E’ bene, ogni tanto, scendere dagli empirei della finanza globale per osservare più da vicini i forti contraccolpi che la tempesta perfetta e i suoi corollari stanno imprimendo all’economia reale, quel coacervo di produzione, distribuzione e soddisfacimento dei bisogni delle centinaia di milioni di persone che vivono negli Stati Uniti e di quel numero molto maggiore di uomini e di donne che abitano il pianeta.
L’occasione per questo bagno di realtà è fornita dall’andamento del tutto deludente delle vendite natalizie negli Stati Uniti d’America, in quanto quell’exploit che inizia con il Thanksgiving e finisce nei giorni immediatamente successivi al Natale non solo non si è verificato quest’anno, nonostante le maggiori catene abbiano iniziato a fare sconti e maxi sconti sin da novembre, ma anche le modeste previsioni di crescita si sono rivelate troppo ottimistiche e la crescita delle vendite si è fermata al 2,4 per cento, poco più di un terzo del robusto + 6,6 per cento registrato, anno su anno, nello stesso periodo del 2006.
Quello che ha maggiormente colpito i cronisti inviati sul campo nei giorni clou della kermesse natalizia è stato l’atteggiamento di estrema prudenza dei solitamente famelici ed onnivori consumatori, che mostravano di spendere con cautela anche i buoni acquisto ricevuti in dono da amici e parenti, consumatori che, quasi fossero europei, limitavano gli acquisiti alle cose utili come l’abbigliamento e, più in generale, quei prodotti che hanno caratteristiche di maggiore o minore indispensabilità, insensibili alle sirene dei prodotti hi tech e di tutti quei prodotti dei quali ci si chiede la reale utilità dopo un acquisto che è, in genere, stimolato da un impulso compulsivo e che viene poi raramente utilizzato.
E’ appena il caso di ricordare che i due terzi del prodotto interno lordo sono rappresentati dai consumi e che, quindi, il flop della solitamente florida stagione natalizia e la palese inefficacia di sconti che si spingono fino ad un proibitivo 70 per cento forniscono, insieme alla sempre più grave crisi del settore immobiliare, una risposta molto più eloquente al ricorrente interrogativo sulle possibilità concrete dell’entrata in una fase recessive delle sibilline parole di Alan Greenspan o dei report dell’innumerevole pletora di centri di analisi più o meno interessati, più o meno embedded alla cultura finanziaria dominante.
Sì, perché anche in questi giorni giungono notizie preoccupanti dal settore immobiliare statunitense e a fornirle sono due rapporti seguiti con grande attenzione dagli addetti ai lavori e che ci dicono che ormai la caduta dei prezzi delle abitazioni supera per intensità quella dell’orribile 1991 che aprì le porte della Casa Bianca al semisconosciuto Bill Clinton che azzeccò il fortunato mantra (It’s economy, stupid!) che atterrò letteralmente Bush padre che, grazie alla vittoria ottenuta contro Saddam Hussein nella prima e molto più saggia guerra del Golfo, avrebbe dovuto avere in tasca la rielezione, ma anche una flessione dei prezzi che sta interessando, per il secondo rapporto, praticamente tutte le aree degli USA.
Secondo l’indice Standard & Poor’s/Case-Shiller, infatti, la flessione ha raggiunto in ottobre una velocità anno su anno del 6,9 per cento, contro il 6,3 dell’aprile 1991, con una flessione ininterrotta che dura ormai da dieci mesi mentre sono 23 i mesi di flessione o crescita inferiore a quelle dei periodi corrispondenti e gli analisti che curano il rapporto si aspettano una ulteriore flessione dei prezzi del 10 per cento nei mesi a venire e spostano alla fine del 2008 l’agognato momento nel quale i prezzi dovrebbero toccare il fondo e si dovrebbe assistere ad una ripresa delle vendite che dovrebbe, almeno nei loro auspici, portare con sé una lenta e graduale ripresa dei prezzi di quella case individuali, quelle villette con giardino sul fronte e qualche volta anche sul retro che rappresentano, molto più di un semplice appartamento, il coronamento del sogno americano e garantiscono ai cittadini di quel paese quella relativa sicurezza che rappresenta il vero motore dei consumi.
