica della nostra nazione”, ben consapevole di avere la base della sua attività in uno stato che, insieme alla California, è stato in assoluto trai più colpiti dagli effetti devastanti della crisi dei mutui immobiliari.
Già, perché l’utilizzo spasmodico delle carte di plastica è in larga parte dovuto all’inaridirsi di quel canale impetuoso di finanziamento che sino ad un anno fa era rappresentato dal rifinanziamento dei mutui reso possibile dalla crescita infinita del valore delle quotazioni e che faceva dire all’allora numero uno della Fed, Alan Greenspan, nel corso di una Humphrey Hawkings (appuntamento che si tiene due volte al Senato statunitense) che chi non aveva approfittato delle possibilità offerte dal rifinanziamento aveva in realtà perso decine di migliaia di dollari (e il Maestro Greenspan è ancora a piede libero).
Quando sarà possibile passare dalla cronaca alla storia di questa tempesta perfetta, il capitolo dedicato alla adeguatezza o meno delle mosse dei ministri e dei governatori delle banche centrali assumerà certamente una parte di rilievo nel corpo dell’opera, anche se credo che, anche a partire dal day by day che sto cercando di descrivere in questi mesi, i lettori un’idea delle contraddizioni e del pressappochismo di questi presunti capitani di lungo corso, abituati al più a navigare in acque molto tranquille, se la saranno certamente già fatta.
Vi è, tuttavia, un punto certo e fermo sul quale non mi stancherò mai di soffermarmi di quando in quando ed è rappresentato dall’aperta contraddizione tra le parabole sull’inflessibile fermezza dei governi e dei governatori delle banche centrali nei confronti di quello che viene definito azzardo morale, con l’inevitabile corollario sulla determinazione a non fare nulla per favorire gli speculatori e, invece, i comportamenti effettivi di Bernanke e soci e di Paulson e compagni, comportamenti che anche i più timidi e conservatori tra gli osservatori, Nobel per l’economia inclusi, hanno bollato come un aperto soccorso a banchieri e finanzieri.
Ma venendo per un momento alle piccole vicende italiane, credo proprio che sia necessaria una riflessione più approfondita sul clamoroso flop del tentativo di un oscuro costruttore marchigiano, sponsorizzato apertamente da Intesa San Paolo e dal suo CEO, Corrado Passera, di acquisire Alitalia in base ad uno di quei piani industriali che le banche sono solite presentare ai propri azionisti e alle controparti sindacali, un piano della cui più che prevedibile inconsistenza si è reso conto anche il molto provvisorio Consiglio di Amministrazione di Alitalia preferendogli quello ben più corposo e credibile presentato da quella Air France che è reduce da un risanamento che ha avuto quasi del miracoloso e che già controlla KLM.
Chissà perché, a tal proposito, mi torna in mente la richiesta perentoria dell’allora azionista numero uno di Citigroup, un noto principe della sterminata famiglia reale dell'Arabia Saudita e grande finanziere che, chiedendo la testa di Chuck Prince III al di lui mentore e predecessore Weill, sostenne che era ormai ora che alla testa delle banche tornassero i banchieri e, più in particolare che mai e poi mai un avvocato avrebbe potuto assurgere al ruolo di amministratore delegato di una banca, almeno di una nella quale lui aveva investito in prima persona una montagna di soldi.
Con buona pace dei tanti, politici e sindacalisti di rango, amministratori delle ricche regioni del Nord Italia, giornalisti e compagnia cantando, che stanno strillando sulla perduta italianità e sulla messa in discussione delle vaste e progressive sorti di quella specie di aborto che è l'hub di Malpensa, scommetto qui ed ora che prodi terrà botta e che la partita della vendita della nostra compagnia di bandiera è a questo punto e per fortuna definitivamente chiusa e che Toto farebbe bene a vendere a qualcuno (Lufthansa?) la sua creatura, Air One, e farlo presto, prima che sia troppo tardi.
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