Come era largamente prevedibile, la stagione degli annunci dei risultati del quarto trimestre e di quelli relativi all’intero esercizio da parte delle banche statunitensi di ogni ordine e grado, una stagione che per lunghissimo tempo è stata prodiga di buone notizie per gli azionisti e di rilevanti bonus per manager e dipendenti, si preannuncia, e siamo solo ai dati di tre banche, una via dolorosa e costellata, per fortuna solo metaforicamente, di morti e feriti in gran quantità.
Dopo i modesti risultati della preveggente Goldman Sachs, in parte vittima dello stesso gioco al massacro iniziato oltre un anno fa, e la perdita multipla rispetto alle previsioni degli analisti nel quarto trimestre di quest’anno riportata da Morgan Stanley, banca che se le era sostanzialmente cavata nel terribile terzo trimestre, è giunta ieri, non proprio come un fulmine a ciel sereno, la prima perdita trimestrale in 84 anni sopportata da Bear Stearns, che ha evidenziato un risultato negativo per 859 milioni di dollari, pari a 6,9 dollari per azione, ma, il che è ben più grave, ricavi netti negativi per 1,5 miliardi di dollari.
La perdita di Bear supera di più di quasi quattro volte le già nere previsioni degli analisti, nessuno dei quali era, inoltre, giunto sino ad ipotizzare un valore negativo dei ricavi della piccola ma prestigiosa appartenente al club delle Big Five statunitensi, che nell’ultimo trimestre del 2006 aveva comunicato un utile pari a 558 milioni di dollari e ricavi per la ragguardevole cifra di 2,41 miliardi.
In un comunicato, Bear Stearns ha informato gli azionisti e gli operatori economici che quest’anno tutti i membri del comitato esecutivo della banca, incluso l’amministratore delegato, James Cayne, non riceveranno il previsto bonus, che nel 2006 aveva ricevuto ben 40 milioni di dollari a questo titolo, mentre dallo stesso comunicato non si evince se analoga e triste sorte toccherà anche agli altri manager e dipendenti della banca.
Nel frattempo, una breve conferenza davanti ad una rappresentanza degli azionisti del gigante semipubblico del settore dei mutui immobiliari USA, Fannie Mae, che doveva, nelle intenzioni del presidente ed amministratore delegato, Daniel Mull, rassicurare gli intervenuti sul futuro della società si è risolta in un fiasco clamoroso e si è risolta in un tiro a segno nei confronti dell’infelice numero uno e in dichiarazioni di totale sfiducia nei confronti di tutti gli attuali membri del board di Fannie Mae, che, lo ricordo per chi non segue questo diario, è stato insediato dopo il grave scandalo contabile da 6,3 miliardi di dollari emerso nel corso del 2004.
A differenza di quanto è accaduto l’altro ieri per Morgan Stanley, che, dopo l’annuncio dei disastrosi dati ha visto le sue azioni salire significativamente, forse perché si è pensato che la banca avesse realmente voltato pagina, le azioni di Bear ieri, nonostante un sospetto e voluminoso sostegno, hanno perso decisamente terreno, anche perché il comunicato ufficiale si è dimenticato, almeno nella sua prima stesura, di quantificare l’esatta entità delle svalutazioni operate su un più che significativo portafoglio di titoli della finanza strutturata, in particolare pesante nel settore dei mutui immobiliari.
Non è fuori di luogo ricordare che Bear Stearns era stata nei mesi scorsi l’apripista, ovviamente come le seguenti debitamente autorizzata dal ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, nell’aprire le porte del proprio azionariato per l’equivalente di un miliardo di dollari all’ormai famoso fondo governativo cinese, che, solo l’altro ieri, ha ipotecato, puntando con decisione sul tavolo una fiche da 5 miliardi di dollari, una quota azionaria pari al 10 per cento della ben più potente Morgan Stanley, mediante un prestito obbligazionario convertibile a tassi del 9 per cento, superiori a quelli che si pagano su uno junk bond, ossia su un titolo amichevolmente definito spazzatura, ma sempre inferiori all’11 per cento garantito da Citigroup al più avido o soltanto più accorto fondo governativo di Singapore.
Mentre il colosso creditizio britannico HSBC annuncia con una certa sicurezza che l’Irlanda, buon per lei, non verrà di fatto toccata dalla crisi immobiliare, continua, anche a causa delle non certo casuali dichiarazioni del solitamente accorto e potente finanziere italiano Carlo De Benedetti sull’esposizione di non meglio precisate ed identificate banche europee per 340 miliardi sulla parte meno solida dei titoli della finanza strutturata, l’inquietudine degli operatori economici dell’area euro e di quella britannica che, nonostante gli sforzi titanici del board della Banca Centrale Europea, continuano a non fidarsi di nulla che non sia più che certificato e sicuro.
Lo stesso affollamento registrato mercoledì alla ben più misera asta della Federal Reserve, con richieste che superavano di più di tre volte il quantitativo di 20 miliardi di dollari ormai offerto un giorno sì e l’altro pure, rappresenta un significativo segnale del fatto che, anche al di là dell’Oceano, l’inquietudine e la paura continuano a regnare sovrani e che l’approssimarsi della scadenza di fine anno non aiuta certamente a rasserenare gli animi, anche perché un sondaggio effettuato da uno dei più importanti siti finanziari statunitensi tra persone interessate ai mercati rivela che quasi il 60 per cento (59 per cento) di coloro che hanno risposto vedono ormai con certezza approssimarsi la recessione o qualcosa che le assomiglia terribilmente.
In un mondo ormai così globalizzato, non stupisce che gli italiani, stretti nella morsa della più rilevante perdita di potere d’acquisto mai verificatasi dal secondo dopoguerra, si rivolgono ormai sempre più massicciamente alle varie forme in cui si presenta il credito al consumo, un mercato, almeno in Italia, largamente dominato dalle banche che, però, nella maggior parte dei casi operano attraverso società finanziarie totalmente controllate, anche al fine di godere, al pari delle finanziarie vere e proprie, di soglie di riferimento per il tasso di usura molto più elevate di quelle cui sono sottoposte quando operano direttamente come banche.
Come ebbe giustamente a dire al proposito Giuseppe Turani su Repubblica: “Non sarebbe il caso che qualcuno, prima o poi, si occupasse di questa questione del doppio tasso di riferimento tra banche e finanziarie?”.
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prova
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