Nell’analizzare le vere cause della crisi finanziaria, sono partito dallo sciopero degli investimenti, quel fenomeno che ha pochi precedenti nella storia recente americana, ma questi primi segnali dello sciopero dei consumatori presenta caratteristiche ed apre prospettive molto più inquietanti, perché rappresenta il tassello fondamentale di quell’effetto domino che è in fondo l’incubo di tutti gli economisti, una definizione che solo negli ultimi giorni e nelle ultime settimane comincia ad apparire tra le righe delle interviste fatte ai Nobel per l’economia ed anche negli articoli o nei report degli economisti più vicini alle sorti del mercato.
Una rapida scorsa ai recenti valori che il mercato attribuisce alle azioni delle aziende impegnate nel settore delle costruzioni, un settore che ha un grosso peso nella performance dell’economia americana e nello stock e nei flussi dell’occupazione, permette di constatare che, rispetto ai massimi registrati nella prima parte dell’anno, si segnalano flessioni che vanno dal 40 al 72 per cento ed una flessione media dei corsi azionari che supera anche quel calo medio delle azioni delle entità finanziarie che non hanno fatto ricorso alla protezione della legge fallimentare statunitense e che viaggia ormai da molti mesi intorno ad una perdita del 40 per cento.
Conforta, in questo quadro leggermente desolante, apprendere che, in questo altrimenti orribile 2007, il presidente ed amministratore delegato di Tyson Food, Richard L. Bond, un signore che è a capo della più grande azienda alimentare del mondo, ha ricevuto, in varie forme, compensi complessivi per 24,6 milioni di dollari, una cifra stratosferica contando che il suo stipendi contrattuale è di appena 1,2 milioni di dollari, ma che trova una certa giustificazione nel fatto che la sua colossale azienda è una delle poche che non dovrà preoccuparsi eccessivamente della crisi finanziaria o di quella dell’economia reale, perché, come si usa dire, la gente può fare a meno dell’hi tech, degli abiti firmati e di molte altre cose, ma molto difficilmente potrà rinunciare ai generi offerti da Tyson Food o dalle altre aziende operanti nel settore alimentare.
Alla luce di queste brevi considerazioni sull’andamento attuale e prospettico dell’economia reale, è molto più facile comprendere i motivi per i quali il Presidente Bush, come ricordavo ieri, ha dichiarato, nella settimana nella quale la gente ha più bisogno di essere rassicurata sul suo futuro, di attendersi che una vera soluzione dell’impasse economica e finanziaria in corso non potrà venire in tempi rapidi, dichiarazione fatta anche per evitare di essere ricordato, negli anni a venire, non solo come l’autore della più disastrosa strategia in materia di politica internazionale, ma anche come un epigono del tristemente noto Hedgar Hoover.
L’occasione per questo bagno di realtà è fornita dall’andamento del tutto deludente delle vendite natalizie negli Stati Uniti d’America, in quanto quell’exploit che inizia con il Thanksgiving e finisce nei giorni immediatamente successivi al Natale non solo non si è verificato quest’anno, nonostante le maggiori catene abbiano iniziato a fare sconti e maxi sconti sin da novembre, ma anche le modeste previsioni di crescita si sono rivelate troppo ottimistiche e la crescita delle vendite si è fermata al 2,4 per cento, poco più di un terzo del robusto + 6,6 per cento registrato, anno su anno, nello stesso periodo del 2006.
Quello che ha maggiormente colpito i cronisti inviati sul campo nei giorni clou della kermesse natalizia è stato l’atteggiamento di estrema prudenza dei solitamente famelici ed onnivori consumatori, che mostravano di spendere con cautela anche i buoni acquisto ricevuti in dono da amici e parenti, consumatori che, quasi fossero europei, limitavano gli acquisiti alle cose utili come l’abbigliamento e, più in generale, quei prodotti che hanno caratteristiche di maggiore o minore indispensabilità, insensibili alle sirene dei prodotti hi tech e di tutti quei prodotti dei quali ci si chiede la reale utilità dopo un acquisto che è, in genere, stimolato da un impulso compulsivo e che viene poi raramente utilizzato.
E’ appena il caso di ricordare che i due terzi del prodotto interno lordo sono rappresentati dai consumi e che, quindi, il flop della solitamente florida stagione natalizia e la palese inefficacia di sconti che si spingono fino ad un proibitivo 70 per cento forniscono, insieme alla sempre più grave crisi del settore immobiliare, una risposta molto più eloquente al ricorrente interrogativo sulle possibilità concrete dell’entrata in una fase recessive delle sibilline parole di Alan Greenspan o dei report dell’innumerevole pletora di centri di analisi più o meno interessati, più o meno embedded alla cultura finanziaria dominante.
