Mercoledì scorso, prima dell’apertura dei mercati statunitensi, è accaduto esattamente quello che non doveva accadere nel corso di una crisi finanziaria senza precedenti a partire dal secondo dopoguerra e, cioè, l’annuncio di un’azione massiccia e coordinata delle principali banche centrali del pianeta all’unico scopo di riportare manu militari un clima più sereno sul mercato interbancario statunitense, britannico ed europeo.
Perché si tratta di una mossa sbagliata e i cui effetti potrebbero essere diametralmente opposti ai desiderata dei banchieri centrali scesi pubblicamente su un campo che, in realtà, non hanno mai abbandonato a partire dal 9 agosto scorso?
Semplicemente perché quelli che, almeno in materia di politica monetaria, venivano considerati gli uomini più potenti del mondo occidentale hanno le armi spuntate, il che è dimostrato dal fatto che dopo interventi sul mercato per somme mai viste in precedenza, dopo aver esperito in ogni modo possibile la moral suasion nei confronti delle banche, dopo ripetuti tagli dei tassi di interesse negli USA, un taglio almeno in Canada e Gran Bretagna e i non rialzi nell’area dell’euro, le condizioni esistenti nel mercato interbancario, invece di distendersi, si sono irrigidite al punto che i tassi nelle due scadenze di maggior riferimento per mutui e prestiti indicizzati nell’area dell’euro hanno superato, poco prima dell’annuncio, la soglia psicologica del 5 per cento, mentre in Gran Bretagna il differenziale tra l’appena ridotto tasso di riferimento e quelli interbancari si colloca ormai a 120 punti base in favore ovviamente di questi ultimi.
D’altra parte, la reazione isterica del mercato azionario statunitense al terzo taglio di fila sui Fed Funds e la riduzione complessiva di un punto e mezzo del tasso ufficiale di sconto, ma più in particolare il tracollo del comparto bancario e finanziario, principale beneficiario delle sforbiciate compiute ed attese di Bernanke e compagni, è stata più eloquente di ogni analisi e, non a caso lo scenario si è ripetuto nuovamente dopo l’annuncio con un rally prontamente abortito, mentre nel comparto finanziario si è ripetuto, per il secondo giorno consecutivo, la conta dei morti e dei feriti.
Il problema è rappresentato da un’errata analisi delle cause delle crisi, con i giornali che non a caso continuano a vedere nei subprime non tanto la causa scatenante ma il problema dei problemi, incuranti dell’analisi recente del Maestro Alan Greenspan che ha candidamente ammesso che, se non fosse iniziata nel comparto dei subprime, la crisi sarebbe comunque partita prima o poi da uno dei tanti segmenti della finanza strutturata, LBO, CDO, Commercial Papers, ben inzeppati nei veicoli di varia denominazione, SIV e Conduit, opportunamente tenuti fuori dai bilanci delle banche, se non per il passaggio a conto economico delle laute commissioni percepite dalle banche in un’attività che assomiglia molto più a quella di un salumificio che a quella tipicamente creditizia.
E’ utile riportare un passaggio dell’articolo del Maestro pubblicato sul Wall Street Journal, quando afferma che “il rischio ha iniziato ad essere sottoprezzato in modo crescente da quando l’euforia del mercato, sospinta da un tasso di crescita globale senza precedenti, ha sperimentato una spinta cumulativa….la crisi era dunque un evento che stava per accadere”.
Ma vi è un aspetto più grave in questa crisi, che va al di là delle diagnosi giuste o errate e delle corrispettive terapie più o meno giuste, ed è rappresentato dalla scoperta che un mare magnum di liquidità era allocata in organismi che, per la loro natura, erano assolutamente al di fuori della vigilanza delle stesse banche centrali, così come ancora oggi non si capisce se esisteva una qualche istituzione deputata a tutelare un altrettanto mare di risparmiatori rispetto ai rischi insiti in titoli talmente complessi che è nata la nuova figura professionale dello spacchettatore per fornire una risposta di qualche attendibilità alla non marginale questione del valore di mercato di questi stessi titoli.
