L’aprirsi continuo di nuove falle nell’immenso vascello della finanza strutturata è ben testimoniato dal recente messaggio del presidente Bush che, nella cruciale settimana delle feste natalizie, ha dichiarato di attendersi che una vera soluzione dell’impasse economica e finanziaria in corso non potrà venire in tempi rapidi, abbandonando così quell’approccio tranquillizzante, molto di hooveriana memoria, che lo ha contraddistinto nei suoi sette anni di mandato su questo come su tanti altri argomenti, elemento non secondario nella letterale decimazione dei suoi compagni di avventura della prima ora.
Lo stesso richiamo alle armi del più che collaudato navigatore della finanza moderna, Henry Paulson, per lungo tempo numero uno assoluto di Godman Sachs (era, fino all’anno scorso, presidente ed amministratore delegato), ha costituito un tassello tutt’altro che secondario del reshuffling disposto ma in parte subìto da Bush, in quanto è ormai più che chiaro che la crisi scoppiata quest’estate era più che nota, almeno nei suoi aspetti fondamentali, almeno da un anno prima, almeno da quell’autunno del 2006 nel quale lo stato maggiore di Goldman decise, con autentica sorpresa e qualche nota di commiserazione nei quartier generali delle altre grandi banche statunitensi e globali, di cambiare radicalmente strategia e di abbandonare in fretta e massicciamente la nave della finanza strutturata.
E’ troppo presto per indagare sui reali motivi della scelta, così in anticipo sui tempi compiuta dal colosso statunitense e sugli stessi modi di questa ritirata strategica, ma quello che è certo sin d’ora è che ,se vi era un’istituzione con i contatti, le relazioni e il know how adeguati per girarsi in tempi così rapidi, questa era proprio la banca fondata nel 1866 da due oscuri emigranti europei approdati negli Stati Uniti, una banca che vanta il maggior numero di suoi ex ai posti di comando in uno sterminato numero di paesi del mondo e un altrettanto sterminato numero di ex politici e grand commis reclutati, e senza i fastidiosi e numerosi (fino a 100) colloqui a cui si sottopongono i giovani di belle speranze che aspirano ad entrare nel rutilante mondo della grande finanza dalla porta principale.
Va detto, tuttavia, che la sensazione prevalente all’indomani della scelta di Bush, quella che si fosse finalmente messo l’uomo giusto al posto giusto, sembra scemare mano a mano che la situazione degli ultimi mesi, quella che negli USA viene sintetizzata con la classica frase che dice che quando il gioco si fa duro i duri entrano in campo, sta mettendo sempre di più a dura prova le qualità di Paulson, anche perché le scelte che è chiamato a compiere vengono passate sotto la lente di ingrandimento da analisti e teorici dell’economia che sostengono in modo prevalente che la preoccupazione principale del ministro statunitense sembra sempre di più quella di salvare le banche anche a costo di buttare a mare risparmiatori, investitori, mutuatari ed imprese in vario modo ed a vario titolo danneggiati da una finanza corsara che ha operato senza limiti per troppo tempo.
Come dicevo nell’articolo del 3 settembre scorso sulle vere cause di questa tempesta perfetta e che ha dato il via al diario della crisi finanziaria, è importante capire, oltre ovviamente alle cause, anche quando tutto questo processo di mutazione genetica della finanza ha avuto inizio, anche se, altrettanto ovviamente, si tratta di una questione la cui soluzione è alquanto complessa e di non facile soluzione.
D’altra parte, come sostengono la maggior parte degli esperti, una data d’inizio è certamente rappresentata da quel big bang della finanza avvenuto nell’anno di grazia 1985, quando si avvia, anche nei mercati regolamentati, l’operatività nei derivati, opzioni, futures, swap e via discorrendo, con la creazione di meccanismi di clearing che consentono l’adeguamento quotidiano dei margini di garanzia, un’operatività accompagnata da quelle regole di sorveglianza, in particolare nel settore delle derrate alimentari, che si rivelarono fatali per quel vero e proprio corsaro che era Raul Gardini, bloccato dalle autorità statunitensi per aver rastrellato in vario modo gran parte della produzione di soia a livello mondiale e colpito da una multa di dimensioni stratosferiche.