Sì, perché anche in questi giorni giungono notizie preoccupanti dal settore immobiliare statunitense e a fornirle sono due rapporti seguiti con grande attenzione dagli addetti ai lavori e che ci dicono che ormai la caduta dei prezzi delle abitazioni supera per intensità quella dell’orribile 1991 che aprì le porte della Casa Bianca al semisconosciuto Bill Clinton che azzeccò il fortunato mantra (It’s economy, stupid!) che atterrò letteralmente Bush padre che, grazie alla vittoria ottenuta contro Saddam Hussein nella prima e molto più saggia guerra del Golfo, avrebbe dovuto avere in tasca la rielezione, ma anche una flessione dei prezzi che sta interessando, per il secondo rapporto, praticamente tutte le aree degli USA.
Secondo l’indice Standard & Poor’s/Case-Shiller, infatti, la flessione ha raggiunto in ottobre una velocità anno su anno del 6,9 per cento, contro il 6,3 dell’aprile 1991, con una flessione ininterrotta che dura ormai da dieci mesi mentre sono 23 i mesi di flessione o crescita inferiore a quelle dei periodi corrispondenti e gli analisti che curano il rapporto si aspettano una ulteriore flessione dei prezzi del 10 per cento nei mesi a venire e spostano alla fine del 2008 l’agognato momento nel quale i prezzi dovrebbero toccare il fondo e si dovrebbe assistere ad una ripresa delle vendite che dovrebbe, almeno nei loro auspici, portare con sé una lenta e graduale ripresa dei prezzi di quella case individuali, quelle villette con giardino sul fronte e qualche volta anche sul retro che rappresentano, molto più di un semplice appartamento, il coronamento del sogno americano e garantiscono ai cittadini di quel paese quella relativa sicurezza che rappresenta il vero motore dei consumi.
Nell’analizzare le vere cause della crisi finanziaria, sono partito dallo sciopero degli investimenti, quel fenomeno che ha pochi precedenti nella storia recente americana, ma questi primi segnali dello sciopero dei consumatori presenta caratteristiche ed apre prospettive molto più inquietanti, perché rappresenta il tassello fondamentale di quell’effetto domino che è in fondo l’incubo di tutti gli economisti, una definizione che solo negli ultimi giorni e nelle ultime settimane comincia ad apparire tra le righe delle interviste fatte ai Nobel per l’economia ed anche negli articoli o nei report degli economisti più vicini alle sorti del mercato.
Una rapida scorsa ai recenti valori che il mercato attribuisce alle azioni delle aziende impegnate nel settore delle costruzioni, un settore che ha un grosso peso nella performance dell’economia americana e nello stock e nei flussi dell’occupazione, permette di constatare che, rispetto ai massimi registrati nella prima parte dell’anno, si segnalano flessioni che vanno dal 40 al 72 per cento ed una flessione media dei corsi azionari che supera anche quel calo medio delle azioni delle entità finanziarie che non hanno fatto ricorso alla protezione della legge fallimentare statunitense e che viaggia ormai da molti mesi intorno ad una perdita del 40 per cento.
Conforta, in questo quadro leggermente desolante, apprendere che, in questo altrimenti orribile 2007, il presidente ed amministratore delegato di Tyson Food, Richard L. Bond, un signore che è a capo della più grande azienda alimentare del mondo, ha ricevuto, in varie forme, compensi complessivi per 24,6 milioni di dollari, una cifra stratosferica contando che il suo stipendi contrattuale è di appena 1,2 milioni di dollari, ma che trova una certa giustificazione nel fatto che la sua colossale azienda è una delle poche che non dovrà preoccuparsi eccessivamente della crisi finanziaria o di quella dell’economia reale, perché, come si usa dire, la gente può fare a meno dell’hi tech, degli abiti firmati e di molte altre cose, ma molto difficilmente potrà rinunciare ai generi offerti da Tyson Food o dalle altre aziende operanti nel settore alimentare.
Alla luce di queste brevi considerazioni sull’andamento attuale e prospettico dell’economia reale, è molto più facile comprendere i motivi per i quali il Presidente Bush, come ricordavo ieri, ha dichiarato, nella settimana nella quale la gente ha più bisogno di essere rassicurata sul suo futuro, di attendersi che una vera soluzione dell’impasse economica e finanziaria in corso non potrà venire in tempi rapidi, dichiarazione fatta anche per evitare di essere ricordato, negli anni a venire, non solo come l’autore della più disastrosa strategia in materia di politica internazionale, ma anche come un epigono del tristemente noto Hedgar Hoover.
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