Non si tratta di un approccio da consumerista o, peggio ancora, da leguleio, quanto della constatazione che volumi di attività finanziarie nell’ordine assolutamente prudenziale di 10-15 mila miliardi di dollari potessero liberamente vagare per il mercato globale senza che, da una semplice analisi incrociata tra assett presenti nei bilanci delle banche e flussi di commissioni, emergesse che una buona parte delle banche globali avesse il controllo, seppur indiretto, di montagne di finanza strutturata multiple dei volumi di carattere più strettamente creditizio.
Non è, peraltro, accidentale che anche la timida proposta del ministro italiano dell’economia, Tommaso Padoa Schioppa, che lo ricordo spingeva l’Ecofin a farsi promotore della istituzione di qualche forma di vigilanza transnazionale nell’ambito dell’Unione europea è stata respinta con perdite da un fronte trasversale che vedeva accomunati i new comers e paesi che rappresentano un pezzo importante della lunga storia dell’Europa comunitaria, ripetendo così il copione che era andata in scena questa estate, quando i nuovi entrati si opposero ad una vigilanza centralizzata sui loro sistemi bancari.
Alla base dell’annuncio della azione coordinata tra le cinque banche centrali vi è anche l’ultima vagonata di svalutazioni miliardarie in dollari sui titoli della finanza strutturata annunciate da Bank of America, Wachovia e dal PNC Financial Services Group, solo per citare i nomi più importanti.
Una volta sistemato il vertice aziendale, Citigroup si appresta a fare sul serio e, forte anche dei suggerimenti del precedente numero uno Weill, il nuovo amministratore delegato, Vikram Pandit, si appreseterebbe a rifocalizzare radicalmente i principali comparti di attività della multinazionale creditizia statunitense, portando, tanto per gradire, il numero dei licenziandi a 30 mila, un numero che sfiora il 10 per cento dell’attuale organico, pari a circa 330 mila dipendenti.
Venendo all’Italia, si era appena appreso che le banche di credito cooperativo hanno deciso di costituire un fondo di salvataggio per gli effetti che la crisi finanziaria potrà avere sul comparto, che è giunta la notizia che si è rotta la tela di Penelope della riforma delle banche popolari che il paziente tessitore Giorgio Benvenuto, presidente della Commissione Finanze del Senato, aveva in ogni modo cercato di portare a termine.
Perché si tratta di una mossa sbagliata e i cui effetti potrebbero essere diametralmente opposti ai desiderata dei banchieri centrali scesi pubblicamente su un campo che, in realtà, non hanno mai abbandonato a partire dal 9 agosto scorso?
Semplicemente perché quelli che, almeno in materia di politica monetaria, venivano considerati gli uomini più potenti del mondo occidentale hanno le armi spuntate, il che è dimostrato dal fatto che dopo interventi sul mercato per somme mai viste in precedenza, dopo aver esperito in ogni modo possibile la moral suasion nei confronti delle banche, dopo ripetuti tagli dei tassi di interesse negli USA, un taglio almeno in Canada e Gran Bretagna e i non rialzi nell’area dell’euro, le condizioni esistenti nel mercato interbancario, invece di distendersi, si sono irrigidite al punto che i tassi nelle due scadenze di maggior riferimento per mutui e prestiti indicizzati nell’area dell’euro hanno superato, poco prima dell’annuncio, la soglia psicologica del 5 per cento, mentre in Gran Bretagna il differenziale tra l’appena ridotto tasso di riferimento e quelli interbancari si colloca ormai a 120 punti base in favore ovviamente di questi ultimi.
D’altra parte, la reazione isterica del mercato azionario statunitense al terzo taglio di fila sui Fed Funds e la riduzione complessiva di un punto e mezzo del tasso ufficiale di sconto, ma più in particolare il tracollo del comparto bancario e finanziario, principale beneficiario delle sforbiciate compiute ed attese di Bernanke e compagni, è stata più eloquente di ogni analisi e, non a caso lo scenario si è ripetuto nuovamente dopo l’annuncio con un rally prontamente abortito, mentre nel comparto finanziario si è ripetuto, per il secondo giorno consecutivo, la conta dei morti e dei feriti.