Lo sganciamento sempre più massiccio delle operazioni derivate dai loro effettivi sottostanti, la successiva cartolarizzazione spinta di tutto quello che era possibile cartolarizzare e la realizzazione di strumenti della finanza strutturata sempre più complessi e di difficile comprensione, nonché di valutazione sotto il profilo del rischio effettivo e del grado di liquidità, sono gli elemento che, in estrema e quasi butale sintesi, hanno determinato, da un lato, un turnover quotidiano di derivati, titoli e valute che, secondo le ultime stime, si aggira sui 2.500 miliardi dollari ed una distanza tra i volumi dell’economia di carte e quelli dell’economia reale che avrebbe dovuto far scattare campanelli d’allarme già negli ultimi decenni del secolo scorso.
Anche se quello che ha maggiori connessioni con l’attuale tempesta perfetta è rappresentato dal dilagare di un modo di fare credito basato sulla traslazione sempre più massiccia del rischio dal concedente ad altri soggetti, non vi è dubbio, tuttavia, che la miriade di strumenti e di prodotti che hanno accompagnato questo trasferimento e la conseguente drastica riduzione degli standard di valutazione del merito creditizio, finanziario ed industriale del richiedente hanno giocato e giocano un ruolo tutt’altro che trascurabile nella moltiplicazione degli effetti negativi derivanti dal mutamento radicale del profilo del banchiere, del finanziere e dell’assicuratore.
In questo scenario, l’operato di Paulson e soci e di Bernanke e compagni segnala un’incapacità ad aggredire le cause della crisi che nasce anche dalla visione prevalente della stessa e da una strumentazione che si rivela ogni giorno che passa inadeguata anche per la citata e voluta lack of analysis, ma, ancor di più, per la resistenza degna di miglior causa che questi protagonisti dell’economia globale mostrano di avere verso il problema centrale che è rappresentato dalla necessità di introdurre regole semplici, severe ed applicabili che rassicurino gli investitori sul fatto che acquistare un titolo non può e non deve rappresentare automaticamente assumere un rischio che deve tassativamente rimanere in capo al concedente il credito.
Lo stesso richiamo alle armi del più che collaudato navigatore della finanza moderna, Henry Paulson, per lungo tempo numero uno assoluto di Godman Sachs (era, fino all’anno scorso, presidente ed amministratore delegato), ha costituito un tassello tutt’altro che secondario del reshuffling disposto ma in parte subìto da Bush, in quanto è ormai più che chiaro che la crisi scoppiata quest’estate era più che nota, almeno nei suoi aspetti fondamentali, almeno da un anno prima, almeno da quell’autunno del 2006 nel quale lo stato maggiore di Goldman decise, con autentica sorpresa e qualche nota di commiserazione nei quartier generali delle altre grandi banche statunitensi e globali, di cambiare radicalmente strategia e di abbandonare in fretta e massicciamente la nave della finanza strutturata.
E’ troppo presto per indagare sui reali motivi della scelta, così in anticipo sui tempi compiuta dal colosso statunitense e sugli stessi modi di questa ritirata strategica, ma quello che è certo sin d’ora è che ,se vi era un’istituzione con i contatti, le relazioni e il know how adeguati per girarsi in tempi così rapidi, questa era proprio la banca fondata nel 1866 da due oscuri emigranti europei approdati negli Stati Uniti, una banca che vanta il maggior numero di suoi ex ai posti di comando in uno sterminato numero di paesi del mondo e un altrettanto sterminato numero di ex politici e grand commis reclutati, e senza i fastidiosi e numerosi (fino a 100) colloqui a cui si sottopongono i giovani di belle speranze che aspirano ad entrare nel rutilante mondo della grande finanza dalla porta principale.