Il problema è rappresentato da un’errata analisi delle cause delle crisi, con i giornali che non a caso continuano a vedere nei subprime non tanto la causa scatenante ma il problema dei problemi, incuranti dell’analisi recente del Maestro Alan Greenspan che ha candidamente ammesso che, se non fosse iniziata nel comparto dei subprime, la crisi sarebbe comunque partita prima o poi da uno dei tanti segmenti della finanza strutturata, LBO, CDO, Commercial Papers, ben inzeppati nei veicoli di varia denominazione, SIV e Conduit, opportunamente tenuti fuori dai bilanci delle banche, se non per il passaggio a conto economico delle laute commissioni percepite dalle banche in un’attività che assomiglia molto più a quella di un salumificio che a quella tipicamente creditizia.
E’ utile riportare un passaggio dell’articolo del Maestro pubblicato sul Wall Street Journal, quando afferma che “il rischio ha iniziato ad essere sottoprezzato in modo crescente da quando l’euforia del mercato, sospinta da un tasso di crescita globale senza precedenti, ha sperimentato una spinta cumulativa….la crisi era dunque un evento che stava per accadere”.
Ma vi è un aspetto più grave in questa crisi, che va al di là delle diagnosi giuste o errate e delle corrispettive terapie più o meno giuste, ed è rappresentato dalla scoperta che un mare magnum di liquidità era allocata in organismi che, per la loro natura, erano assolutamente al di fuori della vigilanza delle stesse banche centrali, così come ancora oggi non si capisce se esisteva una qualche istituzione deputata a tutelare un altrettanto mare di risparmiatori rispetto ai rischi insiti in titoli talmente complessi che è nata la nuova figura professionale dello spacchettatore per fornire una risposta di qualche attendibilità alla non marginale questione del valore di mercato di questi stessi titoli.
Non si tratta di un approccio da consumerista o, peggio ancora, da leguleio, quanto della constatazione che volumi di attività finanziarie nell’ordine assolutamente prudenziale di 10-15 mila miliardi di dollari potessero liberamente vagare per il mercato globale senza che, da una semplice analisi incrociata tra assett presenti nei bilanci delle banche e flussi di commissioni, emergesse che una buona parte delle banche globali avesse il controllo, seppur indiretto, di montagne di finanza strutturata multiple dei volumi di carattere più strettamente creditizio.
Non è, peraltro, accidentale che anche la timida proposta del ministro italiano dell’economia, Tommaso Padoa Schioppa, che lo ricordo spingeva l’Ecofin a farsi promotore della istituzione di qualche forma di vigilanza transnazionale nell’ambito dell’Unione europea è stata respinta con perdite da un fronte trasversale che vedeva accomunati i new comers e paesi che rappresentano un pezzo importante della lunga storia dell’Europa comunitaria, ripetendo così il copione che era andata in scena questa estate, quando i nuovi entrati si opposero ad una vigilanza centralizzata sui loro sistemi bancari.
Alla base dell’annuncio della azione coordinata tra le cinque banche centrali vi è anche l’ultima vagonata di svalutazioni miliardarie in dollari sui titoli della finanza strutturata annunciate da Bank of America, Wachovia e dal PNC Financial Services Group, solo per citare i nomi più importanti.
Una volta sistemato il vertice aziendale, Citigroup si appresta a fare sul serio e, forte anche dei suggerimenti del precedente numero uno Weill, il nuovo amministratore delegato, Vikram Pandit, si appreseterebbe a rifocalizzare radicalmente i principali comparti di attività della multinazionale creditizia statunitense, portando, tanto per gradire, il numero dei licenziandi a 30 mila, un numero che sfiora il 10 per cento dell’attuale organico, pari a circa 330 mila dipendenti.
Venendo all’Italia, si era appena appreso che le banche di credito cooperativo hanno deciso di costituire un fondo di salvataggio per gli effetti che la crisi finanziaria potrà avere sul comparto, che è giunta la notizia che si è rotta la tela di Penelope della riforma delle banche popolari che il paziente tessitore Giorgio Benvenuto, presidente della Commissione Finanze del Senato, aveva in ogni modo cercato di portare a termine.
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