Va detto, tuttavia, che la sensazione prevalente all’indomani della scelta di Bush, quella che si fosse finalmente messo l’uomo giusto al posto giusto, sembra scemare mano a mano che la situazione degli ultimi mesi, quella che negli USA viene sintetizzata con la classica frase che dice che quando il gioco si fa duro i duri entrano in campo, sta mettendo sempre di più a dura prova le qualità di Paulson, anche perché le scelte che è chiamato a compiere vengono passate sotto la lente di ingrandimento da analisti e teorici dell’economia che sostengono in modo prevalente che la preoccupazione principale del ministro statunitense sembra sempre di più quella di salvare le banche anche a costo di buttare a mare risparmiatori, investitori, mutuatari ed imprese in vario modo ed a vario titolo danneggiati da una finanza corsara che ha operato senza limiti per troppo tempo.
Come dicevo nell’articolo del 3 settembre scorso sulle vere cause di questa tempesta perfetta e che ha dato il via al diario della crisi finanziaria, è importante capire, oltre ovviamente alle cause, anche quando tutto questo processo di mutazione genetica della finanza ha avuto inizio, anche se, altrettanto ovviamente, si tratta di una questione la cui soluzione è alquanto complessa e di non facile soluzione.
D’altra parte, come sostengono la maggior parte degli esperti, una data d’inizio è certamente rappresentata da quel big bang della finanza avvenuto nell’anno di grazia 1985, quando si avvia, anche nei mercati regolamentati, l’operatività nei derivati, opzioni, futures, swap e via discorrendo, con la creazione di meccanismi di clearing che consentono l’adeguamento quotidiano dei margini di garanzia, un’operatività accompagnata da quelle regole di sorveglianza, in particolare nel settore delle derrate alimentari, che si rivelarono fatali per quel vero e proprio corsaro che era Raul Gardini, bloccato dalle autorità statunitensi per aver rastrellato in vario modo gran parte della produzione di soia a livello mondiale e colpito da una multa di dimensioni stratosferiche.
Lo sganciamento sempre più massiccio delle operazioni derivate dai loro effettivi sottostanti, la successiva cartolarizzazione spinta di tutto quello che era possibile cartolarizzare e la realizzazione di strumenti della finanza strutturata sempre più complessi e di difficile comprensione, nonché di valutazione sotto il profilo del rischio effettivo e del grado di liquidità, sono gli elemento che, in estrema e quasi butale sintesi, hanno determinato, da un lato, un turnover quotidiano di derivati, titoli e valute che, secondo le ultime stime, si aggira sui 2.500 miliardi dollari ed una distanza tra i volumi dell’economia di carte e quelli dell’economia reale che avrebbe dovuto far scattare campanelli d’allarme già negli ultimi decenni del secolo scorso.
Anche se quello che ha maggiori connessioni con l’attuale tempesta perfetta è rappresentato dal dilagare di un modo di fare credito basato sulla traslazione sempre più massiccia del rischio dal concedente ad altri soggetti, non vi è dubbio, tuttavia, che la miriade di strumenti e di prodotti che hanno accompagnato questo trasferimento e la conseguente drastica riduzione degli standard di valutazione del merito creditizio, finanziario ed industriale del richiedente hanno giocato e giocano un ruolo tutt’altro che trascurabile nella moltiplicazione degli effetti negativi derivanti dal mutamento radicale del profilo del banchiere, del finanziere e dell’assicuratore.
In questo scenario, l’operato di Paulson e soci e di Bernanke e compagni segnala un’incapacità ad aggredire le cause della crisi che nasce anche dalla visione prevalente della stessa e da una strumentazione che si rivela ogni giorno che passa inadeguata anche per la citata e voluta lack of analysis, ma, ancor di più, per la resistenza degna di miglior causa che questi protagonisti dell’economia globale mostrano di avere verso il problema centrale che è rappresentato dalla necessità di introdurre regole semplici, severe ed applicabili che rassicurino gli investitori sul fatto che acquistare un titolo non può e non deve rappresentare automaticamente assumere un rischio che deve tassativamente rimanere in capo al concedente il credito